Pane e tulipani, ovvero così non parlò Piero Sraffa. Cronache marXZiane n. 8
di Giorgio Gattei
1. Con l’accumulazione del profitto realizzato in moneta viene messa in gioco la sorte del pianeta Marx. Ma come procedere per comprenderlo? Vale pur sempre la regola esposta dal suo primo “mappatore” per cui, davanti ad un fenomeno complesso, «si deve sempre partire dal presupposto che le condizioni reali corrispondano al loro concetto o, ciò che significa la stessa cosa, che le condizioni reali vengano esposte solo in quanto coincidano con il tipo generale ad esse corrispondenti» – insomma che il concetto sia adeguato all’oggetto secondo la sua necessità logica, mentre le altre condizioni, che sul momento sono state trascurate, potranno poi esservi aggiunte. Ciò vale soprattutto per l’argomento conclusivo da considerare, e cioè che il pianeta Marx, a differenza di ogni altro corpo celeste, ad ogni rotazione cresce di dimensione per l’accumulazione del profitto indirizzandosi verso un esito finale, una sorte o un destino che si possono almeno congetturare. Si sa che Marx ne aveva previsto la fine per la “caduta tendenziale” del saggio generale del profitto: essendo «il vero limite della produzione capitalistica il capitale stesso», esso entra «in conflitto con i metodi di produzione a cui deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro», cosicché «il modo di produzione capitalistico, che è un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono».
Ma come si è posto Piero Sraffa rispetto a questa prospettiva en marxiste? Non è dato a sapere, perché nella relazione pubblicata nel 1960, Viaggio di merci per merci, dopo aver impostato la misura del valore del Prodotto netto sul Lavoro vivo (a suo merito spetta l’aver sostituito il fallimentare “valore-lavoro” marxiano: X = K + L con il valore del Prodotto lordo X pari alla somma del valore del capitale K e del Lavoro vivo L, con il “neovalore-lavoro” dove il prezzo del Prodotto netto Y è pari al solo Lavoro vivo così che Y = L) ed averne considerato la ripartizione “polemica” tra Profitti e Salari (Y = W + P), quando avrebbe poi dovuto trattare della destinazione del profitto ad Accumulazione, previa una incursione sulla “scelta della miglior tecnica produttiva” qualora ce ne sia più d’una a disposizione su cui si è discusso anche troppo, alla maniera di un coito interrotto bruscamente si tira indietro e conclude il libro, lasciandoci orfani della sua opinione in merito all’argomento che allora andava più di moda presso gli astronomi di Cambridge che era proprio la crescita del pianeta per accumulazione, e nemmeno ce ne dà una giustificazione in una conclusione non c’è.
Eppure sappiamo, per testimonianza del discepolo Luigi Pasinetti, che egli se ne era interessato e forse ne aveva anche scritto, sebbene nulla compaia nella relazione di viaggio pubblicata: «l’impressione che ho avuto dalle numerose discussioni con Sraffa è che la sua intenzione (fosse) di eliminare volutamente dalla versione finale tutte quelle elaborazioni, che in versioni precedenti potrebbero esserci state, che potessero far apparire connessioni coi problemi di crescita economica di cui si stava occupando il gruppo post-keynesiano» di Cambridge, soprattutto i colleghi Joan Robinson e Nicholas Kaldor ma che giungevano a conclusioni con cui lui non poteva assolutamente accettare.
