Le cronache del nostro scontento. 2015: “SuperMario” e Renzinomics
di Giorgio Gattei
Riassunto delle puntate precedenti: Non mi sono fermato. Ho soltanto rallentato la serie di queste Cronache del nostro scontento che dovevano portare, nel 2018, alla sorpresa straordinaria di un governo “giallo-verde” in Italia. E avevo fatto cominciare quelle Cronache dal 2011: il complotto di “re Giorgio” (maggiofilosofico.it 27.3.2017), quando il governo Berlusconi era stato “defenestrato” da una manovra combinata, a mezzo del nazionale e dell’europeo, per preparare il terreno all’introduzione in Italia delle politiche della “austerità espansionistica”, che però espansionistica non è stata mai. Così nel 2012: arriva Monti e il Fiscal Compact (maggiofilosofico.it 6.6.2017) ed il piano veniva portato in esecuzione col doppio obiettivo di ridurre il rapporto Debito pubblico/PIL ad una misura compatibile con la crescita economica (il che si riteneva allora possibile), ma anche e soprattutto con l’azzeramento (proprio lo 0,0%) del rapporto Deficit/PIL, il che voleva dire l’obiettivo di un bilancio statale “in pareggio” (non a caso anche inserito in Costituzione con modifica dell’art. 91) che avrebbe dovuto essere conseguito, secondo quanto previsto dal Fiscal compact, nel 2014. Naturalmente nel 2013: il bis di “re Giorgio” e quella austerità “che fa male” (maggiofilosofico.it 14.9.2017) ci si muove proprio in quella direzione, ma non ci si riesce e ad andare a zero non sarà il disavanzo, bensì la crescita del PIL! Con il conseguente calo dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della spesa dello Stato, la domanda aggregata finirà al di sotto dell’offerta ed i prezzi prenderanno a calare. Nel 2014: il fenomeno Renzi mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione) (maggiofilosofico.it 19.10.2017) si riconoscerà che non può esserci alle viste alcun pareggio di bilancio, un obiettivo che Bruxelles rinvierà al 2017 accordandoci al momento un disavanzo pubblico del 2,9%, appena un pelino al di sotto di quel 3% fissato dal Trattato di Maastricht. Ma continua ad incombente la deflazione dei prezzi sia a dimensione europea che a livello nazionale. Qui dunque eravamo arrivati e da qui ripartiamo.
1. In prima battuta si ha deflazione quando la moneta nelle mani delle famiglie non è in grado di acquistare il pieno valore delle merci prodotte dalle imprese, sicché i prezzi finiscono per diminuire: siccome il valore delle merci prodotte (offerta = O = Q p con Q = quantità e p = livello generale dei prezzi) deve scambiarsi con un pari valore di moneta presente sul mercato (domanda = D = M), pare evidente che se la moneta in circolazione non basta oppure gira lontano dal mercato, se insomma:
M < Q p
l’equilibrio degli scambi si stabilirà ad un livello di prezzi più basso (p’ < p), a meno che non venga adeguatamente ridotta la quantità prodotta (Q’ < Q) con conseguente minor impiego di manodopera.
Naturalmente la deflazione non è colpa solo delle famiglie, perché anche le imprese ci mettono del loro, ma siamo stati così vaccinati contro l’inflazione, grande babau della fine del secolo scorso, che stentiamo a comprendere come si comportano gli imprenditori quando arriva la deflazione. Per produrre essi devono comperare i fattori produttivi ai prezzi di oggi, che acquisteranno ma solo alla condizione di poter vendere i prodotti a prezzi di domani in grado di coprire i costi e garantire un adeguato profitto. Però se i prezzi sono a calare, c’è il rischio che, a produzione avvenuta, si debba vendere a prezzi così ribassati da non guadagnar nulla e forse nemmeno recuperare i costi. Ecco perché, davanti alla deflazione, gli imprenditori preferiscono non acquistare i fattori produttivi, soprattutto il lavoro, a meno che il loro costo, soprattutto il salario, non si riduca adeguatamente. Si giunge così, per inesorabile necessità economica, a quel risultato disastroso di prezzi, produzione, salari e occupazione più bassi di prima che John Maynard Keynes ha chiamato nella Teoria generale (1936) un equilibrio di sottoccupazione che può «rimanere inferiore al normale per un periodo considerevole senza una tendenza decisiva verso la ripresa o verso la rovina totale». A superarlo ci vorrebbe una immissione di maggior denaro che facesse rialzare i prezzi, come accadde per superare la Grande Deflazione di fine Ottocento (1873-1896) con la scoperta dei giacimenti auriferi dell’Alaska e del Transvaal che inondarono i mercati di più moneta. Ma a quel tempo la moneta era ancora in forma metallica, mentre adesso non lo è più.
