L’Emilia Romagna e la crisi che viene da lontano. La fine del Pci e la regione non più rossa
di Lorenzo Battisti
Sembra ormai chiaro che il destino del governo si giocherà nelle prossime elezioni regionali di Gennaio, e in particolare in quelle della mia regione, l’Emilia Romagna (come la solito, il Sud viene dimenticato, ma c’è anche la Calabria al voto).
Il vero fatto nuovo è proprio questo: non solo la regione tradizionalmente rossa è “contendibile”, ma la vittoria della Lega è data quasi per certa dalla maggior parte dei sondaggi. Questo rappresenta un fatto storico, per una regione da sempre considerata rossa, antifascista, progressista e che si scopre d’un tratto verde.
Negli ultimi giorni, prima del pienone di Piazza Maggiore, sono stato colpito dai tanti post sui social network di tanti amici e compagni che avvertono ora l’emergenza dell’onda verde che straripa oltre il Po, dopo aver preso l’Umbria. In particolare sono stato attirato dal post di un compagno che mi sembra riassumere bene l’urgenza avvertita da una parte dei militanti storici della mia regione. È un compagno che ha militato nel Pci, tra i miglioristi, e che ha seguito tutto il percorso di trasformazioni fino al Pd, per poi uscire con D’Alema e Bersani in Articolo 1. Ma soprattutto è stato un acuto osservatore delle trasformazioni sociali ed economiche della regione, attraverso il ruolo svolto all’interno dell’istituto demoscopico provinciale. Il compagno scrive:
“Compagni, amici e conoscenti, sia ben chiaro. Questa è davvero la madre di tutte le battaglie. Uno scontro politico a tutto campo. Uno scontro ideologico. Una questione identitaria. Il sangue di noi tutti. Se l’Emilia sarà conquistata non sarà una normale alternanza. […] Una conquista, Così sarà celebrata la vittoria dai fascio-leghisti. Sarà come una ‘resa dei conti’. Di segno opposto a quella di settanta e più anni fa narrata nel Novecento di Bertolucci. Il Gennaio 2020 contro il 25 Aprile del ’45. Che i barbari siano un’accozzaglia di gente molta della quale composta di energumeni ignari della storia e di qualsivoglia ideologia, non conta. Questa sarà la lettura. Il copione, anche se gli attori non conoscono che poche battute. Un passaggio epocale. La destra trionfante non sarà interpretabile come un fisiologico raddrizzamento di torti, malefatte, incurie amministrative, deviazioni e revisionismi. Un segnale da reinterpretare. Non festeggerà la caduta del Pd infiltrato di liberismo ed opportunismo renziano. Il peana sarà un altro. La caduta dell’Emilia rossa, della sua identità socialista delle origini (non della sua forma vigente scolorita) e della sua democrazia socialmente partecipata. E insieme delle culture coeve del cristianesimo sociale dei Dossetti e dei Gorrieri e del repubblicanesimo civile. L’Emilia Costituzionale. Sarà uno sbrego, uno stupro. Una violenta reazione iconografica. Una sepoltura. Dopo la quale il socialismo emiliano riposerà come damnatio memoriae, come il comunismo nei paesi dell’est. […]
In un discorso alla vigilia di Stalingrado Stalin abbracciò con forza la narrazione patriottica: evocò Puskin, Tolstoj e la grande letteratura russa, la grandezza della civiltà slava contro la barbarie del nazismo. Ed è questo impulso patriottico, malgrado l’indebolimento dell’esercito operato dalle purghe staliniane, che valse la vittoria.
C’è bisogno di allestire una narrazione di combattimento, non un congresso autocritico. Non è il momento. Un libro, un documento identitario, un Manifesto. Un verbo da impugnare. Dietro il quale si marci uniti. Con un sound. Che parli del carattere sociale, democratico e civile dell’Emilia. Terra di emancipazione e di libertà piantata nell’Europa. Che si ispiri ai nostri padri, anche se siamo stati indegni. A mio padre Mario. Una narrazione patriottica regionale. Se ne dovrebbero fare promotori gli intellettuali, gli artisti, i narratori, i musicisti che hanno tratto dal country emiliano la loro linfa ispiratrice. E tutto il resto a seguire”
Vedo diversi post così. E devo dire che dal punto di vista personale mi dispiace. Alcuni si svegliano oggi, e trovano l’acqua fino al terzo piano. E chiamano a raccolta tutti, per un grande progetto per salvare la casa comune, quella della famiglia. Ma nessuno interviene. Anzi, nella casa non c’è quasi più nessuno. Da tempo. Da tanti anni. E quelli che ci sono, quelli che sono restati, pensano al più al proprio pianerottolo. E a gettare l’acqua verso l’appartamento del vicino, mentre tutti e due affogano.
