L’anomalia di un pianeta che cresce. Cronache marXZiane n. 5
di Giorgio Gattei
1. Come ho raccontato nelle precedenti Cronache marXZiane, sono stato rapito nel 1968 dalla astronave “la Grundrisse” che mi ha trascinato sul pianeta Marx dove ho dimorato per parecchi anni studiandone la complessa composizione geologico-economica, che è fatta di prezzi di mercato (la “crosta”), di prezzi di produzione (il “mantello”) e di un “nucleo” di neovalore-lavoro che è poi la sua eccezionalità. Infine sono andato ad intervistare Saggio Massimo (del profitto) che mi ha parlato di sé e degli altri due Saggi (del pluslavoro e del profitto) che coabitano con lui sul pianeta, ma di cui lui resta il più importante tanto che lo chiamano, non a caso, Saggio Massimo. Al mio ritorno sulla terra non sono però rimasto convinto di quanto mi aveva detto a proposito della sua impossibilità di caduta tendenziale per la propria formulazione algebrica:
max r = R = m / q
dove alla crescita della Composizione del capitale rispetto al lavoro (q = K/L) per la logica necessaria dell’accumulazione del Pluslavoro/Profitto realizzato si oppone un andamento altrettanto a crescere della Produttività del lavoro (m = Y/L: il reddito rispetto al lavoro), essendo di fatto quel pianeta non solo un luogo di detenzione lavorativa, ma pure un posto di creatività ed innovazione che fa sì che il lavoro sia sempre più produttivo. Eppure non ne sono rimasto persuaso perché mi frullavano per il capo due frammenti di pensiero del primo grande “mappatore” del pianeta, quel Karl Marx che poi gli ha dato il nome, secondo cui la possibilità di compensare un andamento con l’altro «ha dei limiti insuperabili: la caduta del saggio profitto può essere ostacolata, ma non annullata» e poi anche che «il vero limite del pianeta è il pianeta stesso», insinuando che doveva esserci anche dell’altro oltre alla indeterminazione di cui si faceva forte Saggio Massimo.
Ed invero dell’altro c’era, eccome, perché la logica economica del pianeta non si esaurisce nella estorsione di Pluslavoro dalla manodopera salariata (Sfruttamento), poi nella sua conversione in Plusvalore monetario (Realizzazione) ed infine nella Trasformazione del Plusvalore in Profitto (Ripartizione), perché poi di questo Profitto poi che si fa? Non lo si consuma integralmente, come era stata invece logica di antichi regimi, ma lo si risparmia (almeno in parte) per reinvestirlo in ulteriore manodopera salariata per dar luogo a maggior Pluslavoro/Profitto. E’ questo il processo di accumulazione del denaro che Marx aveva subito colto nella sua osservazione: «proprio allo stesso modo che i corpi celesti, una volta gettati in un certo movimento, lo ripetono costantemente, anche la produzione sociale, una volta gettata in quel movimento, lo ripete costantemente. Effetti diventano a loro volta cause, e le alterne vicende di tutto il processo, che riproduce costantemente le proprie condizioni, assume la forma della periodicità». Tuttavia, a differenza dei corpi celesti, questo pianeta possedeva una marcia in più in questo suo movimento di ripetizione circolare, dato che che ad ogni accumulazione cresceva di dimensione, si faceva letteralmente più grosso di valore, così che quel movimento non era affatto un semplice rimanere al “sempre uguale”, bensì il passaggio ad un “diverso” almeno quantitativo che gli attribuiva l’andamento caratteristico di «una spirale. E’ sempre la vecchia storia: Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, e così via», (I, p. 637), dove il denaro finale di ogni accumulazione diventava il punto di partenza dell’accumulazione successiva, così che la ripetizione finiva per fondarsi su se stessa senza più bisogno di un innesco iniziale monetario (quel credito d’avvio che sarebbe stato necessario per la prima accumulazione). Adesso è la stessa accumulazione del Pluslavoro/Profitto che lo spinge in avanti, così che la formula della valorizzazione capitalistica, che solitamente si dà nella forma semplificata di Denaro-Merce-Più-Denaro (D-M-D’), si deve allungare nella successione: D-M-D’-M’-D”-M”-D”’… e così via seguitandoin aumento. Diventa perciò necessario un indice di misura dell’incremento di valore guadagnato ad ogni accumulazione quale può essere un Saggio di Crescita distinto da Saggio di Pluslavoro e da Saggio di Profitto, ma di cui Saggio Massimo non mi aveva affatto parlato nel colloquio che avevo avuto con lui.
2. Il saggio di crescita si determina come:
g = (D’ – D) / D = ΔD / D
e la ricerca delle sue componenti, posta l’identificazione del Denaro d’avvio con il Reddito di ieri (D = Y) e l’incremento di denaro con l’incremento del Reddito di oggi (ΔD = ΔY), è stata opera soprattutto dell’Osservatorio astronomico di Cambridge (UK), tanto che “formula di Cambridge” è diventato il nome condiviso della sua formulazione algebrica. Sia dunque valido in aggregato e a prezzi di produzione dati (ma per capirci immediatamente si potrebbe immaginare il caso della produzione di una merce sola con sé stessa: grano a mezzo di grano) che il Reddito netto sia il Reddito di ieri Y al netto del capitale impiegato K:
Y = (X – K)
che al netto dei Salar pagati W, fissa l’ammontare del Profitto guadagnato dai capitalisti:
P = (Y – W)
e che di questo Profitto la percentuale s (detta “propensione al risparmio dei capitalisti”) sia portata a Risparmio
S = sP
che, se integralmente investita in più capitale:
S = ΔK
darà luogo ad un maggior reddito:
ΔY = vΔK
secondo il rapporto Reddito/Capitale (v = Y/K) valido per la tecnica produttiva in uso. Raccogliendo il tutto:
g = ΔY / Y = v ΔK / Y = ΔK / K = sP / K = s r
che mostra come il Saggio di crescita sia determinato dalla Propensione al risparmio (la “voglia” d’investire dei capitalisti) per il Saggio del profitto (l’efficienza di guadagno), che se poi i capitalisti decidessero d’investire tutto il profitto risparmiato (s = 1), allora si manifesterebbe quella «regola aurea” dell’accumulazione di cui ha detto un tal Richard Goodwin in due rapinose paginette del 1972 per cui:
g = r = P / K
a segnalare che il Saggio del profitto sarebbe la misura esatta del Saggio di crescita, mentre il consumo dei capitalisti ne andrebbe a danno, così che «tutte le economie capitalistiche sono inefficienti in questo senso, in quanto i capitalisti consumano effettivamente una parte dei profitti».