Allora la responsabilità della deflazione sta in una insufficienza di moneta? Vediamo meglio. Quando le famiglie non fanno domanda, ovviamente non consumano tutto il reddito posseduto, che risparmiano depositandolo in banca. Ma le banche, che dovrebbero girarlo a credito agli imprenditori, come possono farlo se gli imprenditori sono restii a fare investimenti produttivi? Così quei risparmi, se vengono a loro concessi, saranno indirizzati piuttosto verso attività finanziarie speculative, così da lucrare comodi interessi invece che incerti profitti. Ne seguirà il paradosso di una domanda d’investimento da parte delle imprese minore della offerta di risparmio da parte delle famiglie:
I < S
e questo fenomeno dà origine a quel sotto-investimento che Keynes aveva denunciato essere la cifra caratteristica della Grande Crisi del 1929-1933: «sia o no giustificata la mia sicurezza, non ho alcun serio dubbio o esitazione rispetto alle cause della crisi mondiale. Io le individuo interamente nel collasso degli investimenti che ha avuto luogo in tutto il mondo» (Un’analisi economica della disoccupazione, 1931). E siccome nel 2014 nell’euro-zona era ritornata la deflazione la causa non poteva essere la stessa del 1929?
Abbiamo ricordato nella Cronaca precedente che quando, nel 2014, il governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha cominciato a preoccuparsi della diminuzione dei prezzi, ha fatto fatica ad ammettere che si trattava di “deflazione” preferendo parlare di “bassa inflazione”, e solo quando a metà di quell’anno la loro variazione è arrivata allo strabiliante +0,0%, ha dovuto ammettere che una “inflazione zero” smentiva l’obiettivo statutario della BCE di mantenere il livello dei prezzi ad un valore «sotto ma vicino al 2%». Ma quale poteva esserne la causa? E’ stato soltanto nel 2016 che i due governatori di Bundesbank e Banque de France (in una lettera congiunta in cui si chiedeva l’istituzione di un «ministero del tesoro europeo» perché la BCE non dava garanzie di adeguato intervento) hanno riconosciuto il «paradosso di un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilizzato per investimenti» (“La Repubblica”, d’ora in poi per comodità R., 9.2.2016). Si trattava quindi di un caso esemplare di sotto-investimento keynesiano che le statistiche Eurostat avevano peraltro già rivelato se fin dal 2011 in Euro-zona i risparmi avevano superato gli investimenti di 550 miliardi di euro, saliti poi a 689 mld nel 2015, di cui 93 mld in Italia (cfr. G. Gattei e A. Iero, Una banca-dati per i saldi settoriali europei, in “economiaepolitica.it”, 13.3.2017).
Ma perché le imprese non approfittavano di tutto quel risparmio depositato presso le banche? Perché esse sarebbero state indotte a richiederlo, pagando il relativo interesse, soltanto nella speranza di guadagnare di più di quell’interesse, sicché la loro propensione all’investimento sarebbe dipesa dalla prospettiva di un saggio del profitto futuro re maggiore del costo presente del finanziamento, che poi non è altro che il tasso d’interesse i. Ma se invece fosse stato:
re < i
ben difficilmente le imprese avrebbero avuto interesse (è proprio il caso di dire!) a richiedere risparmio dalle banche, tenendosi prudentemente lontane dall’investimento produttivo. E’ quindi del tutto evidente che la prima misura d’intervento, a cui un governatore di Banca centrale avrebbe potuto pensare, sarebbe stata quella di un ribasso del tasso ufficiale di sconto, e quindi dell’intero sistema dei tassi d’interesse, così da stimolare le imprese a richiedere alle banche credito “a più buon mercato” da investire nella produzione.
