Postille a Marx all’Inferno. Canto III bis della Divina Commedia (a cura di Terry Dalfrano)
di Giorgio Gattei ed Ernesto Screpanti
- Sul ritrovamento dell’inedito
Non a tutti è noto che quando Dante Alighieri morì la Divina Commedia non era stata completata. Il Poeta, in esilio dal 1304, a Lucca aveva terminato l’Inferno nel 1309 e il Purgatorio nel 1314. Nel 1316, a Verona, aveva potuto dedicare il primo canto del Paradiso a Cangrande della Scala, ma poi nel 1319 si era trasferito presso Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove si spense il 13 settembre del 1321. Lasciava però il Paradiso incompiuto perché privo degli ultimi 13 canti nei quali, dal cielo di Giove, il Poeta sarebbe salito a quello di Saturno e quindi al cerchio delle Stelle Fisse per approdare infine al Cielo Empireo ed accedere alla visione finale del volto di Dio – il volto, mica le terga! E ciò fu per lui veramente un grande onore, visto che sul monte Sinai Dio aveva mostrato a Mosè soltanto il didietro!
Comunque quella parte conclusiva del Paradiso mancò fino a quando, come riportato da Giovanni Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante del 1362, “dopo l’ottavo mese” dal decesso l’ombra del Poeta comparve in sogno al figlio Jacopo a rivelargli che quegli ultimi canti stavano in un “finestretta coperta da una stuoia” ricavata nel muro della sua camera da letto. Si andò a guardare e in effetti si trovarono delle carte che, “pianamente dalla muffa purgate, leggendole, si videro contenere li 13 canti tanto da loro cercati… e in cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita”. Certamente Boccaccio citava da una fonte di terza mano (l’attribuisce al notaio ravennate Piero Giardino), il che però, per quanto è accaduto in seguito e di cui si dirà, solleva un inquietante interrogativo (alla X Files, tanto per intenderci).
Infatti è mai pensabile che, a babbo morto, il figlio Jacopo non abbia frugato con cura la camera paterna e non vi abbia subito trovato quella finestretta appena coperta da una stuoia? E’ impossibile. E questo cosa può significare? Può significare soltanto che alla prima ricognizione dentro la finestretta non si trovò affatto quel manoscritto, e questo perché Dante ve lo avrebbe deposto soltanto otto mesi dopo la sua morte! Qui bisogna audacemente azzardare: ma perché non supporre che il grande Poeta, volendo documentare la sua visione finale del Paradiso con tutta l’esattezza di uno spettatore dal vivo (se così si può dire), non abbia atteso per scriverla di esservi salito personalmente dopo la morte e solo dall’aldilà abbia composto quegli ultimi versi che completavano la Commedia per poi passarli al figliolo con l’espediente (banale!) del sogno premonitore?
Comunque sembra che non siano stati solo quelli i suoi versi scritti post mortem giacché, forse avendoci preso gusto, dopo quel primo invio il Poeta ha voluto continuare a dire la sua anche su altri campi del sapere della posterità come la filosofia e l’economia. Ecco infatti che (ancora una volta utilizzando lo strumento del sogno premonitore?) egli ha fatto ritrovare ad Achille Varzi e Claudio Calosi un’intera, purtroppo incompiuta, Comedia metaphysica ne la quale si tratta de li errori & de le pene del Infero (Laterza, Bari, 2014) in polemica con i filosofi anche post di lui. E adesso ci è stato consegnato anche un Canto III bis della Divina Commedia dedicato a quel grande odiatore di filosofi ed economisti (“critico”, come si autodefiniva) che è stato Karl Marx, il più grande teorico del comunismo. Questo Canto inedito è stato pubblicato con il titolo di Marx all’Inferno per la curatela di Terry Dalfrano dalle edizioni “Ogni uomo è tutti gli uomini” (Bologna, 2018) ed è già stato riportato, grazie alla cortesia dell’editore, in questo nostro sito.
Sia la Comedia metaphysica che il Canto III bis vanno quindi considerati veramente opere “postume”, nel senso di essere state non soltanto pubblicate ma addirittura scritte dopo la morte dell’autore. E che qualcosa di simile possa essere accaduto lo sospettano anche i curatori della Comedia metaphysica, (il manoscritto risulta anonimo, ma si riconosce benissimo lo stile del “ghibellin fuggiasco”) nella quale il Poeta ha fatto i conti con le “tribolazioni del filosofare” fino ai giorni nostri, descrivendone i gironi infernali che sprofondano progressivamente fino allo spaventoso Pozzo dei Nani in cui sono condannati per l’eternità i filosofi-nani, appunto, i quali, non essendo mai stati sulle spalle di giganti, non sono mai riusciti a vedere al di là del proprio naso (e si distinguono in “ignoranti” e “fraudolenti” – e questi ultimi sono i peggiori). Ora, sebbene nel manoscritto ritrovato da Varzi e Calosi non si facciano nomi, gli errori filosofici sono così ben individuati che non è stato difficile per i curatori risalire nelle note aggiunte ai singoli peccatori che li hanno commessi in vita, il che ha suscitato in loro l’idea, niente affatto peregrina, che forse nell’aldilà “il Poeta potrebbe davvero avere incontrato… anche figure ancora a venire (al tempo suo). Allo stato attuale delle conoscenze non possiamo escludere questa possibilità”. Né noi la escludiamo per il Canto III bis dedicato all’incontro dantesco con Karl Marx.
