L’Italia che declina si specchia nella Berlinale
di Fabrizio Simoncini
Anche quest’anno la Berlinale non ha deluso. Come accade in ogni edizione le tematiche dei film presentati dalla sapiente regia del Festivaldirektor Dieter Kosslich sanno spaziare in tutte le direzioni. Le molte aree geografiche da cui provengono le opere cinematografiche danno al Festival di Berlino un senso di complessità, e al contempo rimandano la consapevolezza, a chi ne prende parte, di rappresentare un punto focale dove possono specchiarsi le varie anime, i drammi e le aspettative di interi popoli o di ben definite e combattive classi sociali.
Purtroppo anche l’Italia fa mostra di sé, e paradossalmente lo fa essendo sempre meno presente a questo importantissimo Festival. Due soli i film presenti alla kermesse, nessuno in concorso, vale a dire proposti nella sezione Wettbewerb. È la presa d’atto del triste declino di un Paese che, nonostante abbia fatto con registi di valore assoluto e attori invidiati da tutto il mondo la storia del cinema inventando generi e nuovi linguaggi, si ritrova in un abisso da mancanze di idee, di capacità creative e, quel che più spaventa, in una preoccupante assenza di moto, fosse questo speranza o ribellione.
Le cause sono note a tutti gli attenti osservatori esteri, ma pare ben poco a noi italiani. Quando la cultura diventa, come affermato dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, una spesa inutile da tagliare senza riguardo e un intero popolo, il nostro, resta ad ascoltare distrattamente e senza alcuna reazione tranne isolate voci, significa che qualcosa di sostanziale è cambiato nelle carattere della nostra identità.
Anni di qualunquismo alimentato da continue iniezioni di spirito individualista gettato nelle già precarie maglie di una società, quella italiana, dal senso della collettività e dell’identità di per sé già fragile e precario. Decenni di rapina sociale e di spregio per ogni regola hanno fatto breccia nell’etica e nel comportamento, accompagnati, direi ben guidati, da una televisione generalista, diseducativa, orribilmente vuota, somministrata senza sosta e a dosi massicce.
Concorso di elementi, questo, scientificamente voluto, studiato politicamente, che ha alterato inesorabilmente, e quasi impercettibilmente, l’impronta antropologica di quel popolo che ebbe fra i suoi uomini più geniali, personaggi della potenza di Dante, Machiavelli, Michelangelo. Uomini che trassero l’Europa fuori dalle secche di un’arida cultura orfana dei fasti della Grecia e di Roma, dalle oscurità di un pensiero medievale incentrato solo su questioni teologiche. Terra di fantasia e d’ingegno, quella italiana, che divenne culla di quel periodo irripetibile del creare arte, e che all’arte ha dato il suo proprio significato, che va sotto il nome di Rinascimento.
Così distrutti, annichiliti da un fascismo strisciante, soffriamo quotidianamente la violenza di una barbarie che si mostra, e ne trova l’apice, attraverso la grottesca figura di un Presidente del Consiglio ridicolizzato e additato da tutto il mondo come il male da evitare, come il simbolo della deriva che una nazione non dovrebbe mai augurarsi. E allora, dopo anni di immobilismo e inesorabile declino, la drammatica condizione politica in cui versa il nostro Paese non risulta più additabile a un solo uomo, quel manichino incipriato e tragicomico che ci governa, ma a noi stessi, a quel popolo italiano che evidentemente altro non sa che rappresentarsi nelle forme, e nei tratti, che sono ormai caratteristici di un modo di essere cinico, approfittatore, costantemente fuori da ogni regola che non sia da ascrivere alla propria utilità.
Qualunquemente è il racconto cinematografico che più ci rappresenta. È un film paradossalmente comico, ma che rende in trasparenza il disastro sociale e ideale in cui ampie aree geografiche dell’Italia e strati sociali trasversali a tutta la sua popolazione sono precipitati.
Essere a Berlino nella capitale d’Europa, in uno dei Festival più importanti e seguiti al mondo, e prendere coscienza della situazione in cui siamo stati gettati ci fa sentire male. La sofferenza di tutti i giornalisti al seguito è palpabile, sottile ma ben incuneata nelle pieghe di una rappresentazione di noi stessi ormai così parossistica da tracimare nella farsa. Appunto, la parodia di essere rappresentati da un film che non solo mette a nudo il lato peggiore di un’Italia irriconoscibile, ma che addirittura ne certifica la palese impotenza.
Presentato nella sezione Panorama, per la regia di Giulio Manfredonia, il film è interpretato e sceneggiato da Antonio Albanese, il quale porta sul set cinematografico il personaggio da lui creato, dal nome evocativo Cetto La Qualunque, già sperimentato con successo sui canali televisivi italiani. Cetto è un uomo di saldi valori, nel senso che ha l’assoluta certezza di non averne alcuno. La sua condotta è incentrata nella ricerca del proprio tornaconto costi quel costi e in senso propriamente letterale. Compra conduttori televisivi, elettori, momenti di riflessione (così chiamati ironicamente i sollazzi con prostitute del posto) nel tentativo di giungere primo nella corsa alla carica di Sindaco. Disputa elettorale che si svolge in un paesino della Calabria, in concorrenza con un candidato che invece fa della legalità e dell’onestà il proprio cavallo di battaglia. Le sorti per Cetto sembrano volgere al peggio, i sondaggi lo danno in forte svantaggio a poche settimane dalle elezioni, finché non arriva in suo sostegno un consigliere del “Nord”, ben remunerato, (interpretato da Sergio Rubini) che, con una serie di mosse dettate dal marketing e improntate sulla costruzione di una immagine falsa e di pura apparenza, riesce a ribaltare la situazione.