2. Ed invero, quando il 1° novembre 2011 Draghi arriva alla presidenza della BCE e l’euro-zona è già in cammino verso la deflazione, la sua prima decisione monetaria sarà proprio quella di portare il tasso d’interesse allo 0,25%, rimediando allo sciagurato aumento all’1,5% deciso da Jean Claude Trichet il 7 luglio 2011 (che, tra i tanti cattivi effetti, aveva peggiorato lo spread dei BOT italiani rispetto ai Bund tedeschi rendendo difficile la vita al governo Berlusconi). Eppure il provvedimento monetario doveva dimostrarsi inutile, come provato da Luigi Zingales facendo appena due conti (“Il Sole-24 ore”, 27.7.2014): siccome nel 2011 il tasso medio d’interesse sui nuovi titoli era al 4,1% che con una inflazione al 3,1% dava un interesse reale per le imprese all’1%, nel 2014 quel tasso medio era calato al 3,9%, ma con una inflazione caduta allo 0,3% l’interesse reale era salito, e non diminuito, al 3,6%! Per questo i giornali ammonivano che la politica monetaria non poteva bastare (La BCE non la vede, ma in Europa la deflazione avanza, R., 21.8.2014), eppure ancora a settembre Draghi continuava a percorrere quella strada abbassando il tasso di sconto allo 0,05%. Ma se le prospettive di profitto per le imprese erano a calare (anche per le conseguenze recessive indotte dall’applicazione delle misure della presunta “austerità espansionistica” descritta nelle due Cronache precedenti), non c’era manovra monetaria capace di contrastare il calo dei consumi delle famiglie e la conseguente renitenza delle imprese ad investire, col bel risultato che «la BCE rischia di trovarsi in un vicolo cieco nel suo tentativo di arrestare la deflazione» perché, se «le vie ortodosse come il taglio dei tassi sono esaurite sul limite dello zero», «all’Eurotower non resta che espandere la dimensione del bilancio, cioè creare moneta e immetterla nell’economia comprando titoli sul mercato» (Misure anti-recessione: resa dei conti con Draghi assediato nell’Euro-tower, R., 6.11.2014).
Eccola qui, resa esplicita, la “ragion economica” che ha indotto Draghi a trasformarsi in quel “superMario” finalmente intenzionato a dare esecuzione alla minaccia, espressa a Londra il 26 giugno 2012, di adottare «tutto ciò che serve (whatever it takes) per mantenere l’euro. E, credetemi, sarà abbastanza». “Tutto ciò che serve” era una dichiarazione di guerra che al momento funzionò anche soltanto come annuncio, così che per gli autori di una biografia del governatore, «se non fosse irrispettoso potremmo definirla la più grande (ed efficace) supercazzola mai pronunciata da un banchiere centrale» (A. Aresu e A. Garnero, “Whatever it takes”: Mario Draghi signore d’Europa, “Limes”, 2015, n. 2). Peccato però che adesso quella “supercazzola” come annuncio non sarebbe bastata più e che nei fatti si sarebbe rivelata inefficace, come si andrà a dimostrare.
Se bisognava dare consistenza pratica alla “supercazzola”, allo scopo superMario decideva di replicare in Europa la medesima strategia anti-deflattiva già messa in campo dalla Federal Reserve americana, ossia quel provvedimento di Quantitative easing (o “facilitazione monetaria” e d’ora in poi QE) con cui la Banca centrale acquista titoli di Stato in cambio di una maggior moneta circolante. Ma ciò avrebbe provocato inflazione che per Draghi era certamente una misura “non convenzionale”, dato che lui, come confessato in una intervista a “Die Zeit”, l’inflazione l’aveva provata sulla propria pelle quando, a seguito della morte improvvisa dei genitori, il patrimonio paterno, investito dal tutore in buoni del tesoro a tasso fisso, si era dissolto negli anni Settanta a seguito di una «inflazione al 20%» (R., 15.1.2015). E adesso? Adesso sarebbe spettato proprio a lui di “inflazionare” con Un fiume di denaro per rilanciare l’Europa (R., 9.3.2015) con quel QE che era il suo “bazooka” (come lo hanno chiamato), ma pure la sua ultima cartuccia (R., 7.6.2015) perché, se mai avesse fallito, «abbiamo questo piano A. Punto», aveva risposto secco ai giornalisti non prevedendosi alcun piano B (F. Maronta, “Whatever he could”. La partita infinita fra Draghi e la Merkel, “Limes”, 2015, n. 2).
