Venti dal muro
di Giorgio Morgione
C’è un libro nero per tutto. Quello del Comunismo, quello del Capitalismo, quello del post-Comunismo e se non è già in libreria poco manca perché se ne abbia uno anche per il post-Capitalismo. Nel libro nero del Comunismo Stéphane Courtois sostiene che durante il secolo breve i regimi comunisti abbiano mietuto 100 milioni di vittime. Si può credere qualunque cosa, persino che i morti sotto il Comunismo siano 200 milioni, ma è altrettanto possibile dire qualcosa in più sul fatto che quei presunti 100 milioni di morti siano avvenuti in un arco di tempo durato 80 anni circa e che in quello stesso tempo sono andati consumandosi due conflitti mondiali e una guerra sistemica e ideologica durata 45 anni.
Ma diciamo piuttosto qualcosa su quel che è successo dopo l’URSS. Di recente, dalle università di Oxford, di Cambridge e dalla londinese scuola per l’igiene e la medicina tropicale, è comparso un articolo su The Lancet dal titolo Mass Privatization and the Post-Communist Mortality Crisis: A Cross-National Analysis . Si tratta di uno studio sugli effetti della libertà conquistata nei paesi del blocco sovietico dopo la fine della Guerra fredda. Ebbene pare che l’ingresso del “mondo ricco” e libero nella società dell’Europa dell’est non sia stato poi così salutare e che dalla caduta del muro di Berlino al 2002 questa iniezione di liberalismo sia costata la morte prematura di un milione di persone.
L’esplodere della corruzione e dei fenomeni mafiosi, la corsa selvaggia alla privatizzazione e l’improvvisa apertura ad un’economia di mercato sono tra i peggiori lati oscuri del processo di democratizzazione avviatosi dopo la rimozione della cortina di ferro.
Non si è trattato dunque di un’evoluzione virtuosa se, come ci dicono i risultati dello studio pubblicato su The Lancet, la prassi capitalistica e le politiche della privatizzazione di massa nei paesi dell’Europa dell’est hanno aumentato la mortalità del 12,8%. Per fare un esempio, in Russia, dove la shock terapy è stata più intensa che in altri paesi socialisti, nella prima metà degli anni ‘90, l’aspettativa di vita si è accorciata del 5%. Insomma sembra che vi sia un rapporto inversamente proporzionale tra la velocità del processo di privatizzazione e la durata della vita.
Già a partire da simili dati viene da chiedersi se il crollo del muro fu davvero un’emancipazione, se la libertà desiderata da molti abitanti dell’est non si sia trasformata in una pericolosa illusione e che pertanto la fine della Guerra fredda, specie se si hanno ad oggetto le trasformazioni della società civile, non abbia ancora né un vincitore né un vinto.
A questo proposito, il libro di Alain Touraine, Critica della modernità, mi offre uno spunto per una proposta interpretativa. Nel suo saggio Touraine parla di processo di soggettivazione dell’individuo, e fornisce una precisa definizione delle figure coinvolte in questo stesso processo.
L’individuo è l’io che obbedisce alle regole del proprio sistema sociale e anche se non le condivide, non si oppone o non può opporsi ad esse.
Il soggetto è viceversa l’espressione dell’individuo che ha compiuto un balzo qualitativo, un io che scatena il suo dissenso, si oppone, si afferma come «posizione di resistenza e di appello contro un ordine e un potere»
Se si parla di Guerra fredda, si può essere tentati di associare subito l’individuo represso di Touraine al blocco orientale; mentre la sua figura più realizzata, il soggetto, sarebbe l’abitante di quel mondo libero del sistema capitalistico.
Ma il punto dove voglio arrivare ha a che fare con l’idea che la fine della Guerra fredda non ha soltanto sancito il fallimento del modello sovietico, ma ha anche rivelato una certa debolezza del modello capitalistico occidentale.
Come società programmata e ben prima della glasnost gorbaceviana, il comunismo novecentesco ha esplicitato abbondantemente i sacrifici che il suo popolo avrebbe dovuto compiere per il raggiungimento del benessere. Il polso rigido della nomenklatura si è ampiamente dichiarato, dalle prassi positive come l’economia pianificata, a quelle negative come la repressione delle insurrezioni. Anche durante i suoi ultimi respiri, mentre dal suo palazzo avviava i programmi di distensione e trasparenza, l’URSS di Gorbacev non dimostrava certo l’intenzione di togliere né a se stessa, né agli altri paesi del patto di Varsavia la natura di sistema unitario: uomini e carri armati continuavano ad essere impiegati per arrestare le azioni indipendentiste che si manifestavano nelle repubbliche popolari. Similmente accadeva nella DDR e a Berlino est, dove si poteva morire come Peter Fechter, sparato e lasciato in agonia tra il filo spinato e sotto gli occhi di tutti. Il blocco sovietico ha insomma giocato, nel bene o nel male, una partita a carte scoperte.
