L’intuizione di Pitagora
di Bruno Ballerin
Teorema di Pitagora: in un triangolo rettangolo
il quadrato costruito sull’ipotenusa è eguale
alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
Il 12 giugno del 513 a. C. Pitagora uscì di casa, scrollandosi di dosso i rimproveri sempre più petulanti della moglie, per recarsi all’agorà a meditare. La tunica era quasi pulita, il cielo terso, e la strada asciutta: Pitagora si sentiva felice, camminava sul ciglio della strada trascinando i piedi sull’erbetta all’ombra dei sonnolenti pini mediterranei, sfiorato dai carri che cigolando sull’acciottolato si recavano al mercato: tutta gente variopinta, ciarliera, estranea a quel mondo ordinato di numeri e figure geometriche in cui Pitagora si rintanava ogni qualvolta la realtà esteriore glielo consentiva; e questo accadeva ormai sempre più spesso in un silenzioso aprirsi e chiudersi di porte inesistenti.
Quella mattina aveva spalancato l’uscio della meditazione, appena chiuso quello di casa, ma non vi era entrato del tutto per non privarsi degli stimoli di quella splendida giornata estiva che gli solleticava la pelle, così, soggetto alla perturbazioni esterne, gli era più difficile concentrarsi sui suoi teoremi: ce n’era uno in particolare, interessante e del tutto originale, che lo affascinava già da tempo in uno strano gioco di attrazione e repulsione. Una teoria dai contorni evanescenti che avvolgeva il triangolo con lampi intuitivi, lasciando presupporre la magica presenza della universale armonia: se fosse riuscito ad imprigionarla, a darle una forma osservabile, una struttura logica dimostrabile matematicamente, sentiva che si sarebbe assicurato la fama eterna.
I sintomi che lo convincevano d’essere ormai vicino a una grande scoperta non mancavano: intanto la forma geometrica attorno alla quale indagava, il triangolo, riproponeva l’inconscia attrazione che fin dall’infanzia il numero tre esercitava sulla sua mente. Era una vera e propria ossessione che si manifestava quotidianamente in un irriducibile desiderio di perfezione, di una compiutezza che presupponeva sempre un inizio e una fine.
Col tempo questa specie di mania si era aggravata fino alla esasperazione; ora ogni azione, ogni comportamento dal più interessante al più banale si svolgeva nella ripetizione di questo ormai sacro rituale: le poche suppellettili della sua modesta casa erano disposte in gruppi di tre (che la moglie regolarmente scomponeva durante le faccende); sul retro della casa, nell’orticello triangolare, tre erano gli alberi di fico, gli ulivi e i limoni, e tre le panche sotto il pergolato.
Anche a tavola terminava il pranzo con tre fichi, evitando di fermarsi a due quand’erano sgradevoli e resistendo alla tentazione di superare quel limite, nel caso fossero squisiti, per paura di perdersi nella vastità del numero pari. E quando proprio l’appetito lo costringeva a superare i limiti dell’armonia, allora scomponeva l’operazione in tre fichi più uno, trovando nell’unità finale un simbolo chiuso, raccolto, che non gli procurava l’angoscia dell’illimitato.
Tornando al suo teorema in composizione, c’erano anche sintomi più concreti che lo convincevano dell’esattezza della sua intuizione, ad esempio: ogni variazione nel rapporto fra i cateti si riproponeva automaticamente nel rapporto fra cateti e ipotenusa; una corrispondenza che si riscontrava nella quasi regolare variazione degli angoli acuti. Poteva ormai determinare automaticamente queste regolarità, ma occorrevano calcoli complessi, ben lontani da quella formula geniale, capace di esprimersi nella semplicità dell’universale, che lui stava cercando.
Intanto l’uscio delle meditazioni si era richiuso ovattato sui suoi pensieri e la coscienza, non più raggiunta dagli stimoli del frenetico mondo esterno, se ne stava raccolta attorno alle idee, a confabulare con la memoria.
Il suo passo si era fatto più incerto; abbandonato il bordo della strada sconfinava sulla carreggiata, fra i carri che rotolavano pesanti; qualcuno inveiva a quel passante distratto con la tunica sbilenca; altri che lo riconoscevano per quello che era, arrestavano bonariamente i carri per dargli il passo, come si fa con quei vecchi cani lanosi che attraversano imperterriti la strada irremovibili nella loro incoscienza.
