Tre, quattro modi di pensare l’invasione russa
di Valerio Romitelli
Nell’orrenda e funesta occasione dell’invasione russa dell’Ucraina si sono scatenate in Italia come nel resto del mondo feroci dispute nelle quali si sono espressi diversi modi di pensare la politica, raramente esplicitati e meditati come tali. Qui provo a proporne una mia concisissima rassegna, tenendo presente soprattutto la novità dell’epoca in cui siamo calati e quanto ne resta di impensato.
I
Comincio ovviamente col modo di pensare degli invasori e di chi li sostiene più convintamente. Di tale visione appare subito innegabile l’autoritarismo dispotico, nazionalista e imperialista, fondato su una mitologia in buona parte religiosa che celebra il posto privilegiato riservato nei destini del mondo alla Grande Madre Russia: il tutto associato ad un tradizionalismo patriarcale e nostalgico sia dell’antico passato zarista, sia del più recente passato sovietico. L’invasione dell’Ucraina così si comprende come reazione, tanto brutalmente eccessiva quanto arcaici e fondamentalisti sono i valori così difesi, alle ferite procurate su questa visione dalle provocazioni perseguite dagli Stati Uniti e i suoi alleati, con la complicità dei governi ucraini succedutisi a quello filorusso di Yanukovich nel 2014, e acuitesi particolarmente con Zelensky.
Tantissimi sono ovviamente sono i dettagli che restano fuori da un simile abbozzo supersintetico del modo di pensare la politica dominante tra i russi e i suoi seguaci più fedeli, ma direi che per l’essenziale è proprio così che si presenta e viene rappresentato. Manca però un dato ulteriore da aggiungere. Il dato che tutto questo armamentario ideologico d’impronta sicuramente anacronistica va letto nella dinamica singolare che ha assunto negli ultimi anni. Ossia da quando ha goduto del nuovo spirito del tempo ovvero della nuova disposizione soggettiva che è globalmente seguita alla più grande crisi mai conosciuta dal capitalismo: quella per intenderci iniziata nel 2007 e che ha fatto rimettere in discussione tutta l’epoca precedente svoltasi all’insegna della globalizzazione neoliberale. Ricordiamo infatti che circa sul finire delle prima decina d’anni di questo millennio ha cominciato a serpeggiare a livello planetario quell’ideologia che si è chiamata sovranista e populista e che ha avuto a protagonisti governativi più famosi in Ue personaggi come Salvini, la Melloni, la Lepen, in India, Modi, in Brasile Bolsonaro, in Turchia Erdogan, nelle Filippine Duterte e così via fino all’ascesa di Trump alla Casa Bianca. É dunque in questo clima di pesante restaurazione culturale che tutto l’arcaismo russo, come del resto il vetero nazionalcomunismo cinese, sono potuti uscire da quell’angolo da folklore ammuffito in cui si erano ritrovati relegati e ritornare alla ribalta. Anzi a ridiventare addirittura dei modelli.
Da un punto di vista più deterministico si può ritenere che a garantire il ritorno alla grande della Russia sulla scena internazionale abbiano contribuito sopratutto economia e armamenti; ossia, da un lato, le sue strategie di esportazione delle abbondantissime materie prime di cui è dotata, dall’altro, il rilancio militare, scandito dagli indiscutibili avanzamenti tecnologici, nonché dalle vittorie in Cecenia, Georgia, Siria, ma anche in Crimea. Si deve comunque riconoscere che tutti questi successi, per quanto determinati da economia e armamenti, non sarebbero stati di tale entità e portata se non fossero stati contemporanei al cambiamento delle opinioni indotto a livello planetario dallo shock della più grande crisi mai avvenuta nel capitalismo. Quella crisi che aveva cominciato a far capire che l’epoca in corso non era più quella del primato del mercato planetario, del ridimensionarsi degli Stati e dell’espandersi della democrazia. Quella crisi che aveva cominciato a far capire che l’epoca in corso stava divenendo invece quella dei governi attenti sopratutto alla sovranità degli Stati sul proprio territorio e alle particolarità più tradizionali del proprio popolo.
Se quindi oggi la Russia ardisce una “operazione” come quella dell’invasione dell’Ucraina è anche perché il suo governo si è convinto che il suo modo di pensare le politica è fondamentalmente vincente, fondato su valori più solidi di quelli democratici dimostratisi illusori e in crisi. Un modo non tanto dichiaratamente e frontalmente anti-democratico, quanto post-democratico.
