Onore alla Strage di Stato (intesa come libro)
di Aldo Giannuli
premessa di Giorgio Gattei
Pubblichiamo, per gentile cortesia dell’autore, due estratti della meticolosa ricostruzione condotta da Aldo Giannuli in Storia della “Strage di Stato”. Piazza Fontana: la strana vicenda di un libro e di un attentato (Ponte alle Grazie, Milano, 2019) che, in occasione del cinquantesimo dalla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) ha rifatto la storia di quella controinchiesta giornalistica pubblicata nel 1970 che, bollandola come una “strage di Stato”, smontava tempestivamente l’interpretazione poliziesca dell’attentato come “di matrice anarchica”. Invece la strage era stata, come si saprà poi dagli svolgimenti processuali successivi, opera di estremisti di destra coperti da alcuni apparati (naturalmente “deviati”) dello Stato.
In premessa valgano tre osservazioni:
1) la natura specifica di quella controinchiesta che mescolava abilmente, nonostante l’urgenza di pubblicare, l’investigazione giornalistica con la tecnica della controinformazione;
2) la micidiale decisione dell’autorità giudiziaria di allora di dare continuità alla strage di Milano con i contemporanei, ma inoffensivi, attentati a Roma di matrice anarchica, non tanto per confermare l’identità di segno politico, quanto per trasferire l’inchiesta da Milano a Roma, dove la magistratura era più “ragionevole”;
3) il limite della controinchiesta che attribuiva la responsabilità della bomba di Milano al gruppo d’estrema destra Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie, trascurando il gruppo fascista di Ordine Nuovo di Pino Rauti, con l’effetto di confondere i mandanti istituzionali, giusta l’equivalenza, che poi risulterà evidente dalle indagini processuali che:
Avanguardia Nazionale —-> Ufficio Affari Riservati (Ministero dell’Interno)
Ordine Nuovo —-> SID (Ministero della Difesa).
Così che vale il sospetto (le c.d. “notizie del diavolo”) che alcune informazioni raccolte dalla controinchiesta fossero di provenienza SID per stornare i sospetti da sé. Nel libro si dà poi anche conto dell’incredibile iter processuale durato fino al 3 maggio 2005 quando «una sentenza impeccabile ha messo il sigillo definitivo sulla incapacità della magistratura di trovare i responsabili dell’eccidio»!
G.G.
NOTA BENE
La Strage di Stato, il libro di cui si parla qui, è stato ripubblicato nel 2006 dall’editore Odradek e risulta regolarmente in commercio. L’autore non è più anonimo: esso è attribuito a Eduardo M. Di Giovanni, Marco Ligini e Edgardo Pellegrini.
1. DALL’INTRODUZIONE (pp. 7-12)
Non capita di frequente di scrivere un libro su un altro libro (in genere lo si fa per i classici, non certo per un’inchiesta giornalistica), ma non capita neppure che un libro abbia la forza di deviare il corso della politica di un paese. E questo è esattamente quello che è accaduto.
Siamo al cinquantenario della strage di Piazza Fontana, e con esso siamo quasi al cinquantenario di un libro che, per primo, tentò di contrastare la versione ufficiale e proporre una versione alternativa di quel che era accaduto. Successivamente, come vedremo, il libro avrà notevole peso anche nella vicenda giudiziaria contribuendo in modo non marginale nella formazione della «pista nera».
Questo è stato uno dei libri di saggistica più venduti nella storia dell’Italia repubblicana: la somma totale non è stata mai calcolata, sia perché una parte non piccola venne diffusa tramite la vendita militante, sia perché alcune librerie chiusero nel frattempo e spesso senza fornire dati sul venduto (è il caso della catena di librerie «Punto Rosso» nel 1979), sia perché se ne sono fatte diverse edizioni nei quarant’anni successivi (e alcune pirata negli anni Settanta) e non è semplice avere i dati di ciascuna. La Samonà e Savelli, che editò il volume, accertò una vendita in libreria ed edicola di più di 300.000 copie entro il 1979; considerando la vendita militante e le edizioni successive non è irrealistica una stima complessiva intorno alle 500.000 copie.
Ma non fu solo un caso editoriale, fu qualcosa di più. In primo luogo fu il cult book di una generazione (almeno a sinistra), quello che radicò una lettura del più importante attentato della storia repubblicana (insieme al rapimento di Moro) che tuttora resiste fra quanti appartengono a quella generazione. Fu anche l’atto di nascita della controinformazione del nostro paese, cui avrebbe fatto seguito una nutritissima serie di titoli nei decenni successivi. Una scuola di giornalismo investigativo alla quale si sono formati molti operatori dell’informazione poi finiti nelle redazioni dei maggiori quotidiani, settimanali, radio e televisioni.
