Os Bolsonaros o del Brasile ridotto a questione familiare*
di Francesco Guerra
Nelle ultime settimane la bufera che ha avvolto i Bolsonaros, in particolare il primogenito del presidente, Flávio, è di particolare interesse non tanto e non solo per le accuse tirate in ballo, ma per la fonte da cui quelle accuse provengono e per le possibili conseguenze, che, da tal tormenta, potranno prodursi. Allo stato attuale dei fatti non risulta nessuna indagine di carattere penale a carico di Flávio Bolsonaro, ma soltanto una di carattere civile, che lo coinvolge assieme ad altri deputati facenti parte della Assemblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro a partire dalle segnalazioni del COAF (Consiglio di Controllo delle Attività Finanziarie) con riferimento a movimentazioni sospette sui conti conti bancari dei suddetti deputati. Diciamo anche, a onor del vero, che tale indagine civile investe, grosso modo, tutti i partiti che compongono l’Assemblea Legislativa carioca.
Fatta tale doverosa premessa, occorre parimenti risaltare come il quadro di responsabilità che il gruppo editoriale Globo e altre testate giornalistiche, storicamente di destra o centrodestra, dipingono a carico di Flávio Bolsonaro sia, a dir poco preoccupante, qualora da un tale quadro si giungesse ad una indagine penale aperta a carico del primogenito di Jair. Quadro di responsabilità preoccupante, anche solo restando a questa indagine, ma che si è andato arricchendo di gravità a causa di recenti rivelazioni giornalistiche che legano parenti stretti (nella fattispecie la moglie e la madre) di un elemento di spicco, il capitano Adriano Magalhães da Nóbrega, di una delle milizie paramilitari, sempre difese da Bolsonaro padre peraltro, che controllano intere zone di Rio de Janeiro alla figura di Flávio Bolsonaro. Le due signore in questione, Raimunda Veras Magalhães e Danielle Mendonça da Costa da Nóbrega, lavorarono come assistenti di Bolsonaro figlio, il quale, da parte sua, addossa ogni colpa al proprio autista, Queiroz, ciò che ci porta al secondo corno della questione, che, cronologicamente, era il primo: i soldi sul conto di Flávio Bolsonaro. Prima, però, di riprendere questo filo del discorso, va detto che l’elemento di spicco della milizia ‘Escritório do Crime’ di Rio de Janeiro risulta essere ancora latitante e con una accusa a suo carico pesantissima: quella di avere ammazzato, il 14 marzo del 2018, la deputata statale di Rio de Janeiro, Marielle Franco, e il suo autista Anderson Gomes.
Un delitto odioso, sul quale, ormai da tempo, gli inquirenti stanno indagando e indugiando, come assai spesso fatto notare dal deputato federale, nonché compagno di partito di Marielle Franco, Marcelo Freixo, i cui dubbi gettano pesanti ombre sulla volontà degli inquirenti di arrivare ad una effettiva soluzione del caso. Ma torniamo a Queiroz. Questi, nel mese di dicembre, viene messo sotto osservazione dal COAF, perché sul suo conto corrente risultavano movimentazioni in contrasto con i redditi dichiarati. Si trattava di un milione e duecentomila reais, che, non si sa bene come, il “parsimonioso” Queiroz aveva magicamente fatto apparire sul proprio conto corrente. Oltre a questo, tuttavia, vi era anche un bonifico di ventiquattromila reais partito dal conto del solerte Queiroz all’indirizzo del conto corrente della primeira-dama Michelle Bolsonaro. Ne seguirono articoli e sospetti, non proprio infondati, dopo di che Bolsonaro disse che erano soldi di un prestito da lui elargito all’autista del figlio e che, tale debito, in realtà ammontava a quarantamila reais. Nella stessa intervista, parimenti, disse di non ricordare il valore originale del debito che Queiroz aveva con lui e che non menzionò tale transazione nella sua dichiarazione dei redditi. Dice quello: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Del tutto inevasa, infatti, restava la questione, di ordine logico, non proprio il campo di azione migliore per l’elettore medio bolsonarista, legata al fatto che il signor Queiroz, pur avendo in banca un milione e duecentomila reais chiedeva un prestito di quarantamila reais al padre del suo datore di lavoro. Il mistero, diciamo così, si infittiva a seguito di un reportage della Globo, la quale, citando fonti del COAF, dichiarava che tra il 2014 e il 2017 transitarono sul conto del ricco autista Queiroz un totale di sette milioni di reais.
Pur allungandosi le ombre, la situazione, se non proprio tornata alla normalità, ciononostante sembrava reggere e il clan Bolsonaro, forte della (non) spiegazione data dal capofamiglia, resistere sul loro campo di battaglia politica preferito: le reti sociali. Tuttavia, come ben sa chi frequenta la tormentata politica brasiliana, mettersi contro il gruppo Globo, come hanno fatto i Bolsonaros fin da prima delle elezioni è sempre un pessimo affare. Per conferme chiedere a Lula e al Partido dos Trabalhadores. I Marinho, la famiglia proprietaria del gruppo Globo, sebbene non più forti come un tempo, ciononostante svolgono un ruolo centrale nell’indirizzare l’opinione pubblica brasiliana e di qui la politica brasiliana. Pertanto, minacciare di distruggerli, come ha più volte fatto Bolsonaro prima, durante e dopo la campagna elettorale, equivale a mettersi su una pericolosa graticola con esiti del tutto imprevedibili ai fini del mantenimento del potere. Uno stato di cose peggiorato dal fatto che la grande stampa non di sinistra, quali la Folha di San Paolo, la Veja, o lo Estadão, come pure blogger di una certa influenza come Ricardo Noblat o Reinaldo Azevedo non hanno mai visto di buon occhio l’elezione di Bolsonaro alla presidenza, preferendogli, come è il caso di Reinaldo, addirittura il candidato del tanto odiato Partido dos Trabalhadores: Fernando Haddad. Non a caso, in queste stesse ore, tanto sul fronte del più che presunto lavaggio di denaro, che coinvolgerebbe il primogenito del presidente, come pure su quello, ben più grave e preoccupante, dei rapporti, accertati con dovizia di particolari, tra la famiglia Bolsonaro e le milizie paramilitari che insanguinano Rio de Janeiro, ognuno dei soggetti dell’informazione sopracitati, in particolare il gruppo Globo, stanno usando l’artiglieria pesante e niente lascia immaginare che cesseranno. La battaglia, da ultimo, si gioca tutta qui: scendere a patti con la Globo, rischiando di perdere l’appoggio di Edir Macedo e della sua Record, con conseguenti contraccolpi negativi anche al Congresso – dove l’appoggio dei gruppi evangelico-neopentecostali è decisivo per l’attuazione delle politiche che Bolsonaro vuole varare – oppure continuare a stare in trincea contro la Globo col rischio, di giorno in giorno sempre più concreto, di dover arrivare ad una rinuncia del mandato presidenziale. Opzione, questa, che aprirebbe la porta ad un governo guidato dal vice di Bolsonaro, il Generale Hamilton Mourão, in tal modo sanzionando, di fatto, il definitivo fallimento del processo democratico brasiliano: dalla dittatura militare ad un militare come Presidente.
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