“The Whale” ovvero il riscatto degli sconfitti
di Luca Le Donne
Ho guardato più volte su YouTube, un po’ emozionato, la standing ovation di ben sei minuti che il pubblico della settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia ha tributato al film “The Whale” e al suo protagonista Brendan Fraser. Mi hanno colpito la commozione e l’imbarazzo dell’attore, quel calcetto dato nel vuoto come a dire “basta così”, quell’abbottonarsi la giacca spiegazzata, quelle lacrime trattenute a stento, l’autentica fragilità nascosta in quei gesti. In quelle immagini ho ritrovato il significato più intimo del film: la rinascita per chi è caduto, il riscatto per chi è sconfitto.
“The Whale” è un film dal taglio molto teatrale; bella forza, direte, visto che è tratto da una nota pièce di Samuel D. Hunter, il quale ha curato anche la sceneggiatura! Vero, ma è anche vero che il regista Darren Aronofsky non fa nulla per dissimulare tale genesi, anzi! Il formato in 4:3 (che fa un po’ pensare al “Mommy” di Dolan) dà un senso di clausura e invita all’introspezione, la scenografia costruita interamente all’interno di un appartamento e l’uso strumentale della luce creano un “effetto palcoscenico”, i frequenti primi piani esaltano le doti espressive degli attori (notevoli), tutto ciò replica sul grande schermo il coinvolgimento tipico di una sala di teatro.
Tutto gira intorno al protagonista, Charlie (Brendan Fraser, appunto), insegnante on-line di scrittura per l’università, la cui telecamera è sempre oscurata perché Charlie non è come tanti, Charlie è affetto da una gravissima forma di obesità di origine psicologica, dovuta alla perdita di una persona cara che lo ha segnato per sempre. Charlie è uno sconfitto, allontanato dai suoi cari e rifiutato dalla società, e sa che la sua fine è ormai vicina. Ad essa egli si approssima con spirito di fatalità e accettazione, con l’unico desiderio di “fare almeno una cosa giusta nella vita”, ovvero di riallacciare i rapporti con la figlia che ha lasciato all’età di otto anni per una relazione con un amante uomo. Intorno a lui gravitano pochi altri personaggi: oltre alla figlia Ellie (Sadie Sink di “Stranger Things”, che sicuramente farà ancora parlare di sé), l’amica e infermiera Liz (Hong Chau) unica persona che gli presta assistenza medica e supporto morale, il giovane fanatico religioso Thomas (Ty Simpkins) ostinato nella sua missione di portargli la conversione, la ex moglie Mary (Samantha Morton) che vacilla nella sua volontà di punirlo tenendolo lontano dalla famiglia che ha abbandonato otto anni prima. Tutti i personaggi sono molto azzeccati e profondi, interpretati in modo credibile, mai stereotipati: nessuno è irrimediabilmente “cattivo” né completamente buono ma porta dentro di sé una inaspettata complessità. Ciascuno a suo modo ci consegna il messaggio di speranza che permea il film pur nella sua drammaticità: l’umanità che alberga in ognuno e dona una possibilità di redenzione.
Tra tutti gli interpreti giganteggia (e non solo fisicamente) Fraser che interiorizza e restituisce con intensità, dolcezza, ironia e amore il personaggio che gli viene (letteralmente) costruito addosso. Aronofsky ha voluto espressamente lui per quella parte, dichiarando che “voleva un attore da reintrodurre”, uno sconfitto da riscattare, e Fraser si è rivelato perfetto, poiché anche lui esce da un lungo periodo di problemi di salute, depressione, sovrappeso ed emarginazione dall’industria cinematografica di Hollywood e ha donato alla causa del film il suo fisico già in parte appesantito e il suo sguardo pieno di umanità che difficilmente dimenticheremo. Da qui – ci piace pensare con un pizzico di romanticismo – la forte commozione per il ritrovato successo e per l’affetto manifestato dal pubblico in quei sei lunghi minuti di applausi.
Nelle sue due ore quasi tonde, il film affronta molti temi importanti, come la famiglia, il ruolo genitoriale, il radicalismo religioso, l’amore salvifico per l’arte, le discriminazioni e, ovviamente, le disfunzioni alimentari che raramente trovano spazio nei media e nell’arte. Tutto ciò, senza cadere nel didascalico né nel pietismo (rischio molto concreto vista la trama del film) ma anche senza volgarizzazioni né semplicismo. Ciascuno di questi temi entra in scena con delicatezza e ci porta naturalmente a immedesimarci nei personaggi e ad immergerci nella complessità dei rapporti umani dove, come nella realtà, nessuno è mai pienamente vittima né carnefice.
Una standing ovation decisamente meritata.