Tre storie per il Settantasette
di Valerio Romitelli
Penso che tre siano le storie possibili del Settantasette e che sia bene tenerle distinte.
La prima è quella che tratta il Settantasette come “battesimo”, la seconda quella che lo tratta come un “crimine di Stato”, la terza invece come un “funerale”, con annesso un implicito lascito, ovvero un’eredità controversa.
Perché proprio tre? La risposta è assai semplice: perché con la prima storia, del Settantasette come “battesimo”, si ragiona come se questo evento fosse in continuità con l’oggi; mentre con la terza storia, del Settantasette come “funerale”, lo si considera come un evento che chiude un passato. Chiunque analizza il Settantasette dal punto di vista dell’esperienza politica che vi ebbe luogo non può non scegliere per l’una o l’altra opzione. Quanto poi alla seconda storia, il Settantasette come storia di un crimine di Stato, essa riguarda la storia delle contese attorno al potere.
La prima storia la chiamerei la storia “media” del Settantasette. “Media” in più sensi. Anzitutto, perché ha già un suo riscontro mediatico. Ha i suoi libri, i suoi articoli di riviste e giornali, i suoi film, la sua musica e quindi anche i suoi fans.
Ma “storia media” anche perché è una storia di “media” e di soggetti di media comunicativi: Radio Alice come antecedente del nuovo “cognitariato” che quotidianamente si forma grazie ad Internet e a tutte le condizioni create dalla cosiddetta rivoluzione informatica.
Ma “storia media” anche per una terza ragione. Perché, pur proseguendo la tradizione egualitaria e anticapitalista del marxismo, considera già mediata, già superata, la contraddizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che di questa tradizione era il nucleo centrale. Tale è infatti uno degli obiettivi teorici decisivi del porre la “moltitudine cognitiva” a soggetto storico-sociale principale: l’obiettivo di giustificare e esaltare una posizione soggettiva “mediana”, quella cioè che più conviene a tutta quell’ampia fascia dell’opinione tipica dei paesi più ricchi; sarebbe a dire quell’opinione che, pur non amando il capitalismo, non si sente attratta né dai cimenti intellettuali, né dai problemi di chi per lavorare non ha che le mani.
Ma questa storia è media anche perché fa del sociale, della conflittualità sociale il piano su cui si sintetizzano e si risolvono sia i problemi oggettivi dello Stato, sia i problemi della soggettività politica.
In effetti il Settantasette secondo questa storia non sarebbe che il “battesimo del fuoco”, anche tragico, ma necessario, per la nascita della prima ed innocente moltitudine di cui, oggi, a globalizzazione dispiegata, si vedrebbe il pieno sviluppo.
La seconda storia, la storia del Settantasette come crimine di Stato, mi sembra invece ancora in gran parte da fare.
Qui il fatto da cui partire è, oltre il successo elettorale del Pci nel 1976, il contemporaneo sviluppo degli istituti regionali varati nel 1970, e aventi nel modello rosso emiliano, e più in particolare bolognese, un modello guida. Un modello conosciuto e studiato nel mondo intero, tanto più singolare quanto più formatosi all’interno di un paese come l’Italia, particolarmente sotto il controllo degli USA.
Mi pare che non di rado si sottovaluti quanto l’attrattiva del modello rosso emiliano bolognese nei primi anni Settanta abbia davvero preoccupato il regime Dc tradizionalmente accentrato a Roma. Questo regime credo abbia davvero temuto un possibile accerchiamento da parte delle amministrazioni locali simpatizzanti del modello bolognese.
D’altra parte, si sbaglia a credere che il “compromesso storico”, che dal 1973 comincia ad essere proposto da Pci, fosse solo una forma di “inciucio”. Era anche e soprattutto un tentativo di promuovere il proprio “sorpasso” elettorale e di renderlo non troppo traumatico per la Dc o almeno per alcuni suoi pezzi.
Ecco quindi che il marzo Settantasette, con l’omicidio di Lorusso e con la messa a ferro e fuoco di Bologna per alcuni giorni, acquista un significato tutto interno alle lotte di potere tra Dc e Pci.
Nel giro di quei pochissimi giorni, infatti, non vanno in frantumi solo le vetrine eleganti del centro storico, ma va in frantumi anche e soprattutto quell’immagine di città virtuosa, che era stata operosamente costruita e mantenuta in più di trent’anni. Buon governo locale: sinergia tra Comune, Regione, Provincia, Sindacati, partito, piccola e media industria; la pacifica piazza mai particolarmente turbata neanche dalla conflittualità degli anni Sessanta: tutto ciò viene offuscato dal fumo delle barricate provocate dai tiratori scelti e dagli autoblindo di Cossiga.