Ogni tanto qualche ruota di carro lo sfiorava e il mozzo gli tirava la veste, allora Pitagora sembrava riprendersi e e senza spostarsi si fermava a guardare quell’oggetto rotondo che si allontanava, cadendo nuovamente prigioniero del mondo incantato delle forme: il cerchio, figura geometrica per eccellenza, insuperabile nella perimetrazione di uno spazio; trasformato grazie ad un perno in una ruota: in quell’invenzione c’erano le stigmate della genialità così come a volte la fiutava nella sua.
Aveva ripreso a camminare, a capo chino, curvo sotto il peso delle Muse che sembravano essersi appollaiate sulle sue spalle; osservava l’acciottolato scivolargli lento sotto i piedi e percepiva quell’immagine scomposta in un susseguirsi di forme geometriche, rappresentate dai larghi sassi levigati dal tempo e incastrati gli uni agli altri quando una composizione particolare lo illuminò: un sasso triangolare circondato da altri, quadrati; stava considerando la dimensione di quello più grande affiancato all’ipotenusa e quelli più piccoli addossati ai cateti, allorché si sentì chiamare: “Pìta, Pìta!”. Quel richiamo era troppo familiare e così vicino che la coscienza non poté fare a meno di segnalarglielo, tanto più che l’interlocutore lo stava cingendo con un braccio per trascinarlo fuori dalla strada.
Con sorpresa notò d’essere già arrivato alle prime case fuori porta della città; l’amico voleva a tutti i costi che Pitagora mantenesse la promessa fattagli un mese prima di misurargli l’orto, dietro casa, che doveva vendere a dei vicini. L’orto aveva la forma di un trapezio irregolare e la misurazione si presentava complicata, l’amico aveva già predisposto gli strumenti necessari e Pitagora entrando nel cortile si volse ad osservare la strada, gli sembrava di avervi abbandonato qualcosa, qualcosa che non voleva assolutamente dimenticare: sapeva bene come le Muse fossero gelose dei loro segreti e rendessero le intuizioni nitide o evanescenti a seconda dei loro imperscrutabili umori.
Si cercò addosso una tavoletta e uno stilo per fissare l’idea che gli danzava in testa, non ancora precisa anche se delineata nei contorni, mentre l’altro lo tirava di qua e di là per l’orto sviandolo con chiacchiere continue, con raccomandazioni, con calunnie sul vicino che, a dir suo, di notte spostava il segnale di confine per rubargli un po’ di terreno.
Frugò nella sua mente alla ricerca di un angolo dove riporre l’intuizione per dedicarsi a quel lavoretto da cui avrebbe ricavato sicuramente un pollo e qualche uova, che sperava servissero a rabbonire la moglie e a convincerla sulle finalità pratiche della speculazione geometrica; ma non lo trovava, era come sistemare qualcosa all’interno di un pozzo senza ganci, sperando che non scivolasse giù nelle oscure profondità dell’acqua. Ma già l’idea si annebbiava lasciandolo con l’angoscia dell’occasione perduta, non riusciva più a tenerne uniti i contorni e immaginava che le Muse lo guardassero con ironia, rimproverandogli quel cedimento verso le meschinità quotidiane.
In quello schermo fantastico, su cui la mente proietta i pensieri, l’intuizione si era dissolta completamente e al suo posto si delineava l’immagine dell’orto da misurare, con gli angoli ormai nitidi, i lati tremolanti attorno a quel perimetro irregolare, che l’amico pretendeva fosse misurato con estrema esattezza, magari un po’ in eccesso per compensare gli espropri notturni.
Quasi per dispetto alle Muse tirò allora le tendine, oscurò la profondità della mente, e lasciò che la coscienza scorrazzasse libera come un cucciolo irrequieto per le vigne dell’orto. Sgravato dalle fatiche della riflessione si lasciò assorbire da quell’impegno, felice finalmente di agire e di misurarsi non più con l’astrazione sfuggente, ma con la solidità della materia dove la sua volontà d’ordinare poteva concretizzarsi.
Il lavoro fu di breve durata, sarebbe certamente terminato prima se il proprietario dell’orto non gli fosse stato continuamente fra i piedi con quell’aria stupita di chi assiste al lavoro di un grande maestro, ma in realtà con l’intento di suggerirgli i propri punti di vista su come procedere alle misurazioni e ai calcoli.
Al termine l’amico lo invitò in casa per offrirgli del buon vino, che aveva in precedenza versato nell’anfora più nuova e decorata che aveva; furono quelle decorazioni geometriche, mentre il vino scendeva frizzante nelle tazze, a riacutizzare in Pitagora i sintomi della sua nevrosi: avvertì una presenza indefinita in quella parte del cervello dove poco prima aveva cercato di imprigionare l’intuizione. Dunque, non se n’era andata! non l’avevano rapita le Muse, era lì, presente ma inafferrabile, che gli stuzzicava la coscienza fidando sulla propria trasparenza.
