Le cronache del nostro scontento. 2013: Il bis di “re Giorgio” e quell’austerità “che fa male”
di Giorgio Gattei
1. Le elezioni politiche del 2013 non hanno fatto vincere il PD che, pur risultando il primo partito, per formare un nuovo governo in sostituzione di quello dimissionario di Mario Monti si dovrebbe accordare col PdL oppure col Movimento5Stelle. Ma con quale dei due? E’ una situazione inedita che Jim O’Neill della Goldman Sachs si azzarda ad interpretare a pro’ del “partito” di Grillo, il che potrebbe anche essere «l’inizio di qualcosa di nuovo» (R., 2.3.2013). Però, a gelar subito l’entusiasmo, provvede Mediobanca in un rapporto ai suoi investitori, dal titolo esemplare La tempesta perfetta, invitandoli a non trasformare «la commedia all’italiana in una tragedia greca». Forse è meglio stare alla finestra in attesa che se la sbrogliasse il Capo dello Stato, dando una probabilità del 15% all’accordo PD-M5S, del 10% al ritorno alle urne e del 70% all’alleanza PD-PdL (R., 27.2.2013).
Contemporaneamente va in scadenza il settennato di Giorgio Napolitano e si apre un vuoto di presenza al Quirinale. Si decide che dapprima si sostituisca il Presidente della Repubblica e poi sia lui a indicare il successore di Monti, il cui governo nel frattempo viene congelato. Però non è una cosa facile far salire al Colle il candidato prescelto dal PD se il primo, Franco Marini, viene “impallinato” il 18 aprile al primo scrutinio dal suo stesso partito. Una convergenza d’intenti sembra ritrovarsi sul nome di Romano Prodi, che viene accolto la mattina del 19 aprile con una ovazione dai grandi elettori di centrosinistra riuniti al teatro Capranica; ma è una falsa unanimità che si scioglie come neve al sole al pomeriggio in Parlamento perché a Prodi arrivano soltanto 395 voti rispetto ai 504 necessari, e siccome PD+Sel ne contavano insieme 496, ci sono stati almeno 101 elettori (come i celebri cani dalmata del cartone animato) che hanno defezionato – e Prodi a commento: «secondo me di più perché qualche voto dall’esterno io l’ho avuto» (in A. Friedman, Ammazziamo il gattopardo, Milano, 2014).
Eppure le sorprese di quella straordinaria giornata non sono ancora finite perché a sera un indispettito Pier Luigi Bersani avanza l’idea, inedita in tutta la storia repubblicana, di rioffrire l’incarico al presidente uscente Napolitano. Torna così in pista “re Giorgio”, che ancora il 14 marzo in una intervista alla “Stampa” aveva assicurato che «non mi convinceranno a restare»; ma quando gli viene riproposto di non traslocare dal Quirinale, non se la sente di dire di no. E la sua rinomina avviene al primo colpo il giorno dopo, confluendo su di lui le 738 preferenze di PD, PdL, Scelta civica e Lega Nord. Soltanto Beppe Grillo avverte un qualche odore di colpo di Stato, ma è piuttosto una puzza d’inciucio che condurrà quattro giorni a far designare a “re Giorgio”, quale nuovo presidente del Consiglio, Enrico Letta, che è il nipote del più noto Gianni Letta factotum di Berlusconi. Siamo alla riconciliazione di Napolitano con Silvio? Non sappiamo, ma resta il fatto che Berlusconi, defenestrato nel 2011, torna in pista nel 2013 per dare il suo fattivo sostegno ad un altro “governo tecnico” di nomina presidenziale. Un governo che, a detta di Alan Friedman, «per la maggior parte del 2013 avrebbe combinato ben poco di sostanziale, pochissimo, e alla fine non sarebbe stato per niente il governo di Enrico Letta: sarebbe stato per tutto l’anno 2013 il governo del presidente della Repubblica». Errata corrige: il governo del ri-presidente della Repubblica.
2. Ma tutte queste erano quisquiglie davanti al fatto capitale del 2013 che avrebbe potuto passare alla storia come l’anno in cui l’austerità cosiddetta “espansionistica” era stata confutata, anche se lo fu soltanto teoricamente perché nei fatti nulla doveva purtroppo cambiare.