Ma tutto questo non è iniziato oggi. E’ iniziato circa 30 anni fa di questi giorni (e forse anche prima). Con l’annuncio dello scioglimento, non finiva un’ideologia. Finiva l’idea stessa di ideologia, quale sistema di idee generale che trascende il presente e lega al passato. Un’idea che andava oltre il “qui e ora”, che mobilitava per un progetto che oltrepassava i singoli, che sollevava dal proprio immediato, che dava senso alle vite singole perché parte di un progetto più grande e collettivo. E il vuoto che ne è risultato è stato immediatamente riempito dai piccoli interessi personali.
Si pensava che certe caratteristiche fossero quasi genetiche in Emilia Romagna; che, come si diceva all’epoca, fossimo “antropologicamente diversi”. Che la buona amministrazione fosse esclusiva di una parte. E si è pensato a questa come mera tecnica amministrativa, che quindi poteva prescindere dall’ideologia e sopravvivere alla sua fine. Anzi, dalla sua fine avrebbe potuto liberarsi un nuovo slancio amministrativo, perché non più vincolato da “insensate limitazioni ideologiche” che ne limitavano le scelte. Invece non è stato così. L’amministrazione è diventata pura mediazione tra gli interessi nella società, condita da una retorica localista e paternalista, che ha per un po’ di tempo coperto il tutto. Ma gli interessi nella società locale non sono tutti uguali. E soprattutto non sono tutti equipotenti. Il risultato è stata una mediazione progressivamente al ribasso, in cui gli amministratori hanno cercato (alcuni anche in buonafede) di soddisfare tanto le richieste delle oligarchie locali (in cerca costante e crescente di profitti e occasioni) quanto la richiesta di benessere della popolazione, nonostante queste due fossero confliggenti. E in questo, l’amministratore “neutrale”, libero dalle ideologie, ben lungi dall’essere antropologicamente diverso, ha capito immediatamente chi erano i vincitori e quale doveva essere la direzione della mediazione. E visto che, in mancanza di ideologie, rimanevano “legittimi” interessi privati, anche gli amministratori stessi hanno avanzato i propri interessi personali. “Legittimi” quanto gli altri. E di seguito sono andati anche i vari dirigenti di partito, giù fino ai militanti. Solo gli iscritti hanno continuato a pensare che nulla fosse cambiato in trent’anni, che “fossero sempre quelli”.
E così la Regione che era simbolo di diversità, esempio concreto di un’alternativa possibile, un’alternativa che già si materializzava nel presente, nonostante la retorica, è diventata normale, come le altre. Forse peggio. La commistione di interessi economici e di interessi privati l’ha vista diventare la regione in cui più si è costruito (dopo la Lombardia), con schiere di amministratori locali che, a fine mandato, dopo aver predisposto il piano regolatore finivano a lavorare per le imprese costruttrici. O sindaci che trovavano lavoro nelle ex municipalizzate, poi privatizzate e quotate in borsa, con stipendi importanti. O i giovani del partito, sempre meno, che grazie alla rete di conoscenze vivevano sempre una condizione lavorativa ben migliore degli altri (di certo della mia!), lavori indeterminati, corti periodi di disoccupazione, carriere negli studi dei professionisti vicini al partito, collaborazioni in provincia o in regione, posti nelle assicurazioni e nelle banche vicine al partito, o nelle cooperative. Fino alle cordate “etniche” per scalare il partito e le amministrazioni, con la comunità calabra di Bologna che sosteneva il candidato pugliese per la tal carica amministrativa e di seguito la comunità pugliese aiutava il candidato calabrese a scalare il partito. O ancora personaggi popolari in città, che cerimoniavano nozze per accumulare preferenze e sventolavano la sciarpa del Bologna per coprire il proprio ruolo di rappresentati della sanità privata in seno al partito e alla regione. Fino al dilagare dell’ndrangheta e delle altre mafie, una presenza sancita da processi e sentenze, con il sindaco della città più “rossa” d’Italia che, dopo aver ammesso candidamente di non essersi accorto di nulla, viene fatto Ministro dei Lavori Pubblici.