E’ stato così che da marzo 2015 Un tweet mette in moto il “quantitative easing” (R., 10.3.2015) con la BCE che si mette ad acquistare titoli di Stato per 60 miliardi di euro al mese fino al settembre 2016 o almeno finché l’inflazione non fosse ritornata «nei pressi del 2%». Con un vincolo però: che, per obbligo statutario della sua istituzione, quei titoli pubblici non sarebbero stati acquistati direttamente dagli Stati che li emettevano, bensì sul “mercato secondario” dalle banche che li avevano comperati in precedenza e che fino alla vendita alla BCE ci avrebbero lucrato i relativi interessi. Era quindi uno strano QE, comunque corposo («1140 miliardi di cui 140 per interventi sui titoli italiani»: R., 9.3.2015), che avrebbe sgravato il sistema bancario dai titoli pubblici che lo appesantivano affinché con quel denaro di nuovo conio fosse fornito credito alle imprese per investimenti e alle famiglie per consumi.
Ma proprio qui stava il difetto che ha ridotto a “supercazzola” il quantitative easing “alla Draghi” perché le banche, ben felici di cedere alla BCE i titoli pubblici che avevano in pancia in cambio di denaro liquido, si sono ben guardate dal passarlo alle imprese alle prese con un contesto deflazionistico (prezzi di domani minori dei prezzi di oggi) e hanno preferito “parcheggiarlo” nei conti di tesoreria che ciascuna di esse detiene presso la stessa BCE. Ne è risultata una colossale “partita di giro” (dalla BCE alle banche e ritorno) che non ha prodotto ricadute apprezzabili sulla “economia reale”, come dimostrano le cifre: se il QE, proseguito anche nel 2016 e 2017, ha aumentato la base monetaria di 2100 mld di euro, ad esso ha però corrisposto un “rientro” alla BCE di 1610 mld, e questo nonostante che Draghi, per scoraggiarlo, avesse introdotto su quei conti di tesoreria un tasso d’interesse negativo dello 0,10%, portato allo 0,40% da marzo 2016. Ma si trattava appena di un “pedaggio di sosta” che le banche avrebbero comodamente scaricato sul costo dei servizi alla loro clientela e Draghi, che pure ne era consapevole, restava a posto con la sua coscienza perché «non è una nostra decisione, è una decisione delle banche» (R., 6.6.2014). E così si dimostrava che non aveva potuto fare tutto quel che serviva (whatever it takes), bensì soltanto «whatever he could – tutto quel che poteva» (F. Maronta, in “Limes”, 2015, n. 2) perché, come si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
3. Tuttavia un risultato positivo il QE l’ha prodotto nei rapporti commerciali internazionali perché quel “fiume di denaro” immesso sul mercato dalla BCE ha svalutato l’euro rispetto a monete concorrenti come il dollaro, lo yen o lo yuan, rendendo più competitivo l’export delle merci europee (ma soltanto negli scambi extra-UE perché all’interno dell’Euro-zona, a moneta comune, nulla era mutato). Da tempo si auspicava questa svalutazione in Italia (Spinta all’export e deflazione addio. Ora l’Italia fa il tifo per la svalutazione, R., 3.9.2014), così che, quando finalmente si è verificata, Federico Rampini (da New York) ha avvertito subito chi di dovere che «c’è ancora spazio per spingere sull’acceleratore delle vendite, trasferendo ai consumatori americani un po’ più vigorosamente il calo della moneta d’origine. Per una volta che il vecchio continente è dalla parte giusta della svalutazione, spetta all’industria americana soffrire» (La svalutazione dell’euro spiazza l’economia Usa, il made in Italy guida l’invasione dei prodotti Ue, R., 14.3.2015). Di conseguenza il saldo commerciale nazionale (export meno import), che peraltro era già positivo nel 2013 per 36 mld di euro, sale a 46 mld nel 2014 e a 50 mld nel 2015 (cfr. G. Gattei e A. Iero, Una banca-dati per i saldi settoriali europei, in “economiaepolitica.it”, 13.3.2017).