2. Di Joan Robinson si sa che non aveva affatto apprezzato la relazione di viaggio di Sraffa accusata di essere, in un intervento specifico del 1965, un «puro formalismo» che non andava oltre «l’osservazione piuttosto banale che il saggio del profitto è suscettibile di essere determinato al di fuori del sistema di produzione. Egli si accontenta di gettare le basi della sua critica e quindi ci lascia liberi di pensare». Ma lei, per l’appunto, come la pensava? La pensava che non si poteva nemmeno calcolare il saggio generale del profitto sul capitale (r = P/K) perché «occorre conoscere il livello dei prezzi per conoscere il valore del capitale ed è necessario conoscere la misura del saggio del profitto per conoscere il livello dei prezzi» e questa era stata la sua “maggior critica” che aveva esposto in un polemico articolo del 1953: «allo studente di teoria economica s’insegna a scrivere Q = f (L, K) dove L è una quantità di lavoro, K una quantità di capitale e Q la quantità prodotta di certe merci… e poi lo si fa passare frettolosamente al problema che segue, nella speranza che egli si dimentichi di chiedere in quali unità viene misurato K e prima di avere il tempo di porsi tale domanda è già diventato professore; e così abiti mentali frusti sono tramandati da una generazione all’altra». Conseguentemente per lei non c’era altra soluzione se non abbandonare la misurazione del saggio generale del profitto ripiegando sul calcolo (questo sì possibile) del rapporto monetario dei Profitti sui Salari che chiamava marxianamente «saggio di sfruttamento»: s = P/W, il quale «dipende dalla forza contrattuale dei lavoratori ben più del saggio del profitto sul capitale». E siccome è «chiaramente il saggio di sfruttamento che determina il saggio di profitto e non viceversa», ne aveva dedotto (come scritto in altro luogo) che «se vi è una tendenza di lungo periodo alla caduta del tasso di profitto, vi deve essere una tendenza all’aumento dei salari in termini di merci». Ecco perché secondo lei Marx aveva fatto bene a considerare «il saggio di sfruttamento una relazione ben più fondamentale del saggio del profitto sul capitale, ma queste vaste ipotesi non si trovano nel pensiero di Sraffa. La funzione della logica pura quella di liberarci dalle cose senza senso, non di dirci ciò a cui dobbiamo credere» e quella di Sraffa non era stata altro se non un brillante esercizio di logica pura.
Eppure Marx non avrebbe condiviso se nel manoscritto del terzo libro del Capitale aveva giudicato «nulla di più assurdo che spiegare la diminuzione del saggio del profitto con l’aumento del saggio dei salari, quantunque anche questo fatto possa presentarsi in via eccezionale». Ma nemmeno Sraffa l’avrebbe seguita se in una carta privata, citandola, aveva criticato «tutti quelli che dicono sempre che una adeguata caduta dei salari può contrastare qualsiasi caduta del tasso dei profitti (Joan Robinson)» perché, alla maniera di coloro che ne negano la caduta, «non sanno della esistenza di un Saggio Massimo del profitto» in cui i salari sono nulli per definizione sicché, se mai dovesse cadere, i salari non potrebbero esserne la causa.
3. Più amichevoli erano invece i rapporti con Nicholas Kaldor, sebbene anche lui gli avesse rimproverato, nell’unico intervento esplicito sulla relazione di viaggio (a Torino nel 1984), di aver mostrato il solito interesse «nel complesso sproporzionato» che gli economisti hanno verso la teoria dei prezzi e della distribuzione del reddito, quando invece «a mio modo di vedere la teoria economica dovrebbe concentrarsi sulle forze che producono il cambiamento e che sono esse stesse soggette ad incessanti cambiamenti di direzione». Tradotto: il principale tema di studio non avrebbe dovuto essere piuttosto quello della Crescita per accumulazione, su cui peraltro Kaldor si era personalmente impegnato elaborandone tre modelli tra 1957 e 1962 che hanno indotto Robert Solow a paragonarlo «a un satellite che ad ogni giro attorno alla terra fa piovere un modello diverso»?