Da meditare è allora il fatto che i governi che rappresentano molto più di un terzo dell’umanità (tra i quali Cina, India e Pakistan) non ne abbiano voluto sapere di condannare questa “operazione”. Evidentemente anche per loro il modo sovranista e populista di pensare la politica è quello giusto, vincente? Il difficile nel rispondere a questa domanda sta nel fatto che ogni sovranismo, come ogni populismo, fondandosi su propri miti e riti particolari rende improbabile qualsiasi generalizzazione. Di sicuro, così, ad aumentare è il rischio di una oscura e temibile Babele planetaria con tutti i connessi rischi di usi imprevedibili delle atomiche ovunque siano custodite.
II
Si dovrà quindi restare fedeli al modo tutto occidentale di pensare la politica come democrazia o più precisamente come guerra della democrazia contro i suoi nemici? Quella che dal 1945 è stata sempre conclamata come “la più grande democrazia del mondo” è così che ha insegnato a ragionare a tutti i suoi i suoi alleati: a tutti i suoi alleati che siano democratici oppure no. Una prima peculiarità paradossale di questo modo di pensare la politica su cui si fonda l’Impero americano sta infatti nel ritenere che tutti i suoi nemici devono essere riconosciuti come antidemocratici, ma non tutti i suoi alleati devono essere democratici – ma possono essere persino terroristi dichiarati. Altra peculiarità di questo modo di pensare sta nel rivendicare un primato, quello della democrazia (anzitutto americana), e allo stesso tempo nel negarlo, essendo la democrazia sinonimo di pluralismo, quindi incompatibile con ogni gerarchia e aperto ad ogni differenza, purché debole, non antagonista. Ulteriore paradosso sta nel fondare la legittimità della democrazia sul rispetto dei diritti umani, esentando però i loro massimi paladini, gli stessi Stati Uniti, dall’essere perseguiti se trasgressori. Tutti paradossi, questi, che si risolvono evocando costantemente le minacce alle stesse democrazie rappresentate dai loro nemici reali o supposti, contro i quali risulta necessario preparare o far guerra; è così, che tra i paesi democratici si ha sempre conferma di quale sia il paese cui spetta il primato del comando. Ovviamente: il “più grande”, democraticamente parlando, ma anche militarmente parlando.
Senza capire questi paradossi del modo democratico di pensare la politica, così come questo modo si è strutturato nel mondo, cioè a partire dal secondo dopoguerra (ricordiamolo sempre: giusto dopo i primi e ultimi lanci mai avvenuti di bombe atomiche da parte degli Stati Uniti!), non si capisce quanto questo modo sia intimamente connesso con la guerra, con la sua constante preparazione e la sua quanto mai frequente messa in atto. Se l’Europa continentale democratica può rivendicare l’incredibile record di quasi ottant’anni di pace prevalente, con tutta la prosperità che ne è derivata (anche se certo non tutti!), è solo perché, uscita vinta dalla seconda guerra mondiale, dopo essere stata per lo più conquistata dalla perversione nazista, si è riunita come area di Stati vassalli di Washington, per restare poi docile retrovia di ogni loro avventura militare. Ed è proprio questa condizione di vassallaggio anche culturale, linguistico e comunicativo, oltre che militare, ad avere caratterizzato i modi di pensare la politica dominanti nel vecchio continente. Ed è proprio perciò che “da noi” (in Italia in primis) si sono sempre minimizzati i vizi più evidenti della casa madre a stelle e strisce.
Ad esempio il fatto che gli Stati Uniti dal 1945 in poi non abbiano mai smesso di essere in guerra; ad esempio il fatto che non abbiano mai disdegnato di allearsi con qualunque regime o formazione antidemocratica, fino anche terrorista; ad esempio il fatto che si siano spinti, per bocca di Bush figlio, a dichiarare una “guerra infinita” contro nemici imprecisati e tutt’ora non ufficialmente conclusa; ad esempio il fatto che si siano sempre dimostrati avvezzi a scatenare effettivamente guerre che non finiscono e creano solo morti, distruzione e caos (come in Iraq, Libia, Siria, Afghanistan e altrove); ad esempio il fatto che abbiano una spesa militare non tanto inferiore alla metà di quella mondiale e mantengano ottocento basi sparse nel mondo alcune delle quali (anche in Italia) con atomiche pronte all’uso. E la lista si sa potrebbe continuare all’infinito.