Ma se pur si azzera il consumo dei capitalisti, non resa il consumo dei lavoratori e cosa succederebbe al Saggio di crescita se anche questo venisse azzerato? Vale qui l’ipotesi estrema, suggerita da Marx e ripresa da Sraffa, di salariati che «potessero vivere semplicemente di aria e di conseguenza non dovessero produrre assolutamente nulla per se stessi» (Marx), così che allora nascerebbe «l’idea del massimo saggio del profitto in corrispondenza di un salario zero» (Sraffa) esattamente coincidente con un saggio massimo di crescita:
max r = R = Y / K = G = max g
Ecco perché Saggio Massimo (del profitto), nel colloquio avuto con lui, non mi aveva parlato di un Saggio Massimo di crescita! Ma perché non era affatto differente da lui (come invece lo sono Saggio di pluslavoro e Saggio di profitto), bensì era lui stesso sebbene sotto un altro aspetto: dal punto di vista della destinazione del Profitto (Accumulazione) invece che da quello della provenienza dallo Sfruttamento). Il fatto è che Saggio Massimo è una variabile economica doppia essendo contemporaneamente sé stesso, ma pure un “altro di sé” (e non da sé, come si potrebbe pensare sbadatamente).
3. Il tema del “doppio” è presente in letteratura fin dall’antichità, ma per Saggio Massimo non tanto nella forma di un “altro da sé” alla maniera del sosia o del gemello, che sono persone simili ma con identità separate e che hanno dato alimento alle cosiddette “commedie degli equivoci”, bensì proprio come “altro di sé”, ossia come una una doppia identità del medesimo soggetto. E’ questo il motivo letterario assolutamente moderno dell’“io diviso” che nell’Ottocento è transitato dal racconto William Wilson (1840) di Edgar Allan Poe allo Strano caso del dottor Jekyill e di mister Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson. Se «penso dunque sono» aveva predicato una tempo Cartesio, io chi sono, gli doveva replicare Arthur Rimbaud nella Lettera del Veggente (1871) se «Io è un altro e tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino»? E questa una identità dell’Altro con Sé stesso così stretta che l’omicidio dell’Altro finisce per essere il suicidio di Sé (in Poe oppure, alla rovescia, in Stevenson): quando William Wilson trafigge l’Altro in duello, nel grande specchio che sta loro di fronte vede trafitto sé stesso e si sentirà dire che «tu hai vinto e io ho perso. Ma d’ora in poi anche tu sarai morto – morto al Mondo, al Cielo e alla Speranza! Tu esistevi in me – e con la mia morte, guarda questa immagine che è la tua, come hai definitivamente ucciso te stesso!».
A ricamare poi sopra l’altro di sé è stato acques Lacan nella sua proposta post-freudiana dello Stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949): l’infante, posto davanti allo specchio, dapprima percepisce la propria immagine come “altro da sé” che cerca invano di afferrare o di avvicinare, ma poi intuisce che si tratta solo di un immagine e infine capisce che quella immagine non è che la sua, è il suo “doppio” e questo “stadio dello specchio” segna la conquista della identità primaria dell’Io che sarà alla base di tutte le “conquiste identitarie” successive inevitabilmente mediate da una immagine (imago) che non è altro se non la “rappresentazione esterna di sé” inizialmente visiva, ma poi anche verbale, pittorica e letteraria fino al culmine novecentesco di quella “rappresentazione di una giornata nella vita di Ognuno” che risulta il tuttora insuperato romanzo Ulysses (1922) di James Joyce.
Sul pianeta Marx chi ha incarnato al meglio il tema del “doppio” è stato proprio Saggio Massimo, che è sia di Profitto che di Crescita. Ma è la crescita che determina il profitto oppure è viceversa? E con quale destino davanti? Adesso mi frullava per il capo una affermazione occasionale sfuggita a Piero Sraffa e che aveva affidata alle sue carte private (e non al libro pubblicato nel 1960) secondo cui «coloro che negano la tendenza alla caduta del saggio del profitto sono ignari della esistenza di un Saggio Massimo del Profitto». Che allora sulla sorte del pianeta incombesse comunque una caduta di Saggio Massimo che avrebbe trascinato con sé anche Saggio Massimo di crescita, a dispetto della sua sicumera di essere a tendenza indeterminata? E non sarebbe il caso di verificare una tal “legge di caduta” relativa a Saggio Massimo ci sia o non ci sia? Per far questo però occorrerebbe andare oltre l’attuale “miseria della astronomia” insegnata negli Osservatori e ritornare ai grandi temi di quella alta teoria (high theory) che poi altro non è se non la “Critica della astronomia politica” introdotta da Karl Marx e proseguita (bisogna pur riconoscerlo) da Piero Sraffa? Oh, Sraffa, io sto arrivando, degli altri non so!