Pensare la presenza. Recensione al libro di Antonella Mancusi
di Giorgio Morgione
Ho articolato questa recensione in due parti: una presentazione e un commento.
Presentazione
Il libro recentemente pubblicato di Antonella Mancusi, Presenza. Essere dinanzi al mondo, essere dinanzi al vuoto, Edizioni Mimesis, 135 pagine, si muove tra più ambiti disciplinari e interroga un ampio ventaglio di autori: dalle antropologie di Ludwig Binswanger, Joseph Gevaert ed Ernesto De Martino, alle etnopsichiatrie di Eugenio Bornia, Georges Devereux, fino alle filosofie di Martin Heidegger, Günther Anders, Maurice Merleau-Ponty, Umberto Galimberti, Michel Foucault, Maŕc Augé e Gilles Lipovetsky. Sono messe a tema la comprensione e la crisi della presenza, dove per presenza si intende l’essere noi in condizione di «agire con efficacia sulla realtà circostante» e, si potrebbe aggiungere, di riconoscerci come soggettività nel libero e consapevole esercizio di quel che siamo nel mondo e nella storia. L’autrice analizza anzitutto la crisi di presenza, il venir meno della presenza nel mondo contemporaneo, quindi la necessità e la possibilità di un riscatto, specie da parte delle nuove generazioni, le quali patiscono maggiormente la negatività del fenomeno. Rispetto a ciò, la possibilità di un cambiamento è dialettica, poiché deve esplorare, per identificare un esito di sintesi, entrambi i momenti presi in esame: quello della crisi e quello del riscatto della presenza.
A parere dell’autrice, nei riguardi delle filosofie esistenzialiste del Novecento, il mero concetto di presenza, pensato come assoluto (absolutus), è in grado di unire in modo più sostanziale le istanze profonde dell’esistenzialismo con quella di mondo. Presenza dunque richiama più dimensioni dell’esperienza del sé. Essa può voler dire dar conto di noi stessi, oppure avvertire il segno lasciatoci dentro da qualcuno che non è più presente, o ancora l’interagire psicofisico con l’ambiente (pp. 19-20)
Nel primo capitolo (Presenza, corpo ed esistenza), Mancusi pone a confronto il concetto heideggeriano di presenza con quello demartiniano, rimarcando come per il primo si debba intendere il semplice ed immediato stare delle cose nel mondo, uno stare precostituito rispetto all’uomo (il Da-sein di Sein und Zeit), mentre per il secondo si tratta di una condizione dell’esistenza umana, determinata da istanze storiche e culturali. Allo stesso tempo il concetto di presenza in De Martino, appunto per il fatto di esprimere la condizione umana nel e dinanzi al mondo, è accostabile al Da-sein di Heidegger, sia pur tenendo presente che quella del filosofo tedesco non è per costituzione una presenza vacillante e sempre a rischio di dissoluzione. Per De Martino, continua l’autrice, la presenza non è mai soltanto un dato, un esser posto o “gettato”, essa è essenzialmente processo e problema. Il Da-sein heideggeriano interpreta e utilizza il mondo stando in aderenza con esso. La presenza demartiniana comprende sé e la realtà circostante tenendosi autocriticamente a distanza dal mondo.
Parimenti stimolante è il tema esaminato nel sesto paragrafo del primo capitolo e successivamente ripreso nel sesto paragrafo del quarto: il corpo. Mancusi apre con la critica di Umberto Galimberti alla separazione di corpo e psiche che connota la storia del pensiero occidentale a partire da Platone. Nel cuore di tale critica si reclama uno sforzo teso a riavvicinare le due istanze del soggetto. Il corpo, nella sua fisicità, nelle sue posture e forme, unito e connesso con la psiche, parla di noi e del nostro stato di presenza nel e dinanzi al mondo. La comprensione della presenza è comprensione della condizione esistenziale dell’individuo nella sua interezza, comprensione che non può provenire soltanto dall’attenzione rivolta alla dimensione psichica, ma deve passare anche attraverso lo sguardo, l’ascolto, la lettura del corpo. Il corpo, allora, si fa veicolo dell’interazione tra coscienze e tra coscienza e mondo, come si può ben vedere, a giudizio dell’autrice, nelle fenomenologie di Husserl e Merleau-Ponty (pp. 32-33). Ma la presenza può entrare in crisi quando il sopraggiungere dell’incertezza nelle circostanze storiche e sociali la disperde oppure ne ostacola la determinazione. A tal proposito Mancusi mostra come De Martino abbia riflettuto profondamente sul fenomeno, e specificamente sulla relazione che presenta con le pratiche rituali e le regole razionali che una comunità storica è necessitata a darsi e che costituiscono, secondo l’antropologo napoletano, un terreno culturale di protezione e riscatto dalla crisi. Il processo è, come già detto, dialettico: la coscienza, proprio perché smarrita, avverte disagio verso la comunità e in questa, tra le sue trame etiche, cerca la strada per ricostituirsi.