Tornando all’Ucraina dei nostri giorni si potrà minimizzare finché si vuole il ruolo della “più grande democrazia del mondo” e dei suoi alleati nell’avere fomentato la guerra civile in Ucraina tra russofili e russofobi e nell’avere “abbaiato” minacciando l’estensione della Nato fin sotto il naso di Putin: sta di fatto che una volta innescatasi la sua brutale invasione ora alla casa Bianca si fa di tutto perché non smetta, anzi degeneri. L’obiettivo è noto: spossare la Russia, per poi occuparsi del vero nemico, la Cina, dopo avere quanto meno fiaccato il suo maggiore alleato, nel frattempo vietando ogni relazione ad est dell’Ue anche a costo di un suo rapido declino. Ecco allora che anche ostinandosi a crederci, qui, la democrazia, il suo messaggio universale, la credenza nel suo essere regime più naturale dell’umanità, non c’entrano più nulla. Ogni riferimento a questi articoli di fede suona oramai fasullo. Ad imporsi così non sono che le conseguenze della già menzionata grande svolta epocale iniziata da circa una decina d’anni fa: la svolta post- democratica che ha fatto degenerare poi svanire l’idea stessa che la globalizzazione dei mercati fosse la premessa della democratizzazione del mondo. Ora “democrazia” è divenuta parola essa stessa sovranista, che fa da bandiera per quei governi occidentali e i loro alleati, pedissequi seguaci della loro casa madre americana nella sue più spericolate imprese geopolitiche volte a rintuzzare le crescenti minacce di declino provenienti da oriente. Vendere cara la pelle, nella pur inconfessata certezza che il secolo in corso assumerà un’inedita mappa dei poteri: questo l’unico tristissimo senso che può avere oggi la fedeltà a Washington e ai suoi valori democratici. La profezia di Nietzsche secondo cui il nichilismo sarebbe il destino occidentale pare così confermarsi e come lo si possa orientare in senso positivo resta tutto da vedere.
Come dunque si fa ancora a scommettere che sia sempre da qui, dalla democrazia all’americana e i suoi valori, che possano venire le speranze per un mondo migliore rispetto alla prospettiva di quella rissosa e torbida Babele in cui finirebbe il mondo se restasse preda di quei sovranismi più esplicitamente populisti, quali sono quelli sulla cresta dell’onda in Russia, Cina, India e così via?
III
Bistrattati e usati sempre più impropriamente dai suoi più potenti sostenitori occidentali, anch’essi oramai intimamente convertiti dalle ideologie sovraniste, i valori della democrazia ritrovano oggi un minimo di ossigeno da quelle parti dove un tempo erano più che altro oggetto di critiche: tra alcuni gruppi, pubblicazioni e personaggi di quel che resta della sinistra anche estrema.
Momento fondamentale che ha alimentato questa democratizzazione della ricerca delle alternative al capitalismo risale alla svolta epocale precedente a quella che stiamo vivendo, quella tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso quando il crollo dell’Urss e la definitiva conversione nazionalista e capitalista della Cina hanno inaugurato un nuovo spirito del tempo. Una nuova modalità del sentire e del pensare, tale per cui nessuna alternativa sembrava più possibile se non cavalcando la globalizzazione dei mercati, la diffusione senza precedenti delle connessioni comunicative e le speranze variamente interpretate della democratizzazione del mondo. Il tutto sotto l’egemonia senza rivali cui era approdato l’Impero americano. Quel che erano state le lotte per il comunismo vennero così reinterpretate come lotte per una democratizzazione del mondo ad oltranza. Allora è parso che il modo migliore per contenere le politiche neoliberiste fosse di amministrarle adeguandovi le istituzioni pubbliche o accreditando ogni particolare rivendicazione sociale o comunitaria come lotta politica per l’emancipazione dell’umanità. L’imperativo tipicamente neoliberista dell’empowerment al quale ogni individuo e ogni comunità sarebbero chiamati a rispondere ha così assunto un preteso crisma “di classe”. Il tutto ovviamente rifacendosi, sia pur criticamente, alla visione democratica e occidentale, riconosciuta come la più “avanzata”, in quanto recettiva delle conquiste di diritti acquisti tramite lotte. Di più: addirittura come la più consona ad orientare anche processi particolari di decolonizzazione. La gaffe di Marx secondo la quale l’oriente sarebbe in un qualche modo predestinato al dispotismo è tornata dunque a far capolino anche in queste visioni “di classe” della democrazia all’occidentale intesa come regime migliore in assoluto e fine ultimo di ogni politica degna.