Però Kaldor non intendeva fare teoria a tavolino, bensì ricavarla direttamente dalla realtà, ossia da alcune rilevanze statistiche significative che assumeva quali «fatti stilizzati» (come li aveva chiamati) capaci di “condensare” il reale per poterlo rappresentarlo analiticamente. «Il teorico – aveva spiegato in un convegno internazionale a Corfù nel 1958 – dovrebbe essere libero di cominciare con una visione “stilizzata” dei fatti, concentrandosi sulle tendenze generali ed ignorando i dettagli individuali», così da poter «dar conto di questi fatti stilizzati senza necessariamente impegnarsi sulla accuratezza storica o sulla sufficienza dei fatti o delle tendenze così riassunte» (da cui la perplessità di Solow se mai quei “fatti” «sicuramente “stilizzati” si potessero dire anche “fatti”»). Comunque, Kaldor partiva dalla condizione che nel lungo periodo il livello della produzione è determinato dal pieno impiego della manodopera così da essere «limitato dalle risorse disponibili e non dalla domanda effettiva» (con buona pace di Keynes «uno stato keynesiano di equilibrio di sottoccupazione è incompatibile con un equilibrio dinamico di sviluppo continuo»), a cui si dovevano aggiungere i due fenomeni-compagni della crescita del reddito e del capitale, mentre la legge di movimento del sistema avrebbe dovuto spiegare perché alla lunga si manifestavano quelle costanti empiriche che Kaldor aveva assunto come “fatti stilizzati”.
Ma proviamo a spiegare il ragionamento di Kaldor risistemando il modello di crescita del 1957 ripresentato nel prolisso (ma dottissimo) intervento a Corfù nel 1958, dando evidenza alla presenza di Saggio Massimo (che c’è ed è poi quello che ci preme). Si deve ipotizzare che «tutti i profitti sono risparmiati e tutti i salari consumati», che il salario non può mai cadere al di sotto di un certo livello minimo determinato dalla sussistenza e che il profitto P si ricava «sottraendo il valore dei salari di sussistenza W dal reddito di piena occupazione Y», ossia:
P = (Y – W)
Dopo di che, rapportando questo profitto al capitale impiegato K misurato «su una più o meno arbitraria convenzione» per aggirare il divieto di calcolo posto dalla Robinson, si ricava il saggio generale del profitto:
r = P / K = (Y – W) / K
e se di Saggio Massimo Kaldor non parla esplicitamente, esso è però presente “travestito” da rapporto Reddito/Capitale essendo evidente che qualora W = 0 consegue che:
max r = R = Y / K
Ora è proprio su questo rapporto (che quindi non è altro che Saggio Massimo, come poi avrebbe constatato l’astronomo giapponese Nobuo Okishio: «statisticamente possiamo approssimare il saggio massimo di profitto per mezzo del rapporto del prodotto netto al capitale impiegato, cioè per mezzo dell’inverso del familiare “rapporto capitale-prodotto”») che gira il modello di Crescita per accumulazione di Kaldor, previa sua scomposizione nelle due componenti:
R = Y/K = Y/L.L/K = m /q
dove m = Y/L è la “produttività del lavoro” (ossia quanto reddito è prodotto per unità di lavoro) e q = K/L è la “composizione del capitale”, ossia quanto capitale serve per impiegare una unità di lavoro.