E così si è costruito dappertutto, per soddisfare gli interessi degli immobiliaristi. E si è privatizzata l’acqua quotandola in borsa, ma mantenendo per sé l’accesso ai posti dirigenziali come quando era pubblica. E si usano i fondi pubblici per finanziare la sanità privata, depauperando quella pubblica, e chiudendo ospedali e presìdi nelle parti più periferiche, obbligando a brevi decorsi ospedalieri per risparmiare, tagliando posti letto e svilendo il personale ospedaliero. Sono state privatizzate anche le farmacie pubbliche, una volta gioiello di efficienza da cui si rifornivano anche quelle private, ma mantenendo il logo di “farmacia comunale”, in modo che la gente non si accorgesse che passavano di mano in mano da una multinazionale all’altra. O ancora, si sono finanziate le scuole confessionali per comprarsi il consenso della Chiesa. O i trasporti pubblici gestiti come se fossero un’azienda privata, con il taglio delle corse e l’aumento dei prezzi e le esternalizzazioni a aziende di trasporto privato (dove gli autisti sono assunti da agenzie interinali).
Questo è diventato ora improvvisamente evidente a tutti. Ma fino alla crisi del 2008 sono riusciti a resistere. Anche perché, pur nella furia particolarista, ci vuole tempo a smantellare quanto costruito in un secolo di sforzi. Già prima del 2008 si vedevano segni di crepe. Alcuni cominciavano già prima ad essere esclusi. Erano inizialmente gli interessi più periferici e più deboli. Prima gli immigrati, che non furono ricompresi nella comunità e i cui interessi erano talmente deboli da non avere rappresentazione. Poi sono stati gli “immigrati interni”, quelli che, pur italiani, venivano dal sud e che si trovavano a vivere in condizioni sempre più difficili. Poi gli autoctoni, ma periferici, quelli che abitavano lontano dal centro, sui monti, o nella bassa lontana. Ma il 2008 ha colpito anche i figli dei cittadini della semiperiferia e dei centri, e ha messo a nudo che gli unici interessi che restavano ed erano tutelati erano quelli economici e quelli degli amministratori stessi. Ed è risaltata la distanza, evidente, anche fisica, tra questi e il resto della regione. Tra le loro abitazioni in centro, le loro vite facili, le opportunità e le occasioni, e le condizioni di vita degli altri.
Al contrario dell’auto-esaltazione del tempo, qui non c’era nessuna diversità antropologica, né a livello amministrativo, né per quanto riguarda la popolazione. Le persone qui vedono le stesse televisioni di un calabrese o di un lombardo, usano gli stessi social di un veneto o di un piemontese, vivono la stessa vita di un toscano o di un molisano. In mancanza di un progetto unificante, nella mancanza stessa dell’idea che questo possa esistere, in una società che prevede solo interessi particolari da affermarsi con la forza individuale e di gruppo, anche qui la società è degenerata. Al contrario di ciò che pensano alcuni, cioè che il movimento operaio abbia agito sulla spinta dell’odio di classe, tutto quanto era stato costruito qui, fisicamente e spiritualmente, era frutto di uno slancio verso un progetto che oltrepassava la propria stessa esistenza, che era lontano nel futuro, ma che si materializzava concretamente e progressivamente tramite l’organizzazione di case del popolo, in cui esercitare e sperimentare un’umanità diversa, guidata da valori e comportamenti che non erano egoistici, ma altruisti e solidali. O nelle cooperative in cui si mostrava la possibilità di un’organizzazione del lavoro diversa, democratica, in cui i lavoratori potevano decidere sulla gestione e diventare essi stessi amministratori, e che al contempo era efficiente e in grado di essere allo stesso livello delle imprese private. O ancora la miriade di associazioni di mutuo soccorso, ricreative, sportive che mostravano la capacità organizzativa delle persone semplici, che mettevano al centro il loro benessere e le faceva uscire da una vita di solo lavoro, che le faceva uscire dal privato, per mostrare che “insieme è meglio”, che la socialità arricchisce l’uomo e lo allontana dalla grettezza e dalla meschinità; che questa permette di accedere alla cultura anche agli ignoranti, anzi insegna loro a leggere e a scrivere, ad apprezzare il bello, a non esserne esclusi. E poi c’erano il Partito e il Sindacato, che guidavano e organizzavano il tutto, strumenti democratici di lotta e di decisione. E di potere di chi non ne aveva, per potersi scontrare contro quegli interessi particolari che si esprimevano e che volevano le stesse libertà che avevano nel resto del paese.