Ma, soprattutto, fu un libro che, nonostante le non poche pecche di cui diremo, è riuscito a condizionare il corso della storia d’Italia. Come al solito, la storia con i se è solo un’ipotesi di cui non v’è certezza, ma non possiamo fare a meno di chiederci come sarebbe andata se, nel giugno 1970, non fosse comparso quel libro. Certamente ve ne sarebbero stati altri – e altri effettivamente ne comparvero, e molti – e forse qualcuno avrebbe avuto la forza di condizionare la vicenda processuale che ebbe La strage di Stato, ma non è detto che ciò sarebbe accaduto e, tutto sommato, non è neppure probabile. Quel libro non fu vissuto dall’estrema sinistra come una qualsiasi inchiesta più o meno brillante. Le migliaia di giovani che lo sostennero lo sentivano come una cosa propria, l’espressione dell’intero movimento. Quell’inchiesta non era separabile dalle centinaia di assemblee e di manifestazioni per la libertà di Valpreda e degli anarchici arrestati con lui. C’era una simbiosi profonda fra le due cose: il libro sosteneva il movimento nell’opinione pubblica, metteva in difficoltà le versioni ufficiali, forniva elementi di propaganda, mentre l’iniziativa del movimento, con i suoi cortei, le sue occupazioni eccetera, contribuiva alla fortuna del libro ed entrambe le cose realizzavano un costante pressing sull’autorità giudiziaria, sulle forze politiche, sulla polizia sempre più costretta sulla difensiva.
Come vedremo, non poche svolte processuali furono prodotte proprio dal libro e dal suo seguito con il foglio Processo Valpreda che ne fu una sorta di prosecuzione. Altrettanto si può dire sul piano politico: la sinistra istituzionale (e il PCI più del PSI) preferì inizialmente concentrarsi sui fascisti, osservando una linea assai cauta nei confronti della polizia e dei servizi segreti sino al 1971; in seguito, sia per il fallito golpe Borghese che per l’incalzante concorrenza dell’estrema sinistra su quel terreno, fu costretta a radicalizzare sempre più la sua posizione.
Dunque un pezzo di storia dell’Italia repubblicana e un pezzo non fra quelli di minore importanza.
Questo mio lavoro ripercorre la storia del libro, come si è formato e come si è intrecciato con la storia processuale e politica seguita alla strage.
Dicevo poco sopra che non si è trattato solo di un fortunato caso editoriale e mi spiego meglio: negli anni Settanta ci fu una valanga di libri sulla strage di Milano e sul connesso caso Pinelli, fra gli altri ricordo quelli di Marco Sassano, di Camilla Cederna, di Daniele Barbieri, della Crocenera anarchica, di Achille Lega e Giorgio Santerini, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, ma nessuno sfiorò lontanamente il successo della Strage di Stato, nonostante qualcuno avesse l’appoggio di un apparato come quello del PCI o avesse alle spalle una casa editrice ben più solida della piccola Samonà e Savelli. Il più fortunato fra questi fu quello di Camilla Cederna sul caso Pinelli che, però, si fermò molto al di sotto: circa 60.000 copie (nonostante il nome dell’autrice e l’appoggio dell’Espresso), mentre gli altri si fermarono fra le 5.000 e le 10.000 copie nei casi migliori. La strage di Stato vendette più di tutti gli atri titoli messi insieme.
Come spiegare questo straordinario successo editoriale? Il libro ebbe il vantaggio del «primo arrivato»: nel giugno 1970 non era ancora uscito alcun testo riguardante la strage e c’era molta attesa di qualcosa che contestasse le versioni ufficiali, i titoli successivi, inevitabilmente, impallidirono al confronto, sembrando meri doppioni, nonostante alcuni fossero contributi di qualità. Il libro vendette 20.000 copie appena uscito e altrettante nei sei mesi successivi, ma il vero boom venne con il golpe Borghese a dicembre 1970, poi venne il formarsi della pista nera (1971) e l’incriminazione di Pino Rauti (marzo 1972) e anche questo fu motivo di rilancio e via di questo passo, sino al processo di Catanzaro. Poi la pioggia delle assoluzioni, negli anni Ottanta, raffreddò il tema facendo cadere l’attenzione: anche per effetto del terrorismo di sinistra, i mass media dedicarono assai meno attenzione al tema delle stragi, quasi che questo potesse alimentare e giustificare la sconsiderata scelta della lotta armata.