Che l’establishment cittadino abbia condannato chi si rivoltava contro queste provocazioni non deve troppo stupire. Anche se certi atti e certe dichiarazioni, specie di fronte all’omicidio di Francesco, non possono ancora fare sobbalzare per lo scandalo e il disgusto. Ma non si deve credere ad un cedimento momentaneo di fronte all’iniziativa avversa; i comunisti bolognesi certo sono colti di sorpresa dall’irruenza dell’attacco democristiano, ma la loro reazione è volta solo a dimostrare che nessun crimine di Stato può minare la loro “fermezza” a restare dentro i giochi di potere.
Una “fermezza” che peraltro ha continuato in seguito a essere messa a dura prova, tramite tutte le ferite, fino a quella più efferata dell’agosto 1980, di cui Bologna è stata oggetto.
Il Settantasette, dunque, come storia da inscrivere in quella nota come “strategia della tensione” o delle “stragi di Stato”. Storie, comunque, che sono, come ben noto, lungi dall’essere compiute o concluse, anche nei fatti. Storie che sono comunque tutte storie di giochi di potere; giochi di potere la cui dinamica dipende anzitutto e soprattutto dalle contese tra i partiti.
La terza storia é quella del Settantasette come funerale e come “lascito”, come eredità controversa.
Qui parlo di un “funerale” e di un “lascito” in termini di soggettività e di organizzazione politica. Termini che pongo sempre al centro della “Storia dei movimenti e dei partiti politici” quale la insegno all’Università.
Da questo punto di vista, mi sembra allora il caso di sostenere che il funerale il Settantasette lo ha fatto al leninismo. E che l’eredità da esso lasciata è l’apertura su un orizzonte politico decisamente post-leninista.
Spiego i termini. Per leninismo, qui, non intendo affatto il pensiero di Lenin. Va da sé che come Marx non era marxista, così Lenin non era leninista. Ogni “ismo”, ossia ogni configurazione dottrinaria, è sempre posteriore alla sua fonte prima. Ebbene, per leninismo intendo qui una determinata dottrina del dire e del fare politica: una delle maggiori, se non la maggiore, del XX secolo, fissata in dogmi da Stalin nel corso degli anni Venti, quando stava istituendo il suo monopolio nella costruzione dell’Urss. Al suo testo Le questioni del leninismo si sono formate infatti generazioni e generazioni di militanti e funzionari, nel mondo intero e soprattutto in quella che è stata la sua metà a regime socialista; e ciò fino sul finire degli anni Sessanta.
Suo dispositivo essenziale sta nell’associazione di quattro o cinque termini: classe, partito, partito e lotta fra stati, capitalisti e socialisti, il tutto inscritto in una visione storicistica avente come termine ultimo il comunismo, ovvero una prospettiva egualitaria a lunga scadenza.
(Osservo di scorcio che sarebbe sbagliato credere che la “svolta di Salerno” attuata da Togliatti nell’aprile del 1944 e la successiva strategia della “democrazia progressiva” si pongano fuori di questa dottrina. Ne sono piuttosto delle riformulazioni tardive e comunque non forgiate esclusivamente per l’Italia. In effetti, sono perfettamente omogenee all’obiettivo delle “democrazie popolari” che nel 1947 permette di estendere in tutta Europa dell’Est l’influenza sovietica. Il punto è che per il leninismo la “rivoluzione” è sempre affare di partito e di lotta fra Stati, di modo che la sua conversione in “Riforme di Struttura” perseguite soprattutto tramite iniziative parlamentari non mina al fondo alcun “principio”).
Per post-leninismo intendo invece la prospettiva apertasi essenzialmente attorno al Sessantotto, in Italia ad opera soprattutto di quelli che allora si chiamavano i gruppi extraparlamentari. L’uso del prefisso “post” è facile e non dice molto. Se lo uso è perché credo importante avere ben presente due note caratteristiche di questi gruppi: che tutti, in modo o in un altro, hanno assunto il leninismo come un loro parametro decisivo, ma che, d’altra parte, lo hanno fatto solo per discostarsene su ognuno dei suoi termini fondamentali.