A smentire l’idea anti-keynesiana presentata da Alberto Alesina nel 2010 alla riunione Ecofin di Madrid, secondo cui a ridurre i disavanzi pubblici si guadagnerebbe una maggior crescita economica (ne abbiamo detto nella precedente Cronaca del nostro scontento), è bastata la verifica dello studio econometrico, pretenziosamente intitolato Grandi cambiamenti nella politica fiscale: le tasse invece della spesa (2009), dal quale Alesina, insieme a Silvia Ardagna, aveva tratto quel suo convincimento. Sono due ricercatori del Roosevelt Institute a scrivere Il boom, e non la crisi, è il momento giusto per l’austerità (2010) in cui, spulciando i dati statistici presentati, si accorgono che solo in 26 casi sui 107 considerati dal 1970 al 2007 all’austerità di bilancio ha fatto seguito l’espansione, e comunque mai nel pieno di una recessione. La validità del “teorema” di Alesina si presenterebbe quindi piuttosto limitata, ma il suo autore non se ne dà per inteso replicando (in Aggiustamenti fiscali: che ne sappiamo e che stiamo facendo?, 2010) che, siccome a suo parere l’economia dell’Eurozona è al momento in ripresa, addirittura ad una velocità superiore a quella americana (sic!), non sarebbe proprio questo il momento buono perché le autorità monetarie europee adottassero la sua “ricetta” di contenimento “espansionistico” dei disavanzi pubblici?
Però il Fondo Monetario Internazionale (d’ora in poi FMI) non ne è convinto e per vederci chiaro commissiona una propria indagine dal titolo intrigante: Farà male? Effetti macroeconomici dei consolidamenti fiscali (2010) per valutarne il “costo” sul reddito nazionale, dando per scontato che le politiche di rigore non lo incentivino affatto. E sulla base della evidenza storica dal 1980 al 2009 ne deduce che ad una riduzione fiscale dell’1% (ΔD) è seguita, nella media dei due anni dopo, un calo del PIL (ΔY) dello 0,5%, parzialmente mitigato dalla diminuzione del tasso d’interesse per favorire gli investimenti e dalla svalutazione del cambio per sostenere le esportazioni. Il moltiplicatore fiscale (ossia il rapporto m = ΔD/ΔY) è stato quindi dello 0,5% ad indicare che si perde mezzo euro di PIL per ogni euro di deficit in meno e questo viene considerato, se confermato anche per le manovre d’austerità a venire, come un buon prezzo da pagare a fronte del risanamento dei conti pubblici.
E’ questa certezza econometrica che ha indotto le autorità monetaria della zona Euro ad imporre dal 2010 politiche di rigore che, se non proprio espansionistiche, avrebbero comunque provocato danni limitati alla crescita economica. Alla fine del 2012 se ne tirano le prime somme, che però risultano disastrose dovendosi ammettere che Così l’austerity ha depresso il Pil: metà della crisi dovuta alle manovre (R., 19.1.2013), che Il Pil crolla in Europa, mai così dal 2009, frena anche la locomotiva tedesca (R., 15.2.2013). Evidentemente nella “teoria” c’è stato qualcosa che non è andato per il verso giusto, ma che cosa? Proprio quel “moltiplicatore fiscale” sulla cui base si era convenuto di “consolidare” i bilanci pubblici, che alla verifica ex post è risultato essere stato troppo sottostimato. Lo confessa candidamente il capo-economista del FMI Olivier Blanchard in un rapporto, scritto con Daniel Leigh, dal titolo rivelatore Errori di previsione di crescita e moltiplicatori fiscali (2013): al posto dello 0,5% previsto, negli anni 2010-2011 quel moltiplicatore ha gravitato «attorno all’1%» e con punte fino anche all’1,9%. Hai detto niente? “La Repubblica” intitola preoccupata che allora Addio ripresa, ecco il costo dell’austerità: ogni euro di sacrifici, fino a due in meno di PIL (R., 23.2.2013), ma nel commento si giustifica quel fallimento per la mancata adozione delle contromisure necessarie: nell’Euro-zona sono mancati sia il taglio del tasso d’interesse, ormai così basso da «impedire di compensare con il credito il rincaro delle tasse», che la svalutazione dell’euro, «impraticabile se tutti i maggiori partner commerciali, cioè gli altri paesi europei, tirano contemporaneamente la cinghia. L’austerità, tutti insieme, non funziona».