Diremo della grande fretta con cui gli autori avevano lavorato alla «controinchiesta» e dei non pochi errori e omissioni che caratterizzarono il lavoro, ma quella fretta aveva pagato: il libro era giunto nei tempi imposti dallo scontro politico.
Ma la ragione principale, da cui discesero le altre, fu l’indovinatissimo taglio politico definito già dal titolo. Altri avevano parlato di «bombe fasciste» o «dei padroni», mentre il testo del Collettivo di controinformazione andava dritto al cuore della questione: il ruolo dello Stato e dei suoi apparati. Per cui «strage di Stato» e «strategia della tensione» racchiudevano una chiave di lettura insostituibile: un fascio di luce che illuminava il senso degli avvenimenti. La teoria delle «sacche di resistenza fascista» annidate negli apparati, cara al PCI, era troppo debole e poco persuasiva: una trama politica così complessa, con protezioni così persistenti e ramificate, con una così evidente paralisi della classe politica non poteva spiegarsi con l’opera di pochi funzionari nostalgici, corrotti o sleali. D’altro canto, anche la motivazione dello scontro sui contratti dei lavoratori dell’industria era in sé insufficiente e anche il generico richiamo a una vocazione antidemocratica delle classi imprenditoriali non risolveva il problema: perché in quel momento e non prima, durante le lotte del Sessantotto? Occorreva un’analisi di fase che spiegasse la strategia degli attori e la «strategia della tensione» fu la risposta, per quanto approssimativa: la strage era avvenuta sotto l’ombrello degli apparati statali e nel quadro di una strategia della tensione che mirava a un’involuzione autoritaria delle istituzioni. Una lettura per certi versi semplicistica e priva di eccessi ideologici, forzature e schematismi (in particolare quello della «regia unica» come vedremo) ma che, nel momento storico dato, era l’arma che molti cercavano per affrontare la battaglia.
Di questo renderemo conto nelle pagine che seguono.
Personalmente ho un rapporto particolare con questo libro con cui mi sono incrociato più volte nel corso degli anni. In primo luogo perché lo lessi immediatamente all’uscita (proprio in quei giorni compivo diciott’anni) e poi, come militante della IV Internazionale–GCR, partecipai alla vendita militante: ricordo di averne vendute oltre 100 copie fra i professori e gli studenti del mio liceo e nelle sezioni comuniste e socialiste in cui conoscevo qualche iscritto che mi presentava agli altri.
Tornai a sfogliarlo man mano che gli eventi di quella stagione si susseguirono «dando ragione» al libro.
Nel 1988, in vista del ventennale di Piazza Fontana, il mio amico Giancarlo De Palo e io pensammo di ripubblicare il libro, ma facendone una edizione critica, con note e capitoletti introduttivi, confrontando i suoi contenuti con quanto era man mano emerso nelle diverse istruttorie e inchieste giornalistiche.
La nuova edizione uscì nel 1989 per i tipi delle Edizioni Associate. Nel corso del lavoro intervistai diversi fra gli autori del libro o alcuni loro collaboratori (fra gli altri ricordo Edgardo Pellegrini, mio amico da tempo prima, poi Peppe Mattina, Itala Mannias e altri, ma soprattutto Edoardo di Giovanni).
Pochi anni dopo vennero gli incarichi peritali prima del dottor Guido Salvini (quinta istruttoria per Piazza Fontana) e dopo dei dott. Francesco Piantoni e Roberto De Martino (strage di Brescia terza istruttoria) e la consulenza per la Commissione parlamentare di indagine sulle Stragi: occasioni preziose che mi hanno permesso di scavare negli archivi delle forze di polizia e dei servizi segreti e di meditare su tutta la vicenda correggendo molte convinzioni iniziali, scoprendo nuovi spunti di ricerca, maturando una visione molto più ampia di tutta la complessa vicenda di quegli anni. E al suo interno c’è anche la vicenda di questo libro che riprendevo in mano dopo circa trent’anni. Mi piacerebbe discutere i risultati di quanto è venuto fuori dagli archivi con quanti avevo intervistato nel 1988, purtroppo oggi non c’è quasi più nessuno di loro e posso solo riprendere gli appunti di quelle conversazioni (che avevo largamente, ma non totalmente, utilizzato nell’edizione del 1989) e confrontarli con i documenti poi acquisiti. Ovviamente il testo mi fu utile nella scrittura di alcuni miei libri come Bombe ad inchiostro (BUR, Milano 2008), Le spie di Giulio Andreotti (Castelvecchi, Roma 2013), infine La strategia della tensione (Ponte alle Grazie, Milano 2018). Inevitabilmente, ho dovuto riprendere parti di quanto avevo esposto in quei libri, ma ho cercato di farlo solo quando era strettamente necessario e riassumendo nel modo più stringato i passaggi. Ne chiedo scusa ai lettori, ma era appunto inevitabile. Come si vede un rapporto stretto e continuato che, necessariamente mi condiziona, pur inconsapevolmente, rendendomi di parte: spero di esserlo stato il meno possibile.
