Ricordando la D.D.R.
Temi, problemi e prospettive di ricerca.
di Francesco Guerra
Nel 1840 Alexis de Toqueville, sempre attento osservatore di ogni perturbazione proveniente dal corpo della società, constatava: «I nostri contemporanei sono tormentati da due passioni in costante dissidio tra loro: avvertono il bisogno di essere guidati e al contempo il piacere di restare liberi. Poiché non riescono a soffocare né l’una né l’altra di queste inclinazioni, si sforzano di soddisfarle contemporaneamente. (…) Uniscono così il centralismo alla sovranità popolare» . Quello che Toqueville non poteva prevedere, era la traduzione nella realtà che di questo pensiero sarebbe stata fatta a distanza di più di un secolo, con la differenza, però, che i tedeschi della Repubblica democratica sembravano aver fatto come il cane della favola di Esopo, barattando con i loro governanti troppa sostanza, il centralismo, per un’ombra, la sovranità popolare. Ne era scaturito un sistema che di democratico, pur nelle traduzioni più volgarizzate di questo concetto, non aveva granché, somigliando, piuttosto, a una tardiva rielaborazione di quel pensiero di rivoluzione e di potere von oben herab, che, per quanto possa suonare paradossale, aveva avuto in Bismarck il suo primo grande interprete. Quei cittadini dell’Est che nell’arco di decenni avevano cercato, e talvolta trovato, quel buco nella rete che gli avrebbe consentito di espatriare all’Ovest non sembravano né mossi da grandi principi ideali, né avere particolarmente a cuore il progresso collettivo, «ma il diritto del singolo a essere singolo e a non tollerare nessun altro common sense al di fuori di questo diritto» .
Avvicinandoci alla Ddr, si ha l’impressione di trovarci di fronte ad uno Stato paternalistico, a tratti grottesco, perennemente vittima dei giochi di potere che si svolgevano a Mosca e di frequenti crisi economiche originate dai più diversi fattori. Un Paese in cui ostinatamente, e non senza successo, si cercava di dare un’identità alla nazione, un collante che la rendesse finalmente coesa. Fu in una tale ottica che l’antifascismo divenne uno dei cardini della propaganda della Repubblica democratica, cui corrispondeva il ridicolo apparato scenografico delle parate militari, l’obbligo di recarsi alle noiose riunioni di partito o nelle campagne per dare una mano ai contadini, mentre nello sport la necessità di mantenere alto il nome della Ddr portò i suoi governanti a trasferire gli atleti dalle palestre alle farmacie . Insomma lo Stato doveva combattere le forze centrifughe al suo interno, i tentativi di fuga verso il luccicante mondo occidentale, mediante una sempre rinnovata forza centripeta, i cui espedienti erano quelli cui si è fatto riferimento; una forza che però rendeva paradossale la stessa esistenza di questo Stato. Esso, infatti, più che una repubblica del popolo, concetto già di per sé contraddittorio, fin dai primi tempi sembrò essere una repubblica sul popolo .
Uwe Johnson nel 1970 aveva descritto la mentalità di coloro che dopo una lunga riflessione, decisero di abbandonare la Repubblica democratica. Johnson ce li descrive come soggetti che avevano sempre l’aria degli sconfitti, dei traditori, e che per questo continuavano a sentire l’ombra del Paese d’origine allungarsi su di loro . Una sensazione cui, da ultimo, poteva avere contribuito anche la consapevolezza, che non se ne erano andati per chissà quali ragioni intellettuali, ma per motivi manifestamente individuali; queste persone «non se la sono svignata di soppiatto, non sono sgusciati via alla chetichella, ma dichiarando finalmente in modo aperto quei moventi materiali che erano in campo da sempre» .
Paolo Valentino sul numero 6 de L’europeo del giugno 2009 ha riportato la testimonianza del sottufficiale della Volksarmee, l’esercito della Germania Est, Conrad Schumann, colto da un fotografo proprio nell’attimo della fuga. Schumann avrebbe lavorato per 30 anni all’Audi, a Ingolstadt: «“Non ho rimpianto di esser fuggito, anche se per me nella Repubblica federale non è mai stato semplice”, mi disse nel 1997. “Persi gli amici. I miei genitori continuarono a pregarmi di tornare in centinaia di lettere. Dopo la Riunificazione ho scoperto che scrivevano sotto dettatura della Stasi. Ancora oggi qualcuno dei miei vecchi amici non mi parla”. Conrad Schumann si è ucciso, impiccandosi, il 20 giugno 1998 per colpa della depressione» .