Eppure ciò non sarebbe bastato a far ripartire l’economia nazionale se il governo Renzi non ci avesse messo del suo con quella mutazione della politica economica interna che, a buon diritto, si può chiamare Renzinomics. Infatti, nonostante il miglioramento dei conti con l’estero, la crescita del PIL era rimasta asfittica (+0,1% nel 2014), pesando pur sempre quel troppo risparmio sugli investimenti (S > I) ch’era la causa della deflazione e che nel 2014 aveva raggiunto i 100 mld di euro dai 36 mld del 2011 (cfr. G. Gattei e A. Iero, Il deficit spending della Renzinomics, in “economiaepolitica.it”, 4.1.2016). Ma come ridurre questo squilibrio se dalla parte degli investimenti le imprese, proprio a causa della deflazione, non collaboravano? Agendo sull’altro termine dello squilibrio, e cioè sul risparmio che contabilmente non è poi altro che il Reddito nazionale al netto dei Consumi privati:
S = Y – C
E proprio ai consumi Renzi si è rivolto con una spregiudicata manovra di elargizione di denaro pubblico, la politica del bonus 80 euro in busta paga inaugurata dalla primavera del 2014 di cui si è vantato in Avanti. Perché l’Italia non si ferma (Feltrinelli, 2017): «l’obiettivo è strategico: rafforzare il ceto medio, difendere la fascia medio-bassa dal rischio di essere risucchiata nella zona povertà. Per la prima volta dopo molto tempo avevo dato una buona notizia agli italiani: i dieci milioni di cittadini di classe media che guadagnano meno di 1500 euro al mese da quel momento avrebbero visto ritornare nelle proprie tasche circa 1000 euro puliti l’anno, 80 euro precisi al mese… La decisione di dare un contributo secco, mensile, sicuro per aiutare il ceto medio è una grande operazione di politica economica. Un fattore di equità sociale, sacrosanta,… costituendo il più grande incremento di stipendio mai ottenuto dal ceto medio italiano». E quelli che criticavano la manovra? Forse rimpiangono «la stagione dei malus, quella in cui la legge di stabilità si faceva alzando le tasse e spremendo i cittadini come limoni. Se c’è una cosa di cui sono orgoglioso è quella di aver portato la sinistra italiana a capire che il principio per il quale “le tasse sono bellissime”, espresso da un galantuomo che fu Ministro dell’Economia ai tempi del governo dell’Unione [era Tommaso Padoa Schioppa], è un principio che può andare bene nei congressi accademici e nei salotti dei signori benestanti, ma se vai da un artigiano o da un operaio e gli dici che le tasse sono bellissime, lo stai provocando».
Ed invero, non appena si è compreso che la politica del “bonus in busta paga” era strutturale, i consumi sono aumentati (sebbene sui bonus si siano scaricati aumenti d’imposte locali e di bollette delle utenze domestiche per approfittare della “bonanza” governativa), così che alla fine del 2015 quella eccedenza di risparmio sull’investimento si è ridotta di un miliardo di euro. Era la svolta tanto attesa e subito è stata euforia: L’ottimismo di Confindustria: 2015 fuga dalla recessione (R., 29.1.2015); L’Italia si sveglia dopo quattro anni (R., 31.3.2015); L’Italia riaccende i motori. Pil +0,3% nei primi tre mesi. Padoan: “Siamo alla svolta” (R. 14.5.2015). Ne sono seguiti quattro trimestri di PIL a segno positivo e con un aumento annuale dello 0,8% trainato dal raddoppio dei consumi privati (dallo 0,2% allo 0,4%) e dagli investimenti passati da -0,6% a +0,1% (L’Istat: “Il Pil italiano è cresciuto dello 0,8% nel 2015”, R., 1.3.2016). Ma da dove Renzi aveva trovato tutto il denaro necessario a pagare il suo bonus? Ma dal deficit spending che le autorità europee gli avevano consentito di far crescere di qualche decimale in più. E perché mai?