Riusciva, in uno sforzo di concentrazione, ad isolare lo spazio dove quell’idea era rintanata, a girarvi attorno, ma non a penetrarlo; l’ossessione cresceva nell’impossibilità di spingersi oltre la pura sensazione di averla in sé, senza tuttavia trovare la chiave per decifrarla, per comprenderne l’essenza. Più si sforzava e più si rendeva conto della sua impotenza: era come se tentasse d’infilare una mano dentro un secchio d’acqua torbida, con la speranza di afferrare un’anguilla sfuggente. Sembrava una punizione degli Dei, un supplizio di Tantalo, per avere abbandonato le Muse in cambio di pochi beni materiali.
Si distolse a fatica da quei pensieri, salutò l’amico dopo avere consumato per intero il suo peccato, e si allontanò col pollo in una mano e un cestello di uova nell’altra. Ma ormai era troppo tardi per recarsi all’agorà, e poi riconobbe di non averne neppure voglia: da quando sotto i portici si erano installati quei nuovi filosofi non si arrivava più a capo di un ragionamento; la sua capacità di sintesi, i suoi continui sforzi per far scaturire un germoglio dalle disperse radici del pensiero, erano vanificati dalla forza centrifuga che turbinava in continuazione nelle menti di quei giovani alchimisti del nulla. Il loro trastullo preferito consisteva nel mettere in una tazza un mazzo di fiori diversi, di schiacciarli e rimestarli fra loro fino ad annullare i singoli profumi, senza però ricavarne alla fine alcuna nuova essenza.
Si fermò indeciso in mezzo alla strada, il traffico era diradato, un sostenuto vento di mare alzatosi improvvisamente gli agitava la tunica, gonfiava le ali del pollo e scuoteva le chiome dei pini che si piegavano indolenti nell’azzurro intenso.
Guardò in alto quel cielo limpido, e il sole al centro come un Dio che tutto illuminava e permeava della sua verità; pensò con dolore all’astro della sua coscienza che non riusciva ad illuminare gli angoli più reconditi dello spirito; percepiva ora la volontà razionale come una nube vaga e aggressiva, che avvolgeva curiosa quel germoglio del cervello chiuso come un uovo nel guscio. All’interno di quell’involucro sembrava agitarsi l’energia vitale, reticente e forse ostile, dell’intuizione; ed ebbe l’avvilente certezza che lui, senza quella materia originaria, non avrebbe potuto costruire nulla. Tutta la sua creatività, i meccanismi logici, in pratica la capacità di dar forma al suo teorema non poteva che svilupparsi da quell’idea.
Istintivamente si grattò la testa fra i capelli cespugliosi, ma la sua mano avrebbe voluto spingersi oltre la parete ossea per frugare alla ricerca di quell’idea, nascosta come un insetto, nelle pieghe della materia grigia.
La natura matematica di Pitagora si rifiutava di accettare quella situazione, non era nelle sue abitudini sorvolare su ciò che a tutti pareva normale; trovava inammissibile che un’idea si nascondesse nel suo cervello senza che lui, proprietario del corpo e dello spirito potesse entrarne in possesso, disporne per i propri fini: era semplicemente assurdo! Ora si considerava meno grande e arrossiva nel vedere la sua esperienza, l’orgoglio e la sua ambizione starsene raccolte ma impotenti attorno a quello scrigno, in attesa che si schiudesse volontariamente per impossessarsi della cosa, per nutrirsene e rigenerarla. Si sentiva come un pesce famelico che stringe d’assedio quello strano crostaceo chiamato Paguro, in attesa che stanco e affamato se ne esca dal guscio, per divorarlo.
Fu così che concepì il suo progetto, la sua trappola. . . gli occorreva un’esca, un’astuzia capace di allettare l’idea, smorzare la sua diffidenza, costringerla ad affacciarsi fuori dal nascondiglio! Si rese conto che quel problema lo affascinava ormai più del teorema: in fondo era un teorema nel teorema; aveva capito che non si trattava di un semplice gioco della memoria, era passato troppo poco tempo da quando la sua mente si era illuminata. . . Si ricordò che quando la scintilla dell’intuizione si era accesa stava camminando per la strada con gli occhi fissi sul selciato, capì che doveva ripercorrere quel tratto, pensare al suo teorema e guardare con più attenzione ciò che allora stava involontariamente osservando; ritornò sui suoi passi, con la gallina tenuta stretta tra le zampe che gli starnazzava a fianco.