Nel terzo capitolo (Gli universi sovrapposti dell’etnopsichiatria) la dimensione psicopatologica dell’essere umano è presa in considerazione in quanto capace di riportare all’attenzione la relazione uomo-mondo e di sollevare l’interrogativo su quale sia l’idealtipo “normale” della stessa relazione. Mancusi si muove attraverso le riflessioni di Devereux, Nathan, Augè, per mostrare la distanza di prospettiva tra cultura occidentale e tradizione non occidentale in materia di pratica psicoterapeutica. Dalla comparazione emergono differenze sostanziali, come ad esempio, per citare la più lampante, quella dell’ente curante, che nella cultura occidentale corrisponde quasi sempre al medico terapeuta, mentre in quella non occidentale si identifica ricorrentemente con entità non umane, invisibili.
Nel quarto capitolo (La crisi: dimensione magica e psicopatologica) l’autrice si sofferma su aspetti del pensiero di Ludwig Binswanger, mostrando come, secondo lo psicologo svizzero, la condizione esistenziale genuina del puro essere nel mondo, colta prima di qualsiasi distinzione tra malattia e normalità, tra alienazione e aderenza, sia continuamente minacciata da un «sovraccarico» di struttura teorica che inquina e deforma l’autentica originalità dell’esistenza e del suo progettare nel mondo (pp. 68-70). La possibilità di pensare l’autenticità dell’esistenza è favorita dalla riflessione su casi psicopatologici complessi. A tal proposito – qui, come in altre parti del suo libro – Mancusi entra nell’esperienza di casi clinici, certa che «inoltrarsi nella lettura di scritti di persone definite non sane di mente ci insegna a dare più spazio al sentimento della realtà, a come questa viene vissuta» (p.74). Alla crisi di presenza concorrono in qualità di agenti extrapsichici il progresso tecnico, la produzione industriale e il consumo di massa, forze in grado di trattenere la coscienza in una follia ipnotica e paralizzante e in ogni caso lontana dal proprio centro. Mancusi fa riferimento ad alcuni noti testimoni di tale visione, come Günter Anders, Arnold Gehlen e, in campo cinematografico, Matteo Garrone.
Il quinto capitolo, costruito a partire da una ricapitolazione di sette scritti di De Martino, continua l’esame del concetto di crisi di presenza. Essa, spiega Mancusi, si manifesta anzitutto come perdita del mondo. Di quest’ultimo la coscienza non può cogliere la significatività, essendo essa indefinita, distante, ostile, così non può neppure progettare in apertura al mondo. Nel sesto capitolo si vede come tale scenario possa diventare oltremodo insidioso, in presenza di una tecnica pienamente dispiegata e spesso accompagnata dagli ipertrofismi più inquietanti della modernità: ipercapitalismo, iperconsumismo, iperindividualismo, iperconnettività. Se nella cultura mitico-rituale il riscatto della presenza è veicolato dal ricorso al simbolico e al religioso, in quella cosiddetta occidentale la riappropriazione della presenza può avvenire per mezzo di una ricostituzione della significatività etica e politica. Fuori da tali schemi alligna il dramma demartiniano dell’incapacità d’azione e dell’apocalisse.
Commento
In primo luogo, uno sguardo rivolto al secondo volto del libro di Mancusi: quello extrascientifico. Senz’altro originali, nella loro capacità di restituire la lettura emozionale e psicologica di alcuni vissuti personali, sono le appendici ai capitoli primo e quarto, ma ancor maggiore carattere posseggono gli estratti dai diari personali posti in luogo di epigrafi alle sezioni, in particolare Siamo più che cielo (cap. 1, par. 6) e Immobile destino (cap. 3).
Per quanto riguarda la trattazione dei temi, il libro di Mancusi visita e attraversa più ambiti disciplinari, dalla filosofia all’antropologia, dalla psicologia all’etnologia, dalla sociologia alla tecnica. Viene da chiedersi cosa manchi. In esso emerge con particolare chiarezza che la crisi di presenza spinge, o dovrebbe spingere, alla ricerca di un riscatto della stessa. L’autrice, con sguardo rivolto soprattutto al pensiero di De Martino, di Lipovetsky e di Anders, contempla diverse vie di riscatto: quella appartenente al mondo magico-rituale, quella del corpo fisico, quella che si appella alle istanze etiche e politiche della cosiddetta civiltà moderna e quella – poco più che accennata – dell’arte. Ma può esserci spazio anche per la vita ascetica e per le pratiche orientali di distacco dal mondo, per quella compagine di civiltà che rimette alla non sublimazione della soggettività, alla sottrazione dell’azione e alla capacità di scansare l’evento la realizzabilità dell’autentica presenza? Possiamo affermare che queste siano in pari o diverso grado dirette alla ri-determinazione della presenza, sebbene e appunto in senso opposto alle vie illustrate da Mancusi, ossia come negazione di progettualità nel e verso il mondo?
Infine, considerato come strumento di ricerca, Presenza non è un’opera lineare e organica; in alcuni casi le trattazioni dei temi risultano frammentate, interrotte e riprese in più paragrafi, pertanto il compito di annodare i fili dell’indagine spetta il più delle volte al lettore. Ma questo non la priva dei suoi meriti: quello di coinvolgerci in una riflessione molto attuale e di spingerci a comprendere l’universalità della presenza – uno di quegli argomenti tentacolari che si possono trovare annidati anche in quelle filosofie che non se ne dichiarano portatrici – cercando nella sconfinata letteratura delle cosiddette scienze umane. Esso è così un libro che denuncia e richiama, nella misura in cui ci pone di fronte alla precarietà dei nostri tempi, alle nostre maniere di vivere e non vivere il presente e alle possibilità di (ri)stare presso di noi.