- Ma dove gli economisti all’inferno?
Nel Canto III bis della Divina Commedia Dante trova Marx tra gli economisti, che sono tutti relegati nel girone degli ignavi. Ma chi sono gli ignavi? Sono quei dannati che soffrono una curiosa condanna per l’eternità: non vengono fatti entrare nell’inferno, ma vi stanno dirimpetto, sulla spiaggia del fiume Acheronte, senza che il nocchiero Caronte li traghetti oltre. Su quella spiaggia si accalcano così numerosi che Dante se ne meraviglia (“ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avesse disfatti”) e corrono vanamente dietro un’insegna vuota, uno straccio senza valore. Sono “le anime triste di coloro che visser sanza ’nfamia e sanza lodo”, che non scelsero il bene ma nemmeno il male; e tra di loro i primi sono stati quegli angeli che, al momento della grande disputa tra Lucifero e Dio (oh, se mai avesse vinto Lucifero! – direbbe Marx) “non furon ribelli né fedeli a Dio, ma per sé fôro”! Tra loro sta pure l’ignavo che più ignavo non si può e che Dante non nomina e che tutti credono che sia quel papa Celestino V che “per viltade fece il gran rifiuto” (ma andiamoci piano dopo le dimissioni di papa Ratzinger!), quando invece è forse assai più probabile che possa essere nientemeno che Ponzio Pilato, che al processo di Gesù letteralmente si lavò le mani. Comunque gli ignavi stanno nell’Antinferno dove soffrono di “non aver speranza di morte e la lor cieca vita è tanto bassa che invidiosi son d’ogni altra sorte. Fama di loro il mondo essere non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
Se così sono fatti gli ignavi, con loro gli economisti vanno a nozze. Vassalli intellettuali del Principe (quale che sia, purché sia Principe), elaborano nelle loro teste dei modelli di economia immaginaria, che chiamano “teoria pura”, che poi consegnano ai politici perché li mettano in esecuzione nella realtà. E questa è la “politica economica”, che meglio sarebbe dire la “teoria impura”. Il risultato empirico non li tange, non essendo loro ad applicare i modelli, cosicché essi non pagano mai dazio. A loro basta che i modelli restino coerenti sulla carta, cosa che normalmente accade in quanto si tratta di costruzioni intellettuali (“concreti di pensiero”, come aveva detto Marx) che risultano rigorosamente valide all’ombra delle ipotesi più astratte che vengono introdotte, ma che molte volte non vengono nemmeno specificate.
Sulla spiaggia degli ignavi gli economisti si accalcano in faccia all’Acheronte, anch’essi disdegnati da “Caron dimonio”. Ma fanno razza a sé, insultandosi piuttosto tra le due “chiese” che li hanno contrapposti in vita e che sono state così ben descritte dall’antropologo (solo antropologo?) Axel Leijonhufvud, dopo aver convissuto con loro, in una straordinaria relazione di viaggio dal titolo Vita tra gli Econ (Life among the Econ, in “Western Economic Journal”, settembre 1973). E come facevano in terra, anche all’inferno essi si fronteggiano nelle due sette contrapposte dei Micros e dei Macros, berciando come gli ignavi in “diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle”. E si fanno reciproci insulti, i Micros incrociando due dita sulla fronte e urlando “domanda e offerta!” mentre si rivolgono a destra, i Macros incrociando pure loro le due dita sulla fronte, ma voltandosi a sinistra al grido di “iesse ellemme!”, che è una formula rituale antica di cui si è perso il significato e che fa il paio con il più rinomato, ma meno criptico, “papé Satan, papé Satan aleppe!” dell’Alighieri.