È a questo punto che entrano in scena i “fatti stilizzati”, quali risultano dalle statistiche, che sono la crescita continua del reddito, della produttività del lavoro («non è registrata alcuna tendenza nella caduta del tasso di crescita della produttività») e della “composizione del capitale” «quale che sia la misura statistica del capitale che si adotta». Ad essi Kaldor aggiunge poi la costanza empirica della quota dei profitti sul reddito P/Y «per le economie sviluppate degli Stati Uniti e della Gran Bretagna a partire dalla seconda metà del XVIII secolo» e del rapporto K/Y che tende a rimanere «virtualmente immutato per periodi piuttosto lunghi». Ma come giustificare questa ultima costanza, che poi è quella dell’inverso di Saggio Massimo essendo preclusa qualsiasi manovra sui salari che non ci sono? Per farlo Kaldor introduce, accanto alla “funzione d’investimento” che nel lungo periodo è linearmente crescente assicurando «un saggio d’investimento esattamente uguale al saggio del risparmio», una originale “funzione del progresso tecnico” su cui non possiamo intrattenerci, ma di cui possiamo solo dire che «postula la relazione tra il tasso di crescita del capitale ed il tasso di crescita del prodotto». Essa è costruita in modo tale da intersecare la funzione d’investimento in un punto di equilibrio in cui «il tasso di crescita del prodotto è uguale al tasso di crescita del capitale», a significare formalmente, per un generico saggio di variazione dx/x, che in termini di Saggio Massimo (ovvero del rapporto Reddito/capitale) sarebbe:
dR/R = (dm/m – dq/q)
che per l’equivalenza precedentemente postulata nel punto di equilibrio:
dm/m = dq/q
darà: dR/R = 0, ossia che «per l’intera economia e in periodo lungo il rapporto generale capitale-prodotto tenderà a rimanere costante» e questo «come conseguenza di forze endogene che operano nel sistema e non come risultato di una coincidenza». Dopo di che scomponendo il saggio generale del profitto:
r = P/K = P/Y.Y/K
si può mostrare come questa costanza teorica di Saggio Massimo, ovvero di Y/K, accompagnandosi alla costanza empirica della quota dei Profitti sul Reddito P/Y darà pure la costanza del saggio generale del profitto, così da giustificare perché, con buona pace di Carlo Marx, «non c’è una tendenza di lungo periodo alla caduta del saggio del profitto».
Tutto bene, dunque? Il saggio generale del profitto non cade perché in teoria non cade Saggio Massimo, eppure Kaldor non ne doveva proprio esserne del tutto convinto se chiudeva il suo intervento a Corfù con l’avvertimento cautelativo che quella equivalenza strategica tra la crescita del reddito e del capitale «non può accontentarsi di una fondazione a priori, ma deve essere basata sulla evidenza empirica… e qualora gli statistici dovessero concordare che non c’è correlazione tra le due variazioni di crescita del reddito e del capitale, questo fatto sosterrebbe l’ipotesi contraria che il sistema si muove verso un punto che non sarebbe necessariamente quello in cui i due saggi di crescita sono uguali». Insomma, avrebbe dovuto essere comunque l’empiria a convalidare la teoria perché, come dicono gli inglesi, se la prova del budino sta nel mangiarlo e al gusto il budino risulta immangiabile, allora sarà tanto peggio per il budino!
4. A Piero Sraffa, che aveva accompagnato Kaldor a Corfù, quel suo modello di “Crescita per accumulazione” non doveva affatto apparire convincente e questo per due ragioni, la prima delle quali espresse subito al convegno intervenendo nella discussione (un fatto insolito per lui, restio a parlare in pubblico) a proposito della diversa natura delle misure statistiche rispetto a quelle teoriche, con le prime che sono necessariamente approssimative, mentre le seconde «richiedono una precisione assoluta, talché qualsiasi loro imprecisione non è semplicemente fastidiosa, ma distrugge la base dell’intero edificio teorico» e proprio per questo, avrebbe aggiunto in una replica, «i teorici non possono sfuggire [alla critica] semplicemente dicendo di sperare che la loro teoria non sia troppo spesso errata». Ma era soprattutto la conclusione teorica della costanza nel lungo periodo del rapporto Capitale/Reddito, ossia dell’inverso di Saggio Massimo, che Sraffa non poteva accettare dato che per lui Saggio Massimo doveva pur finire per cadere, come aveva annotato in un promemoria proprio sulla «caduta del saggio del profitto che va basata sulla esistenza di un saggio massimo del profitto e sulla tendenza del saggio massimo del profitto a cadere con l’accumulazione». Così perché non immaginarci uno Sraffa che, al suo ritorno da Corfù, si aggirasse per Cambridge, alla maniera del Galileo Galilei dell’«Eppur si muove» dopo l’abiura della idea del moto della terra attorno al sole a cui l’aveva costretto il Santo Uffizio, mormorando tra sé «Eppure cade» (Saggio Massimo)?
