Per un altro mondo. Riflessioni sul saggio di P. Amato e L. Salza, “La fine del mondo. Visioni politiche e diserzione popolare”, Il Glifo ebooks
di Valerio Romitelli
In un famoso precedente del testo di Amato e Salza si può leggere: «Certo il mondo può finire, ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto di rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. Il pensiero della fine del mondo per essere fecondo deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta» (p. 629). Questa riaffermazione dell’inevitabile dialettica tra fine e inizio, distruzione e ricostruzione, tra la sempre caduca immanenza e la primordiale capacità di trascendenza ci viene da quella raccolta postuma di appunti di Ernesto De Martino dal titolo appunto La fine del mondo [1]. Un tema ricorrente nella storia dell’umanità sul quale il grande etnologo napoletano si interrogava soprattutto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel cuore di un’epoca, detta anche dei «trent’anni gloriosi», durante la quale non mancavano certo, né speranze per l’avvenire, né fenomeni apprezzabili (quali i progressi dell’industrializzazione mondiale, il boom in Italia, l’implemento generalizzato del ceto medio, dei salari, dell’istruzione, della decolonizzazione e così via), anche se su tutto incombeva il terrore per una fine del mondo causata dalla «guerra fredda» tra le grandi potenze dotate di bombe atomiche, anzitutto Stati Uniti e Urss.
Tra i tanti meriti del breve quanto appassionato e appassionante pamphlet di Amato e Salza (arricchito da suggestivi riferimenti visivi) si può annoverare anche questo: l’offrirci una misura di quanto la «fine del mondo» di cui ci sentiamo prossimi, se non già irrimediabilmente sprofondati, sia radicalmente difforme anche soggettivamente da quella su cui meditava De Martino. Se c’è infatti una netta presa di distanza di questo libretto è proprio nei confronti del modo di concepire il mondo e la sua fine cui lo stesso famoso etnologo attingeva. La citazione più sopra riportata non lascia infatti molti dubbi: quanto al suo approccio filosofico – poi declinato magistralmente in formidabili ricerche sul campo – De Martino si rifaceva evidentemente a quei canoni quasi d’obbligo per molti intellettuali italiani anni Sessanta. I canoni di una dialettica storicista d’ispirazione un po’ crociana, un po’ marxista, capace di scandire ogni discorso grazie a tesi e antitesi sempre in attesa di una sintesi risolutoria: si tema pure che finisca il mondo, ma l’importante è la coscienza che sta a noi ricostruirlo!
Ecco è una morale simile (da me condensata) ciò di cui Amato e Salza non ne vogliono proprio sapere. Le fonti filosofiche ispiratrici del loro approccio sono infatti tutti autori (Nietzsche, Deleuze, Foucault, Blanchot, Kojève, ma anche Joyce) per i quali la Grande Storia come la sua Fine sono per lo più recepiti come espedienti narrativi essi stessi già esauriti e/o sempre in via di esaurimento. Farla finalmente finita con la fine è infatti uno degli imperativi assunti da questo testo che invita a una «decisone radicale: fare propria sino in fondo la gravità della situazione e aggravare la catastrofe, sino a che il sistema economico liberale non debba dichiarare il proprio fallimento, perché privo di corpi, del caos, del capitale umano, dell’ingovernabile che deve governare per riprodursi incessantemente».
Tema centrale è ovviamente la pandemia in corso, a causa di quello che i due autori nominano come Virus Kapital, non vedendo nel diffondersi pandemico alcun effettivo evento, ma solo un’occasione per un rinnovamento del capitalismo neoliberale globale volto alla sua stessa riaffermazione come logica del mondo. «Ora – essi sostengono a proposito dell’avvenire – è chiaro chè […] un nuovo programma di welfare state, un poco green, è incompatibile col neoliberalismo, dal momento che le ultime velleità dei diversi tentativi di riformare dall’interno il capitalismo, quelli verdi e quelli rosa, già insostenibili da trent’anni, sono più che mai imbarazzanti e insopportabili. Ecco perché ricominciare come prima non è un’alternativa […] non c’è nulla da ricostruire. Piuttosto non bisogna fare nulla: non collaborare in alcuna maniera per ritornare alla normalità […]. Si tratta distruggere la distruzione, di rovinare le rovine, di annichilire la desolazione per schivare l’idea che si tratti solo di ripetere ciò che conosciamo».
Amato e Salza non evitano comunque di porsi in modo anche più concreto le fatidiche domande di portata politica: «Che fare? Come fare? Come disertare? Come rifiutarsi di aderire al come prima, peggio di prima? A chi ci rivolgiamo? A quale popolo, a quale blocco sociale?». Ma anche qui le risposte non sono affatto scontate: «Non parliamo per nessuno […] forse neanche per noi stessi. Piuttosto, ma neanche questo è detto, qualcosa ci parla e ci attraversa». La domanda cruciale allora diventa: «Come schivare desolazione e risentimento e riscoprire la gioia e la festa della rivolta senza cedere a moralismi e giudizi sommari? La constatazione preliminare che si impone è che oggi ci tocca scrivere, pensare e lottare in spazi vuoti: consegnati ad una scrittura dei residui come se la stessa scrittura nel vuoto fosse divenuta un residuo».
Tra i tanti dubbi balenano però riferimenti arditi: «chissà probabilmente pensiamo a un’operazione politica ed estetica bolscevica o dada». Dichiarazione seguita da uno degli enunciati più felicemente lapidari e che commenterò tra poco: «Dobbiamo fare appello a ciò che non c’è come unica chance di esserci, insieme, diversamente da prima».
