Presentazione libro “Come l’edera all’albero” di Davide di Francia
Con questo lavoro, grazie anche al prezioso contributo di Luigi De Magistris e Giulietto Chiesa che ci hanno concesso d’intervistarli, si tenta un’articolazione unitaria della storia occulta del dopoguerra italiano.
In particolare dal ’69, dalla strage di Piazza Fontana, quando inizia un progetto eversivo efferato, anche a suon di stragi, che solo apparentemente è terminato negli anni ’80 senza che peraltro sul piano delle responsabilità personali e storico-politche si sia fatta giustizia. Depistaggi, spostamenti di processi, segreto di Stato, prescrizioni hanno impedito la condanna di quasi tutti i principali responsabili di crimini che hanno colpito non solo tanti cittadini e famiglie italiane, ma anche la stessa struttura democratica del paese e la nostra fragile identità e fierezza nazionale. La strategia della tensione prosegue anche negli anni ’90. E’ lo stesso procuratore nazionale antimafia Grasso a sottolineare che anche le stragi mafiose del 92-93 sono un sub-appalto della strategia della tensione. Solo trattative vergognose e la istituzionalizzazione massiccia e capillare delle masso-mafie all’interno delle istituzioni hanno portato alla pacificazione attuale. E’ l’ex guardasigilli Conso a confessare, dopo 17 anni, che nel ’93 decise di sopprimere il 41 bis a 140 mafiosi con l’obiettivo di fermare le stragi. Effettivamente l’obiettivo venne raggiunto. Alle stragi si rispose con alcune concessioni incluse nel famoso papello. Le stragi cessarono cedendo al ricatto mafioso. Una vergogna inaudita che la classe politica e i media lasciano obliare colpevolmente anzichè approfondire e colpire duramente e con decisione. E questo nello stesso Paese in cui si decise di lasciare ammazzare Moro in ragione di una cinica e opportunistica strategia della fermezza. Come precisò Pieczenik, stratega americano vicino a Cossiga che partecipò al comitato di crisi istituito per l’occasione, Moro doveva morire, “Cossiga era l’uomo delle decisioni dolorose, non poteva far altro che far uccidere Moro. Siamo stati noi a mettere il dito dei brigatisti sul grilletto della pistola con cui gli hanno sparato”. La morte di Moro è dovuta anche ad una cinica ragion di Stato. La stagione delle bombe è terminata solo grazie ad una resa dello Stato alle masso-mafie che hanno invaso e occupato le istituzioni italiane. Non passa una settimana senza che qualche rappresentante delle istituzioni venga indagato, processato e/o condannato per mafia. Sindaci, assessori, governatori, senatori della repubblica. Andreotti, Dell’Utri, Cuffaro, Cosentino, Berlusconi, solo per ricordare i più noti. E questi invece di essere allontanati con ignominia mantengono il sostegno della classe politica. Anche quando si è di fronte a fatti acclarati con condanne definitive e carcerazioni, le dichiarazioni di alcuni pilitici sono sconcertanti. Come Follini e Casini che in riferimento alla condanna e carcerazione di Cuffaro hanno confermato la loro amicizia con l’ex governatore della regione Sicilia e sono rimasti convinti che l’amico non è un mafioso. C’è da chiedersi cosa li può convincere. In modo analogo tanti politici non perdono l’occasione di ripetere che Andreotti sarebbe stato assolto quando la Cassazione ha stabilito che il senatore a vita ha partecipato al sodalizio criminoso con molti esponenti di spicco della mafia siciliana fino agli anni ’80. Anche di fronte a fatti acclarati la classe politica non riesce ad avere una visione realistica e a prendere una posizione di condanna ferma contro la mafia. Figuriamoci in presenza di indagini e condanne non definitive. Se l’attuale equilibrio dovesse infrangersi alcuni autorevoli protagonisti (De Magistris, Ingroia e Genchi) ritengono che le bombe potrebbero tornare. Che fare? Dobbiamo abbassare la testa per evitare la violenza mafiosa? Lasciamo il Paese in mano alle mafie pur di vivere in pace? Lo sguardo non è quello del professionista ma del cittadino qualunque, disorientato, avvilito e indignato. Il sentimento di unità nazionale oggi così in crisi e al centro del dibattito pubblico può realizzarsi solo attraverso un percorso di verità che faccia emergere i segreti che lo Stato in questi decenni ha tentato con forza di occultare. Troppe tragedie insabbiate e doppiamente tradite minano la nostra fragile e improbabile democrazia. Le verità giudiziaria e storico-politica non vanno con-fuse. Solo una politica debole o collusa compie l’operazione mortifera di fondere insieme le due verità. Per mantenerle distinte è però necessario dotarsi di dispositivi di verità alternativi a quelli giudiziari. Paolo Borsellino evocato nel IV capitolo, attraverso una lezione magistrale, lo dimostra con chiarezza. La collusione, la contiguità e la inaffidabilità nella gestione della cosa pubblica sono morbi civili dai quali un paese sano deve sapersi difendere senza fare ricorso necessariamente alla magistratura che in questo modo finisce per essere pericolosamente sovraesposta.
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Davide di Francia