Nella normativa del Fiscal Compact è stabilito che sia Bruxelles a fissare quanto disavanzo è consentito annualmente al governo che, se sforasse la cifra pattuita, dovrebbe applicare in automatico la “clausola di salvaguardia” di un aumento dell’IVA a copertura dello sforamento avvenuto (e l’ultimo aumento dell’IVA nel 2013, dal 21 al 22%, era stato concausa della caduta del governo Letta). Ma Renzi è più accorto e alla fine del 2014 intavola un braccio di ferro con le autorità europee per farsi concedere maggiore “flessibilità di bilancio”. E ci riesce, così che il pareggio dei conti pubblici, che avrebbe dovuto scattare nel 2015, viene spostato al 2017 (Padoan: “Pil giù dello 0,3%. Circostanze eccezionali. Pareggio rinviato al 2017”, R. 1.10.2014), mentre il disavanzo per il 2015 viene portato (come già detto nella Cronaca precedente) al 2,9%. E perché Bruxelles è così generosa? Perché Renzi le ha offerto una contropartita che non si può rifiutare: in cambio di quel maggior disavanzo ha garantito la riforma definitiva, sempre evocata ma mai messa in atto per l’opposizione dei sindacati, del mercato del lavoro avendo per obiettivo la cancellazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
E Renzi ci riesce facendosi approvare il Jobs Act (dove “jobs” è l’acronimo dell’impronunciabile Jumpstart Our Business Startups di Barak Obama che, casualmente, vuol dire anche “lavori”, così che l’“Atto dei Lavori” sostituisce l’ormai obsoleto Statuto dei Lavoratori, figlio del’“autunno caldo” del 1969, e vorrà pur dire qualcosa che invece di “lavoratori” adesso si parli di “lavori”!). Così quando La Ue avverte l’Italia: pronti alla procedura (R., 10.11.2014), Renzi promette: «Palazzo Chigi tira dritto sul Jobs Act e stila un calendario serrato: concludere entro dicembre, varare i decreti attuativi sui quali sono già al lavoro i tecnici e avere regole certe a partire dal 1° gennaio del 2015». Al baratto il Commissario europeo Claude Juncker acconsente, pur minacciando “Conseguenze spiacevoli se non fate le riforme” (R., 11.12.2014), e perfino «Berlino corregge il tiro: “Rispetto per le vostre riforme”» (Eurogruppo all’Italia: “Maggiori sforzi”. Padoan: “Non ci chiede manovre aggiuntive”, R., 9.12.2014). Così il 2015 si può inaugurare con l’euforico titolo giornalistico: Deficit, missione a Roma di Bce e Commissione Ue. Niente manovra a marzo. Pressing sull’Italia: attuare Jobs Act e liberalizzazioni. Se ritardano via a procedure per squilibri macroeconomici (R., 27.1.2015). E si procede in quell’anno ad abolire il famigerato art. 18.
4. In Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra (PaperFIRST, 2019) Chiara Geloni ha malevolmente narrato, anno per anno, come Matteo Renzi abbia lavorato per affossare la “ditta piddina” di Bersani & Co. Eppure a lui va riconosciuto di non avere mai nascosto le proprie intenzioni e di essersi abilmente infilato nelle diatribe interne di partito per trascinare sulle sue posizioni anche la minoranza, che non gli ha mai fatto mancare il voto di sostegno alle sue decisioni. Le quali, ridotte all’osso, sono state soprattutto due, come notificato alla dissidenza a marzo 2015: «non dovete rompermi le palle né sull’Italicum né sull’art. 18 perché quelle riforme io le faccio». Ed infatti le ha fatte, ma mentre la seconda gli è riuscita benissimo (aveva contro un maldestro sindacato CGIL di cui si dirà), sulla prima si è rotto le corna trovando l’opposizione dei ben più resistenti (è proprio il caso di dire) partigiani dell’ANPI. Ma mentre la partita sull’Italicum e quant’altro si è giocata nel 2016 (e quindi la discuteremo nella Cronaca successiva), il Jobs Act (che d’ora in poi, in odio agli anglicismi, chiameremo il “Giobatta”) doveva essere guadagnato nel 2015 a pagamento di quel maggior disavanzo pubblico, concesso da Bruxelles, che gli aveva permesso i suoi miracolosi “bonus in busta paga”.