Aveva scelto come punto di partenza il luogo dove era stato urtato dal carro e come punto d’arrivo, di questo tragitto rievocativo, la casa dell’amico, il luogo dov’era stato distratto nel momento più interessante della sua meditazione.
Il primo tratto non diede alcun risultato e si ritrovò al punto di arrivo con lo stesso angoscioso senso di oscura presenza in quell’angolo del cervello; l’amico, affacciatosi nuovamente all’uscio, lo guardava perplesso, con il timore che fosse tornato indietro per chiedergli altre uova. Ma Pitagora nemmeno lo vide; era concentrato nello sforzo di rievocare; forse troppo concentrato, per consentire a quel nodo di sciogliersi, quasi per volontà propria. Aveva guardato tutto con impegno ma non era riuscito a ritrovare la causa di quell’intuizione; probabilmente gli era apparsa davanti agli occhi, ma non si era verificata quella magica coincidenza fra l’immagine che aveva dentro e la sua proiezione nell’oggetto esterno che la riproduceva, uno sfasamento nei tempi.
Tornò al punto di partenza, ricominciò a pensare con lo stesso procedimento di poco prima, anche se con minor intenzione, e si incamminò verso la casa con passo più lento; ora, le forme geometriche che proiettava nei sassi del selciato, erano diverse dalle prime e ogni tanto aveva l’impressione di vedere nel buio della sua mente esplodere brevi bagliori, che poi svanivano senza imprimersi, come stelle cadenti nella volta del cielo.
Si ritrovò ancora davanti alla casa dell’amico che continuava a guardarlo mentre, nell’espressione del volto, il sorriso si era sostituito alla preoccupazione; altri si erano affacciati dalle finestre ammiccando fra di loro e un gruppo di ragazzi sfaccendati, radunati all’ombra di un pino, lo deridevano, sollecitando la gallina a fargli quell’uovo che ritenevano avesse perduto dal cestello.
Pitagora si stava infervorando e sentiva d’essere sulla strada giusta: nel secondo passaggio aveva allentato la morsa su quella parte recondita del cervello, dimostrando la volontà di instaurare un rapporto amichevole; togliendo, come dire, un po’ l’assedio per far credere al custode dell’idea d’essere quasi indifferente al suo tesoro e così si era aperto uno spiraglio, da cui fuoriuscivano vaghe sensazioni che percepiva come profumi dell’intuizione nascosta. L’aveva fiutata insomma, e ora intendeva ripetere il percorso deconcentrandosi sempre più finché la trappola non fosse scattata.
Il selciato riprende a scorrere sotto i suoi occhi ancora una volta, due, tre, mentre nella mente le libere associazioni si sfiorano si urtano si ricorrono come in un gioco atomistico. Ed ecco, ecco finalmente quel sasso triangolare! e gli altri, quadrati, che gli stanno attorno, addossati all’ipotenusa e ai cateti… Eccolo il filo d’Arianna che condurrà la sua coscienza alla luce: l’idea ora non può più sfuggirgli e ha l’impressione che qualcosa si dimeni nel cervello come un animale imprigionato; ma Pitagora la stringe in pugno e con tale forza che rischia di spezzare le zampe alla povera, spaurita gallina, della quale si è completamente dimenticato.
Il teorema era svelato, e forse anche il teorema nel teorema che per la prima volta aveva infranto il mito delle Muse!
Mentre aveva ripreso la strada di casa, tenendo ben saldi i lembi dell’intuizione perché non gli sfuggisse ancora una volta, sentiva che la sua felicità era attenuata da un senso d’amarezza e forse d’inquietudine: aveva inseguito un’invenzione che doveva renderlo immortale nei secoli, ma ora che l’aveva afferrata gli appariva con i contorni di una scoperta se non addirittura di un furto, e lo tormentava il dubbio sulla natura del derubato: chi era in fondo quel crostaceo diffidente che conviveva al suo interno? e chi dei due doveva ritenersi l’ospite? Le risposte non gliele avrebbe certamente fornite sua moglie, che l’attendeva impaziente e scura in volto, mentre il suo sommesso brontolare si fondeva in perfetta armonia con quello della pentola già in ebollizione dentro l’angusta casa.
Hiedo scusa
Vorrei sapere se è possibile pubblicare il testo sullintuizio e di potagora sui social. Gr5
Per me nessun problema, ma occorrerebbe chiederlo all’autore, del quale però non ho i contatti.
Saluti