A imporsi è quindi un compito detto iperbolico: «non pensare mai più una riforma dello Stato, un qualche modo di far rifunzionare le sue diverse emanazioni», ma «ripartire da zero», ovvero fare delle condizioni derivate dalla pandemia l’occasione di un effettivo evento politico. E qui devo dichiarare il mio più completo accordo. Meno mi convince invece il termine in fondo più ricorrente che viene utilizzato per designare questo evento: sciopero dell’esistenza. Formula evidentemente paradossale e provocatoria che viene illustrata da domande senza risposta come «un’evasione di massa restando dove siamo? possiamo scomparire (quasi) tutti? Possiamo scongiurare l’attuale logica del comando e prendere l’iniziativa e quindi decidere di non prenderne nessuna?».
L’idea è che così si potrebbe minare quella coincidenza tra vita e lavoro che la gestione della pandemia sta rendendo pressoché totale. Il discorso di Amato e Salza, dopo ulteriori, svariate e stimolanti riflessioni, si cimenta nel descrivere la cosa da loro più sognata, immaginata e desiderata, pur forse anche al limite del delirio, come ammettono loro stessi. Sono così evocati «milioni, miliardi di abitanti della terra […] una gigantesca organizzazione dal basso […] una rete di solidarietà invisibile, ma tenace capace di assicurare assistenza di tutti […] nuove istituzioni clandestine; il tutto per implementare le diverse proteste dei movimenti ecologisti e le varie forme di organizzazione che stanno affiorando nella catastrofe, per rispondere e resistere al disastro sociale e economico: mense per poveri, cooperazione sociale, scioperi nelle piattaforme di consegne a domicilio», e così via.
E anche qui mi viene da applaudire. Come non essere d’accordo, non condividere questo stesso sogno così felicemente tratteggiato? Amato e Salza in effetti ci permettono alzare lo sguardo su una quanto mai stimolante prospettiva singolare, sensibilmente diversa da quella proposta da Bifo [2] e salutarmente lontana da quelle tante e tanto ottuse tentazioni di rilanciare un improbabile sovranismo di sinistra.
E tuttavia… Tuttavia, non fosse che per il gusto oggi un po’ trascurato della discussione, ecco qualche riserva formulata ovviamente in stile telegrafico. Non tanto sulla «cosa», quanto sul come puntarci. E senza rivendicare alcun altro riferimento oltre i già evocati bolscevismo e dadaismo.
Qui riprendo il bel passo sopra citato: «fare appello a ciò che non c’è, come unica chance di esserci». Ora se è proprio questo il punto, io credo che sia decisivo uno sforzo in più che immaginarsi, sognare, desiderare un’organizzazione, per di più gigantesca, o addirittura «un altro codice (visivo) di relazioni o inesplorati montaggi tra parole e corpi». Un tempo ho scritto (l’obbligo di concisione scuserà spero l’autocitazione) un testo dal titolo L’egemonismo, malattia senile del comunismo. Lì me la prendevo con la smania maggioritaria della sinistra. Contrariamente al loro nome e a quello che illusoriamente spesso si crede, i bolscevichi come i dadaisti si può dire non furono mai maggioritari, gli uni nella politica, gli altri nell’arte e nella cultura del proprio tempo. Ciò che ebbero più di ogni altro schieramento a essi contemporaneo fu la passione per l’organizzazione, ma non burocratica: da un lato, intellettualmente elaborata, dall’altro, puntualmente finalizzata. Il loro «noi» univa certo assolutamente e prioritariamente attorno a ideali e valori, ma anche divideva radicalmente contro chi remava contro. La loro esistenza non si alimentò del consenso di un «popolo» o di un «blocco sociale», ma dal loro «esserci» tra popolazioni assai ristrette: nel caso dei bolscevichi, popolazioni particolarmente sofferenti di guerra e sfruttamento, come certi reparti di soldati e operai delle sparute fabbriche esistenti a quel tempo in Russia, o nel caso dei dadaisti, particolarmente sensibili a un mutamento estetico (per dirla brutalmente). Ed è così che riuscirono a far epoca e cambiare il mondo.
Il mondo non è mai veramente uno solo [3], e se lo è, fintanto che lo è, è perché altri si sono esauriti. Quello capitalistico ora pare tanto unico e insuperabile solo perché col crollo dell’Urss e la conversione capitalista della Cina si sono decomposti quegli altri mondi (comunista e non allineato, antimperialista) che gli stessi bolscevichi sia pur alla lontana avevano reso possibili. Mondi che, pur essendo tutto tranne che perfetti, avevano comunque a loro volta reso possibile mettere sulla difensiva quello capitalista filoamericano. Il che spiega tutte le inedite meraviglie sociali dei tempi di De Martino e che oggi rimpiangiamo.
Lungi da me voler resuscitare le propensioni ideologiche e dialettiche che dominavano il progressismo in quei «trent’anni gloriosi». Ma credo che oggi – calati come siamo in questo incubo pandemico dilagante – per pensare come rifare un altro mondo al posto di quello che si sta decomponendo e portando tutto alla rovina, ci voglia una prospettiva simile sì certo a quelle bolscevica e dadaista (come giustamente consigliano Amato e Salza), ma anzitutto nel suo essere decisamente e fruttuosamente minimalista: tanto organizzata intellettualmente e praticamente, quanto capace di radicarsi tra popolazioni più soffrenti, e «invisibili» come le chiama Abubakar.
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[1] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle catastrofi culturali, Einaudi, Torino 1977.
[2] Fenomenologia della fine, Nero Editions, Roma 2020.
[3] Come dimostra Alain Badiou nel suo Logiques des mondes, Seuil, Paris 2006.