In verità a fare cilecca è stato proprio il moltiplicatore fiscale, come peraltro il FMI sapeva benissimo se nel 2012, nell’assegnare il canonico valore dello 0,5% al moltiplicatore fiscale della Grecia (sic!), in nota aveva avvertito che «qualora i moltiplicatori fiscali fossero più alti, il risultato più probabile sarebbe stata una recessione più profonda e una traiettoria del debito più alta» (cfr. A. Bagnai, L’IFM e il moltiplicatore della Grecia, “Goofynomics”, 1.4.2015). Ma tant’è: il meaculpa del FMI era stato neutralizzato dal suo stesso capo-economista che in conclusione del rapporto aveva scritto che «non c’è un singolo moltiplicatore valido per tutti i tempi e per tutti i paesi» e che comunque le nuove risultanze statistiche non implicavano «che i consolidamenti fiscali siano indesiderabili». Così tranquillizzata, la BCE ha potuto confermare, nel “Bollettino mensile” del dicembre 2012, che il moltiplicatore fiscale europeo era «allo 0,4% e poteva salire a 0,5-0,7% in periodi di crisi», e quindi perfettamente in linea con le previsioni che avevano motivato le manovre d’austerità imposte all’Euro-zona dal 2010 in poi.
3. C’era però un altro punto da verificare, e cioè l’effetto delle politiche di rigore sul rapporto Debito pubblico/PIL che è diverso dal rapporto Disavanzo pubblico/PIL, anche se spesso li si confonde, essendo il primo un rapporto “di fondo” e il secondo un rapporto “di flusso”. Alcuni ricercatori (Austerità “di successo” in Stati Uniti, Europa e Giappone, 2012) avevano riconosciuto che consolidamenti fiscali attuati nel mezzo di una recessione potevano anche «ritardare la riduzione del rapporto Debito/PIL» per il semplice motivo che in recessione il PIL finisce per calare. Ma siccome cala anche il debito pubblico, quale ne sarebbe stato l’effetto combinato? La spiegazione più intelligente l’ha data Domenico Mario Nuti (Effetti perversi del consolidamento fiscale, “Sbilanciamoci”, 11.10.2013, che chissà mai quanti hanno letto!) collegando il calo del debito rispetto al PIL (x = dD/Y) al “moltiplicatore fiscale” riferito al debito stesso (m = dY/dD), ma pure al “grado d’indebitamento” dato dalla incidenza del debito esistente sul PIL (d = D/Y). Dopo di che, con un trattamento algebrico adeguato, ne ha tratto la regoletta che il rapporto D/PIL può diminuire soltanto se il moltiplicatore fiscale è minore dell’inverso del grado d’indebitamento; se invece è maggiore, il rapporto D/PIL finisce invece per aumentare, vanificando ogni sforzo d’austerità fatto per ridurlo. Insomma, «il consolidamento fiscale funziona solamente in quei paesi che, avendo un rapporto D/PIL sufficientemente basso al moltiplicatore vigente, non hanno realmente bisogno di un consolidamento».
Applicato al caso italiano, ne conseguiva l’effetto paradossale che, essendo il grado d’indebitamento nel 2012 al 126,1% del PIL con suo inverso allo 0,79%, un valore più alto del nostro moltiplicatore fiscale, mediamente compreso tra lo 0,9% e l’1,7%, non poteva che far aumentare il rapporto D/PIL, come doveva malauguratamente provare il governo Monti che, nonostante tutto il furore d’austerità, se l’è visto crescere fino al 128,1% d’inizio 2013 e che «ridiscenderà dal 2014 se si concretizzerà l’agognata ripresa» (R., 23.2.2013). Ma Monti non era stato mandato al governo per sostituire un Berlusconi “dalle mani bucate”? Sì, però adesso si scopriva che pure lui aveva avuto le “mani bucate”, e questo perché nessuno può sfuggire alle dure “leggi” della scienza economica.
Tuttavia le disgrazie della “teoria” dell’austerità cosiddetta “espansionistica” non erano ancora finite e dovevano toccare il picco con lo “sputtanamento” (come è proprio il caso di dire) del suo scritto più celebrato, quella Crescita in un tempo di debito (2010) di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff di cui sìè detto nella Cronaca precedente. I due celebri autori (Rogoff era in odore di premio Nobel) avevano dimostrato, con dovizia di evidenze statistiche, che a superare il 90% del rapporto Debito/PIL la crescita del reddito poteva rallentare anche di quattro punti percentuali, così che quella soglia finiva per rappresentare il limite della «intolleranza debitoria» che, se superato, andava riguadagnato ad ogni costo. Quel limite era stato ufficialmente adottato da Olli Rehn, vicepresidente della Commissione Europea, in una lettera del febbraio 2013 ai ministri Ecofin: «è largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90% tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia che si traduce in bassa crescita per molti anni». Però sul momento i due autori avevano mancato di rendere disponibili i dati da cui avevano dedotto quella soglia e, quando malauguratamente lo fanno, al giovane ricercatore Thomas Herndon, che ha rifatto i calcoli, i conti non tornano più semplicemente perché Reinhart e Rogoff non hanno considerato tutti i casi disponibili, eliminando quelli contrari. Così, a conti rifatti, non c’è più alcuna soglia al 90% se paesi con un rapporto Debito/PIL superiore sono potuti crescere addirittura del 2,2% (T. Herndon, M. Ash, R. Pollin, Un alto debito pubblico soffoca la crescita economica? Una critica di Reinhart e Rogoff, 2013).