La vicenda di Conrad Schumann, come quella della maggior parte di coloro che tentarono la fuga all’Ovest sostanzialmente attratti da condizioni di vita migliori e da un potere politico che con tutti i suoi limiti garantiva comunque un pluralismo politico e di opinione sconosciuto in tutti i regimi dell’Est europeo, porta a interrogarsi su quale vita un cittadino della Ddr potesse condurre nel proprio Paese. Una domanda che origina dalle stesse vicende interne alla Repubblica democratica, che ne segnarono fin dall’inizio l’incerto cammino. La tragica rivolta operaia del 17 giugno 1953 sembrò essere il primo spartiacque nella storia della giovane Repubblica. La reazione dell’establishment fu ben sintetizzata dalle parole di una poesia a firma di un certo Salomon o Salamon, che alcuni mesi dopo apparve su una rivista letteraria: «Rovesciate il potere degli operai e dei contadini / urlavano i fascisti. La croce uncinata ghignava insolente / all’occhiello dei putschisti. / Ma tu rimanesti saldo, compagno Ulbricht / con il coraggio di Stalingrado (…)» . Quella manifestazione di lavoratori, soprattutto muratori, scesi in piazza per protestare contro un provvedimento del ministero dell’Industria, che li obbligava a un aumento del 10% delle ore di lavoro, senza alcun compenso in più, fu scandalosamente tradotta dai quadri del partito al potere in una provocazione, in un attacco compiuto per mano occidentale .
I tedeschi-orientali sembravano conformarsi all’adagio primum vivere, deinde philosophari. Infatti, almeno in prima battuta, non avevano tanto pretese legate ad una maggiore libertà, quanto assai più prosaicamente a maggiori comodità. Nelle stesse manifestazioni svoltesi a Lipsia nei mesi precedenti la caduta del Muro, il movente che spingeva i partecipanti a gridare “Il popolo siamo noi” non era costituito tanto e solo dal giusto diritto di poter svolgere libere elezioni, ma dalla ben più modesta, e parimenti essenziale, possibilità di vivere in maniera libera la propria quotidianità .
In questo senso si esprimeva Giorgio Bocca nel 1956 sulle pagine de L’europeo: «Certo non è colpa dei russi e neppure di Ulbricht se la Germania di Pankow confina con quella di Bonn purtroppo non è sempre possibile cancellare la geografia e la storia. Confina, purtroppo, e le differenze si vedono. Si vede, per esempio, che un camionista sotto il giogo capitalistico dell’Ovest guadagna tre volte tanto del camionista al potere, con la sua classe, nell’Est; e così i metallurgici, i chimici, gli ottici. La classe operaia al potere! Ma chi ci crede più a queste fole marxiste? Chi ci crede più, concedetecelo, a Berlino Est, a Lipsia, a Leuna, nelle cui fabbriche, dal giorno in cui la classe operaia è al potere, sono aumentate le ore di lavoro ed è diminuito il potere d’acquisto del salario?» .
Nel ’61, Mino Monicelli sempre su L’europeo riportava un dialogo avuto poco tempo prima con un docente di diritto penale della Humboldt Universität: «Mi spiega – riporta Monicelli – che alla Humboldt vi sono circa 12 mila studenti. A ciascuno lo Stato passa un salario di 200 marchi al mese, 30mila lire. Se però lo studente appartiene a famiglia benestante, cioè se il padre guadagna più di 1.000 marchi al mese, il salario è ridotto a 120 marchi. Quando lo studente è bravo, il salario sale a 300 marchi. “E se lo bocciano agli esami?”. “Ha diritto a due bocciature. Alla terza, lo Stato non lo mantiene più agli studi”. (…) Gli chiedo quanto guadagna un professore di ruolo. “Tremila marchi al mese”. Poco meno di mezzo milione di lire. Perché non mi stupisca troppo, aggiunge: “Lo Stato pensa che gli uomini di cultura, di scienza, debbano attendere al loro lavoro senza preoccupazioni di ordine materiale”. (…) Dall’ottobre del 1949 a oggi, più di 2 milioni e mezzo di tedeschi orientali sono passati nella Germania di Bonn, attraverso la porta spalancata di Berlino Ovest. Ammetteva sconsolatamente, un anno fa, un dirigente della Rdt: “non siamo riusciti a costituire una comunità”. (…) Perché il regime non è riuscito a crearsi dei cittadini fedeli? Il professore in velluto a coste è in imbarazzo. (…) “È gente che è attirata come falene dalle luminarie della Kurfürstendamm o dalla prospettiva delle ferie sulla riviera adriatica”. E fin qui lo seguo. Poi, la risposta prende sentieri tortuosi. Dice: “Vogliamo, dobbiamo farla finita, chiudere con questa vecchia Germania presuntuosa, che si vanta di avere i migliori scienziati, i più brillanti intellettuali, i più coraggiosi soldati. Vogliamo ricominciare da capo, basarci sul lavoro e basta. Basta con i luoghi comuni, con gli orgogli razzisti”» .