Si è già detto come la riforma del mercato del lavoro, annunciata all’inizio del 2014 con la deregulation nella stipula dei contratti a tempo indeterminato del “decreto Poletti”, avesse per obiettivo la soppressione di quell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che regolamentava il licenziamento “senza giusta causa” imponendo il reintegro del licenziato sul suo posto di lavoro. Col Giobatta al posto del reintegro si offre al lavoratore rimosso ingiustamente appena qualche mensilità di stipendio in più: ti licenzio senza spiegazione, ma ti pago ad abundantiam e che cerchi ancora? Resta però la contrarietà interna “piddina” che va piegata e alla Leopolda dell’ottobre 2014 (per Chiara Geloni la Leopolda è stato «il luogo in cui Renzi celebra se stesso e, galvanizzato dalla sua tifoseria, rivela il suo volto più autentico»), proprio mentre in simultanea scorre a Firenze una manifestazione di piazza della CGIL con la segretaria Camusso che evoca lo sciopero generale, lui «si lancia in un comiziaccio senza rispetto per nessun interlocutore né per il suo stesso ruolo. Chi difende l’art. 18, dice, è come chi cerca nell’iPhone il buco per mettere il gettone». Lo ammonisce subito, preoccupato, Piero Ignazi perchè «sul Jobs Act la prova di forza con il sindacato può portare il PD a perdere la sua ragion d’essere, cioè quella di un partito pro-labour… Per giochi interni e per conquistare praterie elettorali a Destra senza più interpreti, Renzi si muove su un terreno minato. Lo sfondamento a Destra può anche riuscire ma con il rischio di snaturare il partito e di perdere consensi – verso l’astensione – a Sinistra». E la conferma arriva subito alle elezioni amministrative dell’Emilia “rossa” nel novembre 2014 che il PD vince con il 49,05% dei voti, ma con un’affluenza di votanti del 37,71%: «stiamo assistendo alla secessione di un elettorato di Sinistra da un partito di Centro» – sarà l’amaro commento di Carlo Galli, politologo e deputato “piddino” eletto a Bologna.
Ma Renzi non se ne dà (non se ne può dare) per inteso e gli va bene se arriva a far passare il Giobatta dapprima dentro il partito «a maggioranza schiacciante. Votano contro Bersani, D’Alema e Cuperlo, si astiene Speranza. “Li ho spianati”, confida Renzi a Maria Teresa Meli del “Corriere”» e poi anche alla Camera, a novembre 2014, con 316 voti favorevoli, compreso Bersani che questa volta vota sì in parte «per convinzione» in parte «per disciplina». Però al Senato i numeri sono più incerti e allora Renzi blinda il Giobatta imponendo il voto di fiducia. Ma si può far cadere un governo “piddino” per un Giobatta? Certo che no, e così il 3 dicembre 2014 votano a favore in 165, 111 sono i contrari e due gli astenuti e Renzi può esultare su twitter: «#Jobsact diventa legge. L’Italia cambia davvero. Questa è #lavoltabuona».
C’è però ancora l’inossidabile ostilità del sindacato CGIL che entro il giugno 2016 raccoglie addirittura 3,3 milioni di firme (ne sarebbero bastate 500.000) per indire il referendum abrogativo di quel dispositivo del Giobatta che ha cancellato l’art. 18. Però qui il sindacato esagera perché intende approfittarne per estendere col quesito referendario il ripristinando articolo anche «alle imprese sopra i 5 addetti» (e non sopra i 15, come nel testo originale). Ma in punta di diritto non si può modificare una norma che s’intende ripristinare, così che quando a gennaio 2017 il quesito va all’esame di legittimità della Corte Costituzionale, l’Avvocatura di Stato in rappresentanza del governo Gentiloni (nel frattempo subentrato a Renzi) eccepisce che così fatto quel referendum non è più abrogativo, bensì «propositivo e manipolativo» (Jobs Act, il governo alla Consulta: “Articolo 18, No al referendum CGIL”, “Il Manifesto”, 5.1.2017). Di conseguenza la Corte Costituzionale non può che rigettare il referendum sindacale in quanto «inammissibile» e inutile resta la protesta della segretaria della CGIL, Susanna Camusso per cui sarebbe stata «una scelta politica» (Jobs act, Consulta boccia referendum su art. 18, R.,11.1.2017), quando invece si trattava di una decisione giuridica. Così il Giobatta ne esce salvo, ma leggo adesso (R., 20.8.2019) che la CGIL ha presentato ricorso presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea per violazione della «tutela contro i licenziamenti illegittimi stabilita dagli articoli 20 e 30 della Carta dei diritti fondamentali della UE». Sperando che il testo del ricorso questa volta sia scritto alla giusta…