Tuttavia la dimostrazione di questa “legge di caduta” non è presente in Viaggio di merci a mezzo di merci e nemmeno, a quanto finora è dato a sapere, nelle carte manoscritte, sicché non resta che farne congettura sulla base delle anomalie che nel testo si possono riscontrare (come è stato fatto per quella equivalenza di “neovalore-lavoro” Y=L che Sraffa non ha mai scritto esplicitamente ma che pure consegue dalla stranezza della doppia presa a numerario del valore del Netto (Y = 1) e del “lavoro vivo” che l’ha prodotto (L=1), salvo poi trovarne conferma autentica in un appunto in cui si può leggere che «il valore del reddito nazionale è uguale al lavoro dell’anno»). Ma quale altra anomalia significativa ci può stare dentro Viaggio di merci se non quella mastodontica, su cui però finora si è poco riflettuto, delle cosiddette “merci non-base” (come Sraffa le ha chiamate) che sono quelle merci che, pur essendo prodotte e scambiate sul mercato sicché hanno un prezzo, «non vengono usate, né come strumenti di produzione né come mezzi di sussistenza, per la produzione delle altre merci»? Sembrerebbe che esse siano una presenza significativa del paesaggio marxziano (si veda la quantità di rinvii nell’indice analitico di Viaggio di merci), eppure c’è stato un recensore, peraltro simpatetico, che nel 1962 le ha considerate «di scarsa rilevanza economica» ed «ingiustificata l’importanza attribuita da Sraffa a tali merci» (a cui Sraffa ha però risposto in una lettera dello stesso anno che «mi dispiace ma su questo punto non posso cedere neanche di un millimetro»). E allora viene da domandarsi se per caso non fossero proprio queste “merci non-base” a collegarsi in qualche modo con la “legge di caduta” di Saggio Massimo.
Prima però c’è da fare chiarezza sulla loro tipologia merceologica. Il concetto sraffiano di “merce non-base” traduce in forma rigorosa il precedente di quei “beni di lusso”, come «le sete e i velluti», che David Ricardo, il “principe degli astronomi classici”, aveva opposto, in quanto acquistati dai capitalisti con il profitto e per il loro piacere, alla produzione del grano che è invece la “merce base” per eccellenza perché comperata, per la propria sopravvivenza, dai lavoratori salariati impegnati in tutte le produzioni, compresa quella dei beni di lusso. E’ per questo, come osservato da Pasinetti, che «il sistema ricardiano più semplice che si possa immaginare» non è tanto quello della produzione di una merce sola (“grano a mezzo di grano”), bensì quello “a due merci” che Pasinetti ha ricondotto al grano quale merce-base e all’oro, «misura invariabile del valore… (in cui) tutti i prezzi sono espressi», come “merce non-base”.
Ma Sraffa quali esempi merceologici di merci non-base poteva avere in mente? Innanzi tutto i beni di lusso straordinario come, un appunto personale, gli «elefanti bianchi», animali di tale prestigio nel Siam che per loro si era fatta perfino una guerra, mentre nella relazione di viaggio pubblicata ha fatto l’esempio dei «cavalli da corsa» e delle «uova di struzzo» mentre, in una appendice apposita, ha indicato anche i «fagioli di speciale qualità». Naturalmente tutte queste sono merci non-base “da signori”, ma pure i lavoratori potrebbero trovarsi a consumarne quando, per una remunerazione salariale oltre lo stretto necessario, vengano a partecipare alla ripartizione del prodotto netto perché allora quei maggiori beni-salario (per quantità e qualità) da loro acquistabili sarebbero «relegati nel limbo dei prodotti non-base». Interpellato poi nel 1968, avrebbe confermato la natura “non-base” dei beni-salario che consentano ai lavoratori di «comprarsi da bere, mangiare, vestirsi, abitare meglio, viaggiare e in genere avere godimenti non compresi nel minimo necessario» (ma senza possibilità di parlare di “spreco”, come invece indulgeva il suo corrispondente, perché «queste merci non-base sono tutt’altro che uno spreco: l’essere prodotti non base non implica in nessun senso un giudizio sfavorevole»). Consentiva invece che vi si aggiungessero anche «gli armamenti e (per il momento) i missili» per i voli spaziali, così da ricondurre simultaneamente dentro la produzione non-base i due fenomeni più caratteristici della modernità del pianeta, ossia il consumismo per “salario di sovrappiù” (il c.d. Welfare State) e la spesa pubblica militare (il c.d. Warfare State).