Tutto questo non è stato costruito per odio. Non si è fatto questo spinti dal negativo, ma attirati dal positivo. Si è fatto tutto questo perché c’era l’idea di una società diversa possibile, concreta, non utopistica, che si poteva cominciare a costruire qui ed ora. E la cui costruzione era un progetto entusiasmante che dava senso alla propria vita e che si lasciava in eredità ai propri figli e ai figli di persone che non si conoscevano. Perché erano necessari decenni, forse secoli per costruirla, e non si sarebbe probabilmente mai vista. Ma già qui ed ora si poteva cominciare a costruire insieme agli altri. Nonostante i sacrifici personali, le difficoltà, gli errori, le delusioni. Proprio perché c’era questo progetto comune che parlava di eguaglianza e liberazione per la futura umanità, ci si impegnava e si partecipava. Nessuna diversità antropologica, nessuna buona amministrazione genetica, ma un’ideologia che guidava ed entusiasmava.
Caduta questa, non è rimasto molto. C’è voluto solo il tempo che tutto deperisse e una crisi che mettesse a nudo una realtà che è penetrata anche qui. In una società di interessi, gli amministratori sono stati guidati solo da questi, e hanno aggiunto i propri alla lista. Sono rimasti esclusi dalla lista gli interessi privati dei comuni cittadini, che, privi di un progetto collettivo e colpiti dalla crisi e dalle politiche amministrative degli ultimi decenni, si sentono esclusi e reclamano spazio. Gli interessi personali sono uguali per tutti e ciascuno valuta il proprio superiore a quello altrui. Oggi c’è il rischio della vittoria della Lega. Concreto, quale ultimo atto di una conquista che è cominciata almeno trent’anni fa. In realtà avevano già vinto allora, ma lo vediamo solo oggi. Purtroppo, e spiace umanamente, alcuni aprono gli occhi ora, a pochi mesi dal disastro e ne rimangono atterriti. E vorrebbero resuscitare in pochi mesi un’ideologia, dopo che questa manca da 30 anni. La Lega rappresenta (come altri partiti prima di lei, e oggi insieme a lei) in modo più puro la prevalenza degli interessi particolaristici in una società in cui non è rimasto altro. Senza alcun progetto collettivo da contrapporre, con partiti diventati scatole vuote basate sugli alea della comunicazione e della demoscopia e il sindacato che svolge una pura funzione corporativa, in una società in cui resta solo il particolare, cos’altro poteva succedere?
Invece di prepararsi a una lunga resistenza in un ambiente ostile, si decise trent’anni fa di adattarsi e smantellare la propria diversità. Si è preferito diventare di colpo post moderni, guidati dal momento, e rinchiusi, come il resto della società, in un eterno presente fatto solo di edonismo privato. Oggi manca un’ideologia. Manca l’idea stessa di ideologia. Ma non manca da oggi e di certo non la si può reinventare in due mesi.
Il caso vuole che proprio Bonaccini abbia pronunciato, meno di un anno fa, le parole forse più significative per esemplificare e riassumere questo processo. Nel suo discorso “presidenziale” di fine anno ha pronunciato queste parole di sostegno alla richiesta di “autonomia differenziata” (che altro non è che la devoluzione di Umberto Bossi sotto falso nome) dell’Emilia Romagna rossa e della Lombardia e del Veneto verdi: “Un po’ più autonomia ci consentirebbe di poter gestire qui parte delle risorse che non sarebbero più gestite da Roma, e per come siamo fatti in Emilia Romagna, se le cose le gestiamo noi, generalmente le sappiamo gestire bene”.