L’età giovane. Lo sguardo dei Dardenne sulla radicalizzazione islamica
di Luca Le Donne
Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Interpreti: Idir Ben Addi, Myriem Akheddiou, Claire Bodson, Othmane Moumen, Victoria Bluck
Con il loro “L’età giovane” (titolo originale “Le Jeune Ahmed”), i Fratelli Dardenne concentrano lo sguardo sul fenomeno della radicalizzazione islamica in Europa e, in particolare, in Belgio dove essa ha recentemente inferto profonde ferite. E lo fanno, come loro consueto, da un punto di vista inusuale e molto personale, quello di un ragazzino di 13 anni che cresce in una situazione familiare difficile, ma non troppo: un padre (immigrato musulmano) assente, una madre belga con trascorsi di alcolismo, un cugino (da lui idolatrato) caduto come eroe della jihad. Ma in ogni caso egli non è privo di affetto e attenzione, anche grazie all’amore di una madre non perfetta ma amorevole, alla presenza di un fratello e di una sorella, a una rete di servizi sociali fortemente orientati all’inclusione.
Fin qui nulla di grave, quindi, se non fosse per la presenza di un Imam, raffigurato tra il violento e il codardo, che inculca nel giovane ragazzo, evidentemente alla ricerca di una sua identità e di un suo posto nel mondo, ideali religiosi integralisti e intolleranti. L’avversione verso tutto ciò che è diverso (“infedele”) si catalizza nei confronti di un’educatrice, colpevole di voler insegnare ai ragazzini di origine islamica la lingua araba non solo dai versetti del Corano, ma anche dalle canzoni moderne; idea, questa, inaccettabile per qualsiasi musulmano radicale.
I Dardenne mantengono in questo film il loro stile asciutto e privo di sentimentalismo, quasi documentaristico, con la macchina da presa sempre incollata ai protagonisti e mai distratta da ciò che non è essenziale. La fotografia e il suono sono coerenti con questo approccio, così come il montaggio. Gli attori sono ancora dei non-professionisti, che a detta dei Dardenne aiutano a rendere un maggior senso di autenticità.
Originale anche la prospettiva: gli stessi registi dichiarano di non aver voluto girare un film “di formazione” che indagasse sul processo che porta una giovane mente ad abbracciare l’integralismo, inclusi i fattori di natura sociale fatti di emarginazione e, quindi, di ribellione. Il solo scopo dell’opera è quello di mostrare come si svolga la vita di un giovane radicalizzato, come quest’ultimo interagisca con il mondo esterno e come, eventualmente, possa trovare una redenzione.
È forse, però, proprio qui il punto debole della pellicola: l’aprioristica abdicazione all’indagine psicologica o sociale ci restituisce un personaggio completamente “nero”, senza sfumature né sfaccettature, senza dubbi né cedimenti fino all’ultimo minuto, più un automa che un essere umano (al contrario dei personaggi di contorno che sono – tutti – “luminosi”, animati da amore, spirito di comprensione e solidarietà). Tutto ciò comporta l’impossibilità per lo spettatore di identificarsi con il protagonista e di immedesimarsi nelle situazioni che si dispiegano davanti ai suoi occhi. Invece, senza nulla voler anticipare, il finale colpisce nel segno con una sorpresa che – in parte – rimedia alle pregresse carenze. Monolitico.