Sembrava fatta. E sui giornali si è inneggiato al Ragazzo che ha smentito Harvard salvando il mondo dall’austerità (R., 9.4.2013), convinti che ormai Dottrina del rigore addio:“il debito sopra al 90% non genera recessione”. Sconfessati i calcoli di Reinhart e Rogoff (R., 18.4.2013) e che, sia pure in sottotitolo, Gli economisti pro-tagli ormai sono al ko tecnico (R., 27.4.2013). Ma con i sostenitori delle politiche del rigore non si ha a che fare con individui razionali che, se presi in castagna, ammettono i propri errori, bensì con “uomini di fede” per i quali valgono i propri convincimenti anche a dispetto di qualsiasi prova contraria. Così i due colpevoli di manipolazione statistica se la sono cavata ammettendo soltanto «piccoli errori di valutazione» e che comunque quella soglia del 90%, anche se non esistente, poteva servire come indicazione opportuna di buon governo. Eppure le autorità monetarie europee, che nel Fiscal Compact una soglia l’avevano introdotta addirittura al 60% secondo la folle indicazione dell’originario Trattato di Maastricht, hanno voluto scaricare Reinhart e Rogoff assicurando che loro non prendono le decisioni sulla base delle teorie di qualche economista («pensarlo è stupido e ridicolo»), perché «noi andiamo sul campo e scambiamo informazioni con le autorità; poi realizziamo le analisi e individuiamo le misure adatte» (R., 19.4.2013), come avevano fatto per imporre ai paesi dell’Euro-zona la riduzione ad oltranza del loro indebitamento “sovrano”.
Ma non c’era modo di fargli cambiare idea? Ci ha provato per ultimo, nel giugno 2013 e sulla “New York Review of the Books”, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman con una recensione-saggio che avrebbe dovuto “affondare” definitivamente sia Rogoff che Alesina. L’articolo Come è crollato il caso dell’austerità prendeva lo spunto da tre libri che rifacevano la storia critica di quella «infausta idea» che si era imposta dopo il salvataggio statale del sistema finanziario privato, quando aveva rischiato di essere travolto dalla Grande crisi dei mutui subprime (2008-2009). Però nel 2010 c’era chi aveva già considerato superata l’emergenza, così da poter proporre impunemente il passaggio «dallo stimolo alla austerità» con una svolta di politica economica che aveva condotto i paesi dell’Euro-zona a subire una riduzione del PIL «più o meno proporzionale al grado di austerità introdotta». Però la responsabilità non spettava soltanto ai governanti, perché anche gli “economisti del rigore” avevano dato una mano avallando, con le loro presunte dimostrazioni statistiche, quelle politiche economiche suicide. Lo scritto di Reinhart e Rogoff si era rovinato da solo non appena, alla prima verifica disinteressata, si era dimostrato addirittura manipolato, ma Krugman ce l’aveva soprattutto con Alesina e Ardagna (ma erano citati anche Guido Tabellini e Roberto Perotti) che Mark Blyth, in uno dei tre libri recensiti, aveva battezzato «i Bocconi boys» perché docenti della Università Bocconi di Milano. Alesina era stato quello che più di tutti si era dato da fare per divulgare il nuovo “verbo” economico che per la crescita servivano più tasse «invece della spesa». Eppure, nonostante le conseguenze concrete contrarie, quella idea malsana continuava a governare le politiche economiche europee. Perché mai? Per due possibili ragioni, a detta di Krugman: per il pregiudizio moralistico (niente affatto scientifico) che chi s’indebita è comunque colpevole (in tedesco Schuld vuol dire sia debito che colpa), ma anche perché s’intendevano cavalcare gli interessi dei creditori che i soldi, anche se incautamente prestati, li rivolevano indietro senza che i debitori accampassero scuse. Che poi nell’Eurozona a credito ci fosse la Germania e a debito i “paesi maiali” (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) era il dato di fatto geografico che spiegava il posizionamento politico degli “economisti del rigore” dalla parte del Quarto Reich.
