Onore al Bordiga, verace fondatore del Partito Comunista d’Italia
di Cristina Corradi
Un ingegnere agrario
che scriveva letterario
senza firmare i testi,
primo segretario del Partito
Comunista d’Italia,
conosceva il capitale:
anarchia mercantile,
dispotismo aziendale,
tecnoburocrazia al potere
su prodotti del lavoro,
sperpero di ricchezza sociale.
Non stupisce che nelle svogliate commemorazioni per il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, il ruolo e il contributo del suo reale fondatore siano stati per lo più ignorati. Se il marxismo italiano, come sostiene Roberto Finelli, è stato nel complesso un marxismo senza il Capitale, la figura di Amadeo Bordiga (1889-1970) non poteva che risultare eccentrica, vetusta, priva di eredi. Eppure Bordiga, conoscitore profondo dei testi economici di Marx, anticipò tutti i nodi della questione ambientale, sviluppando la teoria della rendita capitalistica quale frazione del plusvalore connessa agli extraprofitti e al monopolio delle risorse naturali (si vedano i saggi raccolti in Mai la merce sfamerà l’uomo, Odradek 2009).
Fu sostituito nel 1923 da Gramsci alla guida del neonato Partito Comunista d’Italia, poi diventato Italiano per divergenze sorte con la Terza Internazionale sulla politica del “fronte unico”. Diversamente da Lenin, Bordiga riteneva che la situazione in occidente non fosse più propizia a una rivoluzione sovietica, ma si definì sempre un leninista. Molto amato dal proletariato (si legga Mistero napoletano di Ermanno Rea), Bordiga restò comunque un comunista rispettato e temuto anche dai suoi nemici: nel 1926, partecipando al VI Esecutivo allargato del Comintern, ebbe il coraggio di contraddire la tesi della bolscevizzazione dei partiti comunisti nazionali. “Mai avrei creduto di che un comunista potesse parlarmi così. Dio vi perdoni di averlo fatto”, fu la replica di Stalin. Rientrato a Napoli, fece un po’ di confino con Gramsci (con cui ebbe sempre buoni rapporti), finché nel 1930 venne espulso anche dal partito che aveva contribuito a fondare. Ritiratosi a vita privata, continuò a essere spiato dalla polizia fascista in quanto “soggetto pericoloso”.
Denigrato, diffamato, ostracizzato dal partito nuovo togliattiano, nel dopoguerra si dedicò esclusivamente al lavoro teorico, convinto che in epoca di riflusso rivoluzionario la principale “guerra di posizione” da combattere fosse la lotta teorica tra l’economia marxista e l’economia di mercato e che l’unica politica culturale sensata fosse la trasmissione della scienza marxiana del Capitale. Contestò in modo intransigente la tendenza a confondere il socialismo con l’antifascismo, ovvero con la competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non aderì alla lettura stagnazionista del capitalismo che era portata avanti dalla Terza Internazionale, prevedendo invece un nuovo ciclo di espansione capitalistica che avrebbe favorito compromessi socialdemocratici provvisori, ma che sarebbe entrato in crisi negli anni ’70. A Stalin non rimproverò la mancata trasformazione socialista della Russia, che dipendeva da cause strutturali, bensì la falsificazione della teoria marxista. Nell’analisi del fordismo e della struttura dell’URSS, Bordiga mise in luce come il capitale fosse anzitutto potere sul lavoro altrui, comando sul lavoro e sui prodotti sociali, e che il potere economico si esprimesse nella potenza impersonale del capitale fisso (le macchine) e del denaro (si veda Proprietà e capitale). Gli articoli scritti tra il ’45 al ’70 (leggibili in www.sinistra.net) furono pubblicati, prevalentemente in forma anonima (Bordiga non riconosceva la proprietà privata intellettuale) sulle riviste “Prometeo”, “battaglia comunista”, “il programma comunista”.
Fu accusato di astrattismo, dottrinarismo e settarismo, ma a sfatare molti pregiudizi basterebbe la sua prosa incandescente e visionaria, paragonabile, secondo Diego Gabutti, a quello di Carlo Emilio Gadda. Al di là del valore letterario dei suoi saggi, qui preme richiamare alcuni punti fraintesi o deformati della sua “famigerata” dottrina.