Parimenti, rilevava ancora Monicelli: «In uno studio apparso l’anno scorso sulla rivista Études et conjoncture, la Rdt era descritta come un Paese in cui esiste una delle più forti concentrazioni industriali del mondo. Nonostante le ingenti distruzioni della guerra, gli smantellamenti subiti nel dopoguerra e il ritardo con cui è iniziata la ricostruzione (cinque anni dopo la Germania di Bonn e senza l’aiuto del piano Marshall), la Rdt, in 11 anni, ha superato in produzione industriale la Cecoslovacchia ed è oggi l’ottavo Paese industriale del mondo; il secondo, se si tiene conto della produzione industriale pro-capite. Tutto ciò con una popolazione di soli 17 milioni di abitanti e senza carbone e ferro. Unica ricchezza, la lignite. Naturalmente sono risultati che si pagano con un’austerità feroce. Ma è un’austerità senza penuria. Le statistiche dicono che nelle due Germanie si mangia pressappoco lo stesso: il numero di calorie è uguale. (…) Tuttavia gli aspetti irritanti non mancano: spesso sono introvabili, o inservibili, un paio di forbici, i rubinetti del bagno, i chiodi. E dopo la collettivizzazione della terra, operata l’anno scorso, la conseguenza è stata una crisi agricola prolungata» .
Le brevi letture proposte nel corso di queste pagine, pur nella diversità dei singoli approcci teorici, sembrano tutte convergere verso un medesimo fuoco: la principale debolezza della Ddr sarebbe consistita nel non aver saputo produrre ricchezza da redistribuire ai suoi cittadini. Il popolo, in sostanza, fu costretto a vivere in una condizione di perenne pauperismo, che, in una certa misura, minò le basi del consenso accordato a quello Stato e a cui corrispose in maniera del tutto coerente il brutale rafforzamento degli apparati di sicurezza e di controllo statali sulla società. Lo Stato, come tante particelle, era sciolto nel corpo sociale e ne indirizzava i movimenti dall’interno attraverso una ramificata ed efficientissima rete di spie, veri e propri guardiani della vita pubblica come di quella privata all’interno della democratica repubblica tedesca.
Qui tuttavia la mia analisi si ferma, perché la questione legata al consenso all’interno della Ddr è troppo vasta per poter trovare spazio in queste pagine. Tuttavia è convinzione di chi scrive che una tale questione costituisce la chiave di volta per cercare di comprendere la Ddr e la sua storia finalmente dall’interno, in tal modo cominciando a dare risposta all’interrogativo più pressante che la riguarda: perché e come uno Stato, che dà sempre l’impressione di reggersi su un equilibrio instabile, poté resistere cinquanta anni senza particolari turbolenze, fatta eccezione per i moti del ’53? Aveva dunque ragione il capo della Stasi, Marcus Wolf? Questi, infatti, qualche tempo dopo la fine della Ddr, aveva dichiarato che, fino all’ultimo, la Stasi era stata «rossa da capo a piedi e patriottica, e davvero (…) affollatissima di richieste di collaborazione, uomini e donne (…)», «“gente che aveva fede nei grandi ideali del socialismo, che era ricca di amore per la Repubblica, questa e quelli messi a repentaglio dalla guerra fredda, gli Stati Uniti e i loro alleati tentando di distruggere lo sforzo del popolo tedesco per realizzare il socialismo in terra tedesca”» .