Ciò che però più aveva dato fastidio, di Krugman, era stato quel riferimento polemico ai «Bocconi boys», sicché Guido Tabellini, già rettore dell’ateneo milanese, ha pensato bene di correre ai ripari per confutarlo. Facendo finta che non fosse mai stato della partita (ma un suo articolo anticipatore con Alesina lo inchioda: Una teoria positiva di disavanzi pubblici e debito sovrano in una democrazia, 1990) ha rimproverato Krugman di «far riferimento a due economisti illustri, ma nessuno dei due oggi ha incarichi nel nostro ateneo. Ci sono docenti nella nostra università che la pensano in modo diverso. Non si può attribuire al lavoro di due studiosi il pensiero di un intero ateneo. D’altro canto, se posso permettermi, non credo che nemmeno Alesina e Ardagna abbiano difeso la linea dell’austerità fiscale per il nostro paese nel contesto attuale» (“L’Huffington Post”, 20.5.2013). Il che era vero perché sullo stesso giornale Alesina aveva preso le distanze dall’austerità fallimentare del governo Monti perché «c’è austerità e austerità» e la sua avrebbe richiesto più tagli alla spesa pubblica e non più tasse «e io ho largamente criticato il governo Monti per avere aumentate le imposte». Ma, di grazia, il suo scritto con Ardagna non aveva per titolo proprio «le tasse invece della spesa»?
4. Come che sia, non è che il governo Letta riesca poi a fare diversamente dal governo Monti. E’ vero che a metà giugno promulga un Decreto del Fare che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto stimolare la crescita, ma dentro, secondo Alan Friedman, c’è «tanto fumo e poco arrosto». Dovendosi neutralizzare l’aumento automatico dell’IVA (la “clausola di salvaguardia” che scatta qualora non si rispetti la percentuale di disavanzo concordata con Bruxelles) servono ancora tagli di spese e aumenti d’imposte in aggiunta a quelli conseguenti alle cinque (sic!) manovre fiscali introdotte dai precedenti governi Berlusconi e Monti che, da sole, ipotecano una ricaduta negativa sul PIL, per il triennio 2012-2014, di 120 miliardi di euro (Così l’austerità ha depresso il PIL, metà della crisi dovuta alle manovre, R., 19.1.2013). La conseguenza è che L’Italia è sempre più in recessione, settimo trimestre a motori spenti, PIL giù del 2,3%, salta l’obiettivo del governo, R., 16.5.2013) e poi incombe il vincolo europeo del disavanzo al 3% del PIL che Letta aveva assicurato che non avrebbe «sforato mai e poi mai», ma non appena si azzarda a proporre il 3,1%, Bruxelles lo azzanna: «un deficit del 3,1% è diverso da uno al 3%» (R., 20.9.2013).
Per questo la legge di stabilità per il 2014 può essere appena, secondo Friedman, una «politica delle briciole» con «pochi interventi davvero utili a spingere la domanda interna, a far girare il denaro in una economia disseccata e stagnante». Eppure “re Giorgio” ha continuato a puntellare quel suo “governicchio” che si è barcamenato con l’aumento dell’IVA e la non-cancellazione dell’IMU pur di mostrare austerità. A Natale Letta sembra ancora «fiducioso di mangiare il panettone anche nel 2014. Ma è questa una strana metafora per chi vuol giudicare l’operato complessivo di questo governo voluto dal Quirinale, sostenuto, salvato e blindato dal Quirinale, un governo che non ha fatto praticamente nulla». Così quando Friedman chiede a Carlo De Benedetti un giudizio sullo stato di salute dell’economia italiana, gli arriva la sconsolata risposta che «l’Italia è un corpo su un pezzo di legno inclinato e ben insaponato, per cui scivola… e non ha le unghie per riuscire a fermare la sua caduta. Sul piano economico io ho sempre pensato che il 2013 sarebbe stato peggio del 2012. Penso che il 2014 sarà peggio del 2013». E invece no, perché qualcosa succede. Nel terzo trimestre Il Pil rallenta la caduta: di poco sotto lo zero (R., 15,11.2013) e poi nel quarto trimestre l’Italia guadagna il non invidiabile primato di una crescita del PIL allo 0,0%! Insomma, siamo fermi, però almeno non si cade più!