Nella turba degli economisti ci sono nani, mediocri, copiatori, divulgatori, ma pure vere “cime” che svettano sugli altri (all’inferno la statura è la misura della rinomanza guadagnata in vita). Il più grande di tutti è pure il più anziano, e biblicamente fa di nome Adamo il Fabbro (il “miglior fabbro”, per dirla alla dantesca); accanto a lui, in polemica fitta tra loro, stanno Maltusio il Parroco e l’agente di cambio Davide il Riccardo (che tutti si ostinano a scrivere, non si sa bene perché, con una c sola). Poi c’è Giovanni Stuardo del Mulino e a distanza Walrasio che fa Leone anche nel nome, e poi Alfredo lo Sceriffo e il viennese Giuseppe Aloisio detto Scumpeterio; più discosti ancora e un po’ più bassi ci sono un figlio di Samuele e una figlia di Robin (forse Robin Hood?), nonché un Miltone Frittomanno, a suo modo grande anche lui se non altro perché è stato il signore dei “giullari di Chicago”, come li bolla Dante nel Canto inedito. Manca, tra gli economisti condannati al girone degli ignavi, uno che pure è stato importantissimo nel secolo passato. E manca non solo perché ignavo non è stato mai (lui i modelli astratti li ha costruiti, ma si è preso pure la responsabilità di applicarli), ma soprattutto per i suoi peccati bi-sex che, sebbene commessi in una gioventù caliente, la giustizia divina non gli ha potuto perdonare. È costui Don Giovanni Mainardo Keinesio che è stato precipitato proprio dentro l’inferno, nel girone dei sodomiti dove però non sembra stare in cattiva compagnia potendo dialogare non soltanto con il poeta Brunetto Latini, che fu maestro e “padre” (oops!, in tempi di #metoo…) di Dante, ma pure con quel Francesco d’Accursio, giureconsulto a Bologna e a Oxford, con il quale si potrà intrattenere in idioma anglico per tutta l’eternità.
- E perché Marx tra gli economisti?
Sta nel girone degli economisti invece un altro che non dovrebbe starci affatto e che inveisce contro di loro al grido di “Grundrisse! Grundrisse!” (che vorrebbe dire, più o meno: Fondamenta! Fondamenta!): è un tedescaccio di nome Carlo Marxico, detto Old Moor (il Vecchio Moro) che pure lui ben difficilmente può essere accusato del peccato di ignavia. Dei suoi modelli, che trattavano di “lotta di classe”, egli ha dato corpo e anima nella Prima Internazionale e poi dell’economia politica per tutta la vita ha fatto la “critica”. E allora perché mai nel girone degli economisti? Non c’è che da chiederglielo personalmente, come ha fatto Dante non appena nell’Antinferno se lo è trovato dinnanzi.
E Marx ha risposto con una sincerità sconsolata, quasi una confessione. In verità avrebbe voluto finire nel girone degli eretici, in compagnia di Gramsci e Galileo, ma ciò gli è stato negato dal giudice infernale Minosse proprio in virtù del suo comunismo per il quale avrebbe piuttosto meritato il Paradiso! Come? Proprio lui, il mangiatore di bambini? Sì, proprio lui, perché la sua prospettiva comunista era perfettamente in regola con la dottrina della Chiesa, anzi, peggio: con la legge divina. Infatti quel criterio allocativo dell’estremo futuro che aveva enunciato nella Critica del Programma di Gotha: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, era già stato previsto negli Atti degli Apostoli e posto quale norma etica della distribuzione dei beni nelle comunità cristiane originarie fondate sull’amore.
Però il Moro non aveva nessuna intenzione di finire in Paradiso, dato che lì si sarebbe ritrovato, “Dio mi guardi, in perenne consultorio con Tommaso e i dottori del papato”. Allora ha provato a farsi mandare tra i lussuriosi confessando un peccatuccio, quel “fallo di ciccia” che, approfittando di un’assenza della moglie, aveva commesso con “l’Helene un po’ alticcia”, la colf di casa Marx. Certo che tra i lussuriosi gli sarebbe piaciuto starci perché si sarebbe trovato in compagnia del Machiavelli, l’antifilosofo per eccellenza che in gioventù lo aveva aiutato a convertirsi dall’idealismo al materialismo. E con il “Machia” avrebbe potuto conversare anche di cose peccaminose, come quella “disperata foia” che doveva fare del “mangiapreti più famoso del Cinquecento” un segretario (della Repubblica Popolana di Firenze) molto più trasgressivo del segretario della Prima Internazionale. Eppure Minosse gli sbarra la strada. Ma quale lussuria! Quel peccatuccio domestico con l’Helene era stato appena veniale (e quanti se ne erano consumati nel puritano “secolo borghese”!). E quindi al massimo nel Purgatorio e poi, scontata la pena, di nuovo in Paradiso!