Non solo Cetto è il simbolo del malaffare che entra in politica, ma è lui stesso a farsi interprete degli istinti più bassi della cittadinanza, che anch’essa si mostra, in alcuni suoi aspetti, facilmente riducibile e soggiogabile a quelle stesse inclinazioni che ispirano il modus vivendi di Cetto La Qualunque.
Albanese cerca di far trasparire, attraverso il suo personaggio e in maniera caricaturale, molti dei tratti comportamentali, quella tipica ignoranza mista a protervia, che caratterizzano i politici che governano questa malridotta Italia. Riuscendo così a trasformare la prima sensazione di comicità, che il film rimanda, in riflessione. Riflessione che conduce inesorabilmente lo spettatore a declinare il tutto in tragedia, perché di quella tragedia, egli prende coscienza, realizzando di farne parte a pieno titolo.
Non all’altezza del precedente lungometraggio presentato nel 2008 al Festival di Venezia, Pranzo di Ferragosto, del regista Gianni Di Gregorio è Gianni e le donne, proposto nella sezione Berlinale Special. Anche se probabilmente non voluto, dal racconto cinematografico sembra trasparire una nota sarcastica, ma problematica, del rapporto di persone ormai sulla soglia della terza età con il femminile. Per questo il rimando alle vicende, e agli scandali italiani riguardanti un ultrasettantenne per giunta Presidente del Consiglio con minorenni prostitute, non appare diretto nello svolgersi della trama del film. Ma il richiamo, sia pure in termini apparentemente innocenti e generali, a una tematica così attuale del rapporto tra società dell’apparenza, denaro e donne bellissime pronte a tutto, è il tratto centrale del film.
In una società dove si è sollecitati continuamente da invitanti sembianze, figure immaginifiche di ogni tipo, dove anche il corpo diventa la possibile caratterizzazione di una merce in vendita, con un prezzo già stabilito e dunque acquistabile non importa da chi e da come, è chiaro che il corpo giovane e femminile, nel suo proporsi mercificato quindi utilizzabile per ogni godibilità, sottende l’idea che anche del piacere, e del potere che lo stesso rimanda, ci si possa impadronire facilmente. E con esso il grado di apprezzamento di se stessi, rivolto sia al proprio io che verso l’esterno, cioè nelle more del giudizio altrui.
Ragazze giovani e avvenenti circondano Gianni a vario modo e titolo, ma nessuna sembra prenderlo seriamente in considerazione. Le poche che di lui si accorgono hanno però nei suoi riguardi attenzioni assolutamente innocue dal punto di vista sessuale, anzi lo reputano una sorta di simpatico nonnetto a cui affibbiare i compiti più improbabili e insulsi. Centrale, e a suo modo divertente, il ruolo che Gianni gioca con la simpatica madre. Una donna spendacciona ancorata a uno stile di vita da nobile decaduta, che dissipa, senza alcuna remora, i timidi resti di un patrimonio in dissoluzione. Il film ruota dunque intorno a questi piacevoli equivoci senza mai decollare o fare salire grado e profondità dei personaggi.
Ci si aspettava, una volta saputa la presenza di un film in omaggio al ricordo del grande regista Mario Monicelli, un titolo più accattivante che non il, seppur bello, Marchese del Grillo. In sostanza ci sarebbe piaciuto che la scelta fosse caduta su quei film che, con la loro forza narrativa e capacità idealtipica nel fissare situazioni e personaggi, hanno iscritto nell’arte cinematografica il costume e il linguaggio propriamente italiani. Tre titoli su tutti: I compagni, I soliti ignoti, La grande guerra, non pellicole ma pennellate di rara genialità che raccontano vizi, inclinazioni e virtù di un intero popolo.
Infine voglio ricordare il successo enorme che anche quest’anno il Festival ha ottenuto. Circa 300.000 biglietti venduti per la Berlinale numero 61. Organizzazione perfetta con 20.000 accreditati da 116 paesi, tra questi 3.900 giornalisti.
L’Orso d’Oro è andato al film Jodaeiye Nader az Simin (Nader e Simin, la separazione) di Asghar Farhadi, meritevole vincitore fra le pellicole viste in concorso, opera cinematografica che ha saputo conquistare anche gli Orsi d’Argento per il Miglior Attore e per la Migliore Attrice. Premi entrambi consegnati, rispettivamente, all’intero cast maschile e femminile del film.
Per i cinefili voglio ricordare un lungometraggio tedesco che farà parlare di sé e che ha ricevuto il premio Alfred Bauer: Wer wenn nicht wir (Chi se non noi) di Andres Veiel, il racconto della vita della rivoluzionaria tedesca della RAF Gudrun Ensslin e del suo compagno Andreas Baader.
La 62° Berlinale si svolgerà dal 9 al 19 febbraio 2012 e siamo certi che sarà ancora grande spettacolo.