5. Questo è tutto quello che sono riuscito a spremere sulla “tipologia” delle merci non-base dalle carte sraffiane, ma volendo generalizzare senza fare torto a nessuna di esse ho pensato alla produzione dei tulipani che sono merci di lusso ad uso esclusivamente ornamentale (almeno io non ne conosco altri utilizzi), ma che soprattutto sono state oggetto della prima speculazione finanziaria “di massa” che sia accaduta sul pianeta. I fatti sono stati questi: nella Olanda del XVII secolo (che allora si chiamava Repubblica delle Province Unite e l’aggettivo ha avuto così tanta fortuna che poi sono seguiti il Regno Unito inglese e gli Stati Uniti d’America), il guadagno tratto dal fiorente commercio estero delle aringhe, dei tessuti e del gin, aveva preso ad indirizzarsi ianche verso l’acquisto dei tulipani che allora erano diventati una moda simbolica della ricchezza conseguita. Sui tulipani la speculazione operava così: s’investiva in autunno sui bulbi piantati in terra sperando che alla fioritura a primavera ne uscissero tulipani di così particolari coloriture da potersi vendere a prezzi esorbitanti (il Semper Augustus si vendette a 6000 fiorini quando il salario di un anno arrivava a soli 150 fiorini). Dal 1634 fu un impazzimento generale: come ha ricordato uno storico «molti divennero improvvisamente ricchi,… ciascuno essendo convinto che la passione per i tulipani sarebbe durata per sempre e che i ricchi di ogni parte del mondo avrebbero pagato qualsiasi prezzo fosse stato loro chiesto». Pur di investire sui bulbi, ci fu chi vendette il patrimonio, chi s’indebitò con le banche oppure acquistò “allo scoperto”, dato che tutti pensavano di guadagnare sui prezzi futuri a crescere dei tulipani (vedi l’andamento dei prezzi nella tabella d’epoca posta ad immagine di questa Cronaca). Però tutto doveva precipitare nel 1637 quando, ai primi cedimenti del prezzo e di fronte al rischio generalizzato di un mancato realizzo sulle fioriture a venire, la Gilda dei fioristi decise di attribuire ai contratti stipulati dopo il dicembre 1636 l’opzione di recesso pagando una penale del 3,5% sul valore del contratto stipulato. I più timorosi subito ne approfittarono per uscire da una speculazione che si temeva non più conveniente, poi seguirono anche gli altri trascinando i prezzi in un calo vertiginoso così che «se prima tutti guadagnavano, improvvisamente tutti perdettero» e la “bolla dei tulipani” si sgonfiò (vedi da ultimo E. A. Thompson, The tulipmania: fact or artifact?, in “Public Choice”, 2007, nn. 1-2, pp. 99-114), sebbene l’Olanda sia rimasta, da allora in poi, il “paese dei tulipani”.
Però ora non sarebbe il caso di considerare le conseguenze astronomiche per il pianeta di una produzione simultanea di grano e tulipani? E’ ciò che faremo nella prossima Cronaca marXZiana.
Luglio 2022