Si pensi alla forma di partito, che tutti questi gruppi (a parte alcuni tentativi grotteschi) hanno decisamente escluso, pur dando quanto mai importanza alla questione dell’organizzazione politica. Si pensi ai rapporti con i poteri dello Stato, da cui tutti questi gruppi si sono tenuti ben distanti, evitando sia di candidarsi al Parlamento sia di rifarsi al modello sovietico (e se ci sono stati dei tentativi di fare i filocinesi il fatto stesso che o Stato fosse sconvolto dalla rivoluzione culturale ha reso la faccenda pressoché impossibile). Quanto poi alla “classe”, alla classe operaia, essa è stata certo riconvocata dal Sessantotto, ma in modo così dirompente da farla esplodere tutto a vantaggio degli operai, di ogni singolo operaio che dimostrasse capacità di pensare e di agire in proprio; accanto ad essi appariva poi una inedita figura politica, quella degli studenti, ben presto trasformatisi in militanti politici.
(Come è noto, l’analisi dominante di questo punto cruciale è quella dovuta alla scuola di pensiero operaista e alla teorizzazione del passaggio dall’“operaio professionale” all’“operaio massa”, tipico del fordismo, il quale a sua volta sarebbe poi rilevato dall’“operaio sociale”, preludio infine della “moltitudine” post-fordista oggi in movimento. Se qui non utilizzo nessuna di queste categorie non è per caso, ma perché non condivido affatto l’impostazione generale che le sottende. Un’impostazione che è sicuramente più compatibile con la storia “media” di cui ho parlato più sopra).
A tenere tutto insieme non era più l’avvenire storico del comunismo, ma il “far politica”, il farla organizzandosi senza partito, a distanza dallo Stato e tra operai, studenti e gente senza potere.
E tuttavia sarebbe esagerato sostenere che il Sessantotto si sia completamente scrollato di dosso ogni retaggio leninista. La tentazione di fare o di comportarsi da partito, l’idea di misurare la propria politica sull’impatto che questa poteva avere sullo Stato, il sogno di conquistarne il potere, le precoci astuzie d’apprendista “funzionario rosso”: tutto ciò non è certo mancato al Sessantotto.
In ogni caso è chiaro che la sua sequenza più intensa e più decisamente post-leninista si esaurisce in pochi anni (nel ’70? nel ’71? nel ’72? nel ’73?). E tra i gruppi e i militanti che comunque continuano ad esistere malgrado questo esaurimento, sicuramente il peso del leninismo torna a farsi sentire, magari anche in forme inavvertite o particolarmente pervertite.
Ecco dunque che il Settantasette viene a far piazza pulita di tutti questi residui. Un vero e proprio funerale dunque. un funerale politico, perché comunque nel Settantasette i tentativi di organizzazione, la distanza dallo Stato, la rivendicazione di essere gente senza potere, gli operai differenziati dal movimento operaio, il dire e il fare della politica e tutte altre cose di questo genere non sono certo mancati.
Funerale comunque, perché la sottrazione, il congedo, l’abbandono rispetto a vecchie forme di militanza sono stati del tutto prevalenti e nessuna nuova, chiara figura ne è venuta fuori.
Fuori ne sono invece venute, e in abbondanza, delle figure luttuose, disperate. Tra tutte, quelle della P38 e della siringa.
Certo lo Stato ha le sue gravi responsabilità in merito, ma è indubbio che questi due simboli siano stati investiti di un luttuoso desiderio di annichilamento, contro se stessi e/o contro i “nemici”, che, a Settantasette finito, non ha risparmiato nessuno che vi aveva preso parte.
Studiare e discutere del Settantasette dal punto di vista della storia della soggettività e dell’organizzazione politica significa quindi cercare di cogliere il senso del suo lascito, in quanto conclusione di quella prima grande stagione di esperienze politiche che si sono inaugurate col Sessantotto e che per comodità ho chiamato post-leniniste.
Certo è che, se non si dà alcuna importanza alla storia del leninismo, a maggior ragione non si troverà alcun interesse nel trattare il Settantasette come un “funerale”. Ma sono convinto che, così facendo, si può solo andare a finire su una visione storicistica e pre-leninista della politica. Ossia una visione di tipo addirittura ottocentesco dove sono l’evoluzione tecnologica e sociale e i conflitti col potere a decidere di tutto.
Credo difficile che da simili impostazioni possa venire un bilancio molto stimolante su quel che è stato il Settantasette.
(da Storie di politica e di potere, Edizioni Cronopio, Napoli, 2004).