2. DALLA CONCLUSIONE (pp. 142-144)
Sul piano storico, quel che conta è l’effetto che l’inchiesta ha avuto.
Il suo valore sta nella sua capacità di costruire un quadro esplicativo che, per quanto impreciso, schematico, forzato, fornì una chiave di lettura di quel che stava accadendo e pose le premesse della risposta di massa delle sinistre: la formula «strategia delle tensione + strage di Stato» con il tempo si è confermata sostanzialmente esatta, al di là dell’insuccesso della «pista Delle Chiaie». Ovvero, come fare centro sbagliando la mira, magari grazie a qualche rimbalzo.
E fu questo a decretare l’enorme successo del libro: tre ristampe in due mesi, 100.000 copie vendute in due anni, poi continue ristampe sino al 1978 per un totale di 300.000 copie vendute in libreria. Il libro venne anche tradotto integralmente in francese e svedese, mentre in inglese comparve una sua sintesi. Brani comparvero su riviste olandesi, tedesche, giapponesi e della resistenza greca.
Tutta l’estrema sinistra sentì la pubblicazione come propria (appunto: la prefazione era firmata «Un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare») e la promosse organizzando assemblee con Ligini e Di Giovanni e facendone diffusione militante. Poi, a ogni tappa delle inchieste sulla pista nera, un nuovo salto e questo nonostante errori, imprecisioni, persino nonostante il depistaggio del SID. A volte la fortuna di un libro, come di una canzone o di una idea, si deve a un piccolo particolare che trasforma quello che forse sarebbe stato condannato al rapido oblio in qualcosa che ha un successo travolgente.
C’è un esempio che rende l’idea. Quello della Marsigliese.
C’è chi afferma che l’inno sarebbe stato composto nel 1781 (dunque 11 anni prima della sua data di nascita sin qui accreditata) dal musicista italiano Giovanni Battista Viotti. A sostenerlo è il musicologo Guido Rimonda, sulla base di alcuni spartiti recentemente ritrovati nel Tema e variazioni in do maggiore per violino e orchestra. La sinfonia – basta ascoltarla – è la stessa, ciò non di meno si tratta di due cose diverse. Viotti ha composto un pezzo di musica da camera con proprie caratteristiche ritmiche e di timbro, Rouget De Lisle una marcia militare con ben altre caratteristiche timbriche e ritmiche. Anche strumentalmente il pezzo di Viotti è diverso perché non sembra avere ottoni e in particolare trombe, essenziali nella Marsigliese.
Se la melodia è la stessa, tuttavia Rouget De Lisle l’ha reinventata facendone una marcia militare e un canto rivoluzionario.
Senza questo intervento il Tema e variazioni in do maggiore sarebbe rimasto un’opera minore di un musicista italiano, per troppo tempo dimenticato, e non avrebbe mai avuto la popolarità che ha avuto la Marsigliese. Nel 1792 serviva un pezzo da cantare a voce spiegata, come «canzone del mercato» e veloce, rabbioso, epico, tutte cose che il pezzo da camera di Viotti non aveva. Rouget era arrivato al momento giusto. E anche La strage di Stato comparve in un momento in cui c’era domanda di qualcosa di quel tipo: i militanti di sinistra volevano rispondere all’offensiva avversaria, ma non avevano strumenti adeguati e il frammentario flusso di notizie dei quotidiani di sinistra non risolveva il problema.
La strage di Stato, in 150 pagine, dava un riassunto di quel che già si sapeva, lo integrava con altri elementi e dava una lettura politica di insieme: il testo di agitazione che i militanti cercavano. Paradossalmente, a decretare il successo fu proprio quella fretta che produsse la quantità di errori e imprecisioni che abbiamo segnalato, ma che permetteva di arrivare primi sulla scena.
E, infatti, quel che resta del libro non sono i suoi pasticci e sbagli, ma l’apertura del clima politico che vedrà nascere le inchieste sulla pista nera, rovesciando il tavolo che voleva colpevoli gli anarchici e sconfitte le sinistre. Il depistaggio del SID, comunque siano andate la cose, non raggiunse il suo scopo ma, anzi, paradossalmente, si convertì in un boomerang che finì per colpire proprio Ordine Nuovo e lo stesso SID: Clio è una musa che ama l’ironia.