Dall’altra parte il blocco occidentale. Non si può credere che tutto il popolo sia incantato da Holliwood e cerchi la propria realizzazione soltanto nel denaro e nella stupidità, tuttavia è credibile che l’ovest capitalistico abbia perseguito i suoi scopi manipolatori sfruttando l’attrattiva di programmi più facili, intrisi di spirito d’iniziativa antistatalista e di garanzie dello spazio privato, programmi che in buona parte miravano a ridurre l’individuo ad un’esistenza il cui ruolo preminente era quello del consumatore. Quando nella prima metà degli anni ’80 la Rfg toccò l’apice della recessione economica, si ritenne colpevole lo Stato assistenziale. Fu allora facile per la coalizione liberaldemocristiana (Cdu/Csu-Fdp) vincere le elezioni del 6 Marzo del 1983, aiutati dal motto «weg von mehr Staat, hin zu mehr Markt», ovvero «meno Stato, più mercato ».
Paradossalmente, a pochi anni dalla riunificazione, la distanza tra la Germania dell’ovest e quella dell’est non è mai stata così grande e mentre quella distanza aumentava, all’est l’immagine dell’ovest diveniva sempre più un’attrattiva irresistibile. Chi può autorizzarci dunque a biasimare l’individuo che gioisce quando il muro si sbriciola, lui che fino a oggi ha obbedito alla costrizione di un’ideologia collettivistica?
Ci si continua a chiedere se era prevedibile quel che è successo nell’’89 e si è in buona parte d’accordo nel rispondere di no. Non era prevedibile, almeno in quei termini. È tuttavia indubbio che vi siano state chiare avvisaglie di una non molto lontana riunificazione: con l’avvento di Kohl la Germania diresse il suo volto diplomatico ad Est e iniziò a manifestarsi un certo clima di distensione tra la Repubblica federale e quella democratica. Resta il fatto che i berlinesi in quel 9 Novembre accolsero la notizia dell’apertura dei varchi increduli. Chiunque aveva, in quei 28 anni, sognato di scavalcare il muro e può dirsi certo che in molti hanno anche pensato almeno una volta a come riuscirci senza farsi avvistare dai Vopos. Il 9 Novembre erano quindi tutti increduli, ma nessuno impreparato.
Ma poniamo ancora un altro quesito: cosa c’era ad attendere al di là del muro l’individuo dell’est?
Continuando ad utilizzare le definizioni che dà Touraine di individuo e soggetto, viene da chiedersi se, superando il muro, l’individuo dell’est abbia compiuto quel balzo verso il terreno della propria realizzazione come soggetto, se la transizione all’altra metà del mondo non possa considerarsi da parte dell’individuo, un atto di dissenso verso un potere ed un ordine, che prelude e sostanzia la sua soggettivazione.
In altri termini, ha il sistema capitalistico offerto all’individuo dell’est la possibilità di realizzarsi in libertà e autonomia?
L’individuo dell’est si immerge presto nella società e nello stile di vita dell’ovest, ne rimane immediatamente assorbito perché riversa il suo potenziale soggettivo nel segno, cioè nell’oggetto di consumo, piuttosto che nel senso, cioè nella consapevolezza di avere a che fare con un altro sistema, sebbene assai diverso nell’aspetto e nelle procedure, ma pur sempre un sistema.
Se il desiderio di oltrepassare la cortina era così forte per molti abitanti dell’est è evidente che il processo d’industrializzazione, l’istruzione, la sanità, l’abitazione in cambio di un quinto dello stipendio non erano sufficienti a colmare il vuoto di soggettivazione che i regimi comunisti avevano creato nel popolo.
D’altra parte il caso di Susanne Albrecht, la terrorista diciannovenne coinvolta nell’uccisione del banchiere Jurgen Ponto perché -ha detto- nauseata dalla stupidità e dalla sovrabbondanza del consumismo –il suo motto era “basta con il caviale!”, oppure quello di Conrad Schumann, sottufficiale della DDR divenuto famoso per essere fuggito all’Ovest e qualche anno più tardi si è suicidato perché, come titola un articolo del Corriere della Sera del 22 Giugno 1998, “all’ovest non aveva trovato il paradiso”, sono fatti emblematici di un modello occidentale parimenti incapace di dare sfogo alla soggettivazione. La caduta del muro insomma possiede ancora soltanto un carattere simbolico di emancipazione e anche se sono trascorsi vent’anni, la fine della divisione del mondo non ha significato il trionfo planetario della società del benessere.
Se la Guerra fredda sia davvero terminata dopo la caduta del muro è ancora prematuro dirlo –si guardi per esempio a quanto è accaduto di recente sulla questione dello scudo spaziale- si può affermare tuttavia che il processo di riunificazione del mondo porta nel proprio ventre l’approdo a libertà fino a prima negate.
Sarebbe ingenuo sostenere che chi abitava nell’est immaginava l’ovest come un paradiso terrestre dove realizzare ogni suo sogno, è tuttavia ragionevole affermare che il solo abbattimento delle barriere e il riconoscimento di un diritto di transito hanno rappresentato l’inizio di un processo dialettico ancora in corso e dal quale emergono sempre più chiaramente le insufficienze di entrambi i sistemi.