Tornando all’attuale situazione ucraina è chiaro allora quale possa essere la posizione di questa visione democratica di sinistra, più o meno “di classe” o antagonista: una posizione volta a recuperare consensi alla strategia americana d’armamento ad oltranza del governo Zelensky, provando a reclutare anche le opinioni più opportunamente dubbiose e critiche verso quest’ultimo. Che si tratti di un governo fondamentalmente fantoccio, che la sua unica strategia sia di servire, non “il popolo” (questo Zelensky lo faceva giustamente da comico in una serie televisiva!), ma gli Stati Uniti e i loro alleati, che non sia affatto certo se la sistematica repressione del dissenso adottata da questo governo abbia lasciato in vita forze politiche a favore di una effettiva indipendenza nazionale: tutto ciò non interessa i democratici di sinistra più o meno antagonista. Quello che interessa loro è che data l’invasione russa se ne possa necessariamente dedurre che esista una resistenza ucraina. Una resistenza che ingloberebbe e riscatterebbe tutti i suoi aderenti, dai governanti alla gente comune, ma fino anche alle formazioni dichiaratamente naziste. Rimpinzare Zelensky di armi sarebbe così da incoraggiare, nella speranza che per “sgocciolamento” qualcosa colerebbe anche tra i movimenti sociali più “di classe”. Il tutto argomentato con un slancio oramai non più riservato alla miriade di fenomeni analoghi (come in Palestina, Yemen, Siria e così via), ma lontani da “noi”: lontani da questa benedetta Europa considerata culla di quella civiltà democratica, veramente maturata però negli ancora più benedetti Stati Uniti!
IV
Questa stringatissima e unilaterale rassegna non può finire senza contare anche la posizione di chi considera l’invasione russa dell’Ucraina un episodio che per quanto orrendo e detestabile fa parte dell’ancora più orrendo e detestabile conflitto in corso tra la superpotenza regnante sul mondo, quella statunitense, e una superpotenza militarmente emergente, quella russa. Una posizione che in base a questa valutazione ripudia ogni interventismo. Interventismo quale fu quello che finì per sostenere lo stesso Mussolini durante la prima guerra mondiale, guerra che, non dimentichiamolo – con notevoli analogie alla situazione odierna – era stata innescata dalle emergenti superpotenze militariste e autocratiche, Austria e Germania, contro le quali erano schierate invece le superpotenze regnanti e ritenute progressiste, quelle francesi e inglesi.
Ora come allora, per non cadere nell’illusione che la guerra possa rappresentare un valido viatico al progressismo e all’emancipazione dell’umanità – illusione che Mussolini cavalcò fino a mettersi a capo di quello che sarà il fascismo- non c’è che il non schieramento, la neutralità, il tanto stoltamente vituperato “né, né”. Il che non vuol dire affatto non pensare, né fare niente. Ma vuol dire prendere per quella che è la disastrosa situazione in cui è finita la diplomazia mondiale, senza cercare di rappezzarla alla meglio, ma per cercare altrove e altrimenti come far svoltare l’epoca in cui siamo precipitati. “Vasto programma!” si potrà ironizzare. Ma quali altre possibilità sono disponibili?
Certo, ci si può sempre accodare al Papa nel chiedere trattative o schierarsi a loro favore. Ma qui protagonisti restano sempre i governi responsabili o correi del disastro dell’invasione, per cui parteggiare per loro resta comunque una scelta discutibile. D’altra parte si può solidarizzare o impegnarsi per alleviare le immani sofferenze della massa sterminata dei profughi ucraini. Ma anche qui ogni gesto filantropico non può fare i conti con le crudeli discriminazioni subite dai profughi e rifugiati d’altra provenienza da sempre massacrati e vessati dalle politiche di “accoglienza” dell’occidente ricco. Perché allora non impegnarsi ad individuare e interpellare chi in Ucraina o in Russia assume l’ardua sfida di combattere quanto meno intellettualmente su due fronti: dunque né con Putin, né con Biden e Zelensky? Ma che significa ciò concretamente? Non è da dimenticare che la politica è fenomeno sempre collettivo e organizzato, per cui se volessimo che questo impegno fosse politico bisognerebbe trovare in Ucraina e Russia organizzazioni, poco importa quanto formali o informali, basta che fossero radicalmente non governative, con le quali interloquire. Notizie e testimonianze che fanno sperare in questo senso non mancano del tutto. Ma qui il problema è di nuovo chi, quale collettivo, quale organizzazione in Italia o Europa sarebbe in grado di rilanciare concretamente questo impegno che in altri tempi si sarebbe detto internazionalista: di un pacifismo internazionalista e militante, contro ogni potenza belligerante. Un impegno che da tempo non si riesce più a sperimentare in modo proficuo anche rispetto a tutte le zone del mondo che soffrono invasioni e vessazioni mortali.
Per cui, sì certo la posizione di neutralità rischia oggi di condannare alla frustrazione del silenzio. Parliamone. E che possa quanto meno servire a riflettere su tutto quanto non si è fatto per evitare un’epoca così disastrosa come l’attuale.
Maggio 2022