Sembrerebbe che ci sia una regola della giustizia divina secondo cui le anime non possono rifiutarsi di andare nel girone cui le ha destinate il Giudice Supremo, a meno che non scelgano di andare in un girone più basso. Dopo tutto, se uno vuole soffrire più di quanto merita, chi è Dio per impedirglielo? E così Marx ha scelto di andare volontariamente tra gli ignavi! Sì, proprio tra gli ignavi dove stanno anche gli economisti. Proprio Marx? Capiamo che c’è un elemento di giustizia in questa scelta. È una pena del contrappasso per il “critico dell’economia politica” che si è lasciato coinvolgere così a fondo nella materia da commettere alcuni errori tipici dei cultori della “trista (non triste!) scienza”. Ora, almeno con il senno post mortem, quegli errori pure lui li riconosce e li confessa a Dante. E in un certo senso sembra quasi trovarsi a proprio agio tra quella razza di illusionisti della teoria, però alcuni anche inetti e cialtroni, se non altro perché li può guardare dall’alto in basso. Infatti egli ha compreso che dietro l’ignavia si nascondono due vizi capitali molto più gravi: la pusillanimità, cioè la tendenza a schierarsi con il più forte; e l’opportunismo, ovvero la tendenza a vendersi a chi paga meglio. E lui aveva capito da tempo che gli economisti sarebbero finiti quasi tutti per diventare dei “pugilatori a pagamento”, e molti anche “volgari”.
Ma è possibile che sia proprio questa la ragione per cui Marx ha scelto di andare all’imboccatura dell’Inferno? Non lo si può credere. Non era poi un individuo così masochista, a parte i bubboni che il suo inconscio gli faceva scoppiare sulla chiappe per sfogare la rabbia repressa mentre scriveva il Capitale. E allora? C’è un’altra motivazione, una motivazione inconfessata, che Dante però ci segnala sin dai primi versi. Lì, in quella bolgia pre-infernale in cui si dimenano le anime vili, il Moro da un palco arringa la folla: “Abbasso l’Inferno! L’assalto al vero cielo sia nostro dovere!”. Il lupo Marxicano (l’animale più nobile della razza dei canidi) poteva avere perso il pelo, ma non il vizio. Dante non lo dice, ma l’oratore non si rivolge agli economisti, i quali infatti gli voltano le spalle. Urla per farsi sentire dalle anime che hanno già passato l’Acheronte e sobillarle tutte (“Dannati dell’inferno, uniti!”) all’assalto dell’unico Cielo con la C maiuscola.
- E chi ha scritto il Canto III bis?
Terry Dalfrano, la curatrice del Canto, narra del suo ritrovamento ad opera di un oscuro ricercatore del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Siena, e anche di un processo per falso ideologico intentato al ricercatore da un barone accademico che non gli crede. Ma l’impressione è che questa narrazione sia solo una scusa per giustificare la propria decisione di pubblicare e commentare il Canto, lasciandoci col sospetto che sia stata piuttosto la curatrice a scriverlo. Dovremmo dunque pensare a un ennesimo caso di fake news, se non fossimo già stati edotti del modo in cui gli ultimi 13 canti del Paradiso sono stati fatti ritrovare da Dante al figliolo apparendogli in sogno. Be’, dopo molte insistenze e con non poche blandizie, Terry ci ha confessato che anche a lei è accaduta una cosa simile: il Sommo Poeta le è apparso in sogno e le ha ingiunto di scrivere il Canto III bis. Si badi bene: di scriverlo sotto dettatura, non di ritrovarlo dietro una “finestretta” purchessia. Così come ci ha confessato che, nel redigerlo, si è sentita posseduta da una forza irresistibile che le ha guidato la mano e la mente (e forse anche qualche altra parte di sé).
La prima sensazione che ci ha suscitato questa rivelazione è stata quella di una donna affetta da una forma di megalomania vaneggiante, non insolita tra i cultori di Calliope. Ma potremmo sbagliarci. Infatti è possibile che Terry Dalfrano sia stata proprio una reincarnazione di Dante. E non sarebbe illogico che la provvidenza divina abbia voluto resuscitarlo nel corpo di una donna, visto il karma negativo che egli aveva accumulato con le pene che ha fatto patire alla moglie Gemma Donati (secondo Giovanni Boccaccio, che ne doveva sapere parecchio). E reincarnato in quale donna, poi! Certamente Terry non è una Beatrice – tutt’altro, a giudicare dalla sua professione di “escort accademica” di cui ha appena narrato in un romanzo giallo (autobiografico?) La chiave occulta che si trova in rete e di cui pubblicheremo prossimamente una puntuale recensione. Insomma, ci pare proprio che il corpo peccaminoso di Terry possa essere la giusta pena del contrappasso per quel mistico che ha usato la donna (ricordiamo quella “donna petra” con cui, se avesse potuto prenderla “per le trecce”, non sarebbe stato “pietoso né cortese”) e poi in senilità l’ha mistificata angelicandola. Così Dante viene punito anche per aver sparlato della “puttana sciolta” da flagellar “dal capo infin le piante”, accusandola di essere sempre votata a “puttaneggiar coi regi”. E ben gli sta: ora la Terry puttaneggia coi baroni!