Bordiga fu il critico più rigoroso della politica dell’unità antifascista e della democrazia progressiva; avversò la riduzione del marxismo a una forma di illuminismo progressista, contestò la lettura della storia d’Italia e della questione meridionale (tuttora egemone) in chiave di ritardo sui processi di modernizzazione (una lettura che pone l’accento sull’arretratezza piuttosto che sull’integrazione capitalistica dell’economia nazionale) ed evidenziò come la rendita fondiaria non fosse un residuo feudale bensì un elemento costitutivo della riproduzione dei rapporti capitalistici.
Bordiga non era antidialettico, ma rifiutava, con molte ragioni, una dialettica che celebrava il primato della politica sull’economia, attribuiva il movimento storico alla cultura, annegava il pensiero di Marx nella filosofia dell’immanenza, supportava una concezione della storia come evoluzione graduale in cui andavano perduti sia il senso dell’opposizione e della frattura che la possibilità dell’arretramento e della catastrofe. Rivendicava invece una dialettica scientifica che non contrapponeva il mondo storico al mondo naturale, non offuscava il rapporto gerarchico tra economia e politica e concepiva la storia come un movimento di forze collettive inconsce in cui si alternavano ondate rivoluzionarie e periodi di riflusso, accelerazioni improvvise e lunghi periodi di stagnazione. Arma teorica contro l’individualismo, la dialettica era essenzialmente il fondamento di una macroeconomia su scala sociale.
Bordiga non fu uno sterile ripetitore di Marx, bensì un critico dei miti dell’originalità, dell’autorialità, della pretesa individuale di correggere, in epoche di riflusso e decadenza, una teoria nata su una trama storica incandescente, espressione di potenti conflitti di classe. E riteneva che nei periodi controrivoluzionari o stagnanti, il compito principale del Partito comunista, che era un “partito storico” e non un “partito elettorale”, fosse quello di conservare la teoria e il programma rivoluzionario.
La teoria di Marx è una invarianza perché non descrive il capitalismo ottocentesco, bensì identifica il modello astratto del modo di produzione capitalistico fondato sulle classi dei capitalisti (industriali, commerciali e monetari), dei salariati e dei proprietari fondiari, e ne accompagna l’intera vicenda storica. Il modello marxiano non è un modello statico e aziendale, ma un modello sociale e dinamico sia di crescita che di tendenza, al cui centro stanno i rapporti di produzione (si veda Economia marxista ed economia controrivoluzionaria). Il suo oggetto non è una teoria dei prezzi, bensì la teoria del valore e della formazione del plusvalore, il valore aggiunto dal lavoro vivo e la sua distribuzione tra le classi sociali. Certamente Marx muoveva dall’ipotesi dello scambio di equivalenti, che è quella più corrispondente alle intenzioni apologetiche del capitalismo, ma per mostrare come il flusso monetario orienti la distribuzione del neovalore prodotto in direzione dei profitti, degli interessi e delle rendite, e che una società senza sovrapprofitti e senza rendite, ideale di ogni economia liberale, è strutturalmente impossibile. Bordiga valorizzò la sezione del III libro del Capitale, dedicata alla rendita assoluta e differenziale, mostrando che in essa è inscritta la teoria dell’imperialismo, dello sfruttamento del suolo, dei consumi di lusso, del depauperamento delle fonti della ricchezza e degli squilibri ambientali.
Alieno da personalismi, nemico dell’empirismo e del politicismo, critico della cultura più radicale della Scuola di Francoforte, Bordiga, che credeva nell’oggettività storica dei processi e nella verità di classe, sembra non avere più nulla da dire ad un’epoca malata di narcisismo, prigioniera di un linguaggio autoreferenziale, stordita dalla chiacchiera culturalista. Forse non gli sarebbe dispiaciuto essere considerato un dinosauro, ma qui lo abbiamo ricordato come possibile custode di una memoria del futuro.