La peste e la sua ombra, da Edgar Allan Poe, Ombra. Una parabola (1835)
a cura di Giorgio Gattei
A. Poe (1809-1849), grande facitore di storie “gotiche”, soffriva di un “disturbo bipolare” alternando momenti di eccezionale euforia a periodi di depressione in cui disfaceva il già fatto. Né gli valeva chiudersi in se stesso, che al male interiore avrebbe così impedito ogni via di uscita. Nemmeno il grembo materno (Poe aveva perso la madre a tre anni e l’avrebbe per sempre rimpianta) poteva essergli di rifugio perché sarebbe stato un precipitare nella voragine di una vagina (dal finale del Manoscritto trovato in una bottiglia: «stiamo precipitando verso qualche eccitante conoscenza – un segreto da-non- rivelare-mai a nessuno il cui conseguimento significa la morte… Ruotavamo vertiginosamente in immensi cerchi concentrici, tutto intorno ai margini di un gigantesco anfiteatro,… che si restringono rapidamente – ci stiamo precipitando a velocità pazzesca nella stretta del vortice… e oh! Dio! …affonda» (ciò che affonda è, naturalmente, una nave).
Perfino una intera comunità poteva essere aggredita dal male, come dal colera che Poe osservò a distanza (era a Baltimora) nel 1832: «durante la spaventosa epidemia di colera che infierì su New York… non passava giorno senza che ci portasse notizia della morte di qualche conoscente… e finimmo così per tremare all’avvicinarsi di qualsiasi messaggero. L’aria stessa del sud ci sembrava recare odore di morte» (La sfinge). Ma quel morbo non proviene mai da un altrove (fu facile ad H. G. Wells immaginarsi nella Guerra dei mondi che scendesse addirittura dal pianeta Marte!) perché esso viene da quaggiù, proprio come la salute. E allora a nulla serve barricarsi in casa che la Maschera della Morte Rossa può procedere inesorabile lungo tutte le sale del palazzo blindato del principe Prospero o qualcosa (che cosa?) può materializzarsi sulla serrata porta di bronzo di un banchetto funebre a Tolemaide.
OMBRA
Voi che mi leggete siete ancora tra i viventi; ma io che scrivo, da molto, da molto tempo sarò partito per la regione delle ombre. Poiché, in verità, succederanno di ben strane cose, molti segreti saran rivelati, molti secoli passeranno prima che queste parole sian vedute dagli uomini. E quando le avranno vedute, gli uni non le crederanno, gli altri dubiteranno, e ben pochi troveranno materia di meditazione nei caratteri che su queste tavolette vo tracciando con uno stile di ferro.
L’anno era stato un anno di terrore, pieno di sentimenti più intensi del terrore, pei quali non c’è un nome sulla terra. Poiché c’erano stati molti prodigi e molti segni, e da tutte le parti, sulla terra e sul mare; le negre ali della Peste s’eran largamente spiegate. Ma quelli ch’eran sapienti nelle stelle non ignoravano che i cieli aveano un aspetto di sventura; e per me, tra gli altri, il greco Oinos, era evidente che stavamo al ricorso di quel settecentonovantaquattresimo anno, in cui, all’entrata in Ariete, il pianeta Giove si trova in congiunzione col rosso anello del terribile Saturno. Lo spirito particolare dei cieli, se non m’inganno di molto, manifestava la sua potenza non soltanto sul globo fisico della terra, ma ben anche sulle anime, sui pensieri, sulle meditazioni dell’umanità.
Una notte, eravamo in sette, in fondo a un nobile palazzo in una triste città chiamata Tolemaide, seduti intorno ad alcune anfore d’un vino rosso di Chio. E la nostra camera non aveva altra entrata che un’alta porta di bronzo; e la porta era stata lavorata dall’artista Corinno, ed era d’una rara perfezione, e si chiudeva per di dentro. Del pari, dei panneggiamenti neri, proteggendo questa camera melanconica, ci risparmiavamo l’aspetto della luna, delle stelle lugubri e delle vie spopolate: – ma il presentimento e il ricordo del flagello non s’erano potuti così facilmente escludere. C’erano, intorno, presso a noi, delle cose di cui non posso render completamente ragione,- delle cose materiali e spirituali, – una pesantezza nell’atmosfera, – una sensazione di soffocamento, d’angoscia, – e, soprattutto quel terribile modo d’esistenza che subiscono le persone nervose, quando i sensi son crudelmente viventi e svegli, e le facoltà dello spirito assopite, intristite. Un peso mortale ci schiacciava. Si stendeva sulle nostre membra, – sul mobilio della sala, – sulle coppe in cui si beveva; e tutte le cose parevano oppresse, prostrate in quell’abbattimento, – tutto, eccetto le fiamme delle sette lampade di ferro che rischiaravano la nostra orgia. Allungandosi in minuti filamenti di luce, rimanevano tutte così, e bruciavano pallide e immobili; e nella rotonda tavola d’ebano, attorno a cui sedevamo, e che il loro chiarore trasformava in specchio, ogni convitato contemplava il pallore della sua propria faccia e il lampo inquieto degli occhi tristi dei suoi compagni.
Nondimeno si mandavan delle risate, ed eravamo allegri a nostro modo, – un modo isterico; e si cantavano le canzoni d’ Anacreonte, – che non son che follia; e si beveva molto, quantunque la porpora del vino ci rammentasse la porpora del sangue. Perché c’era nella camera un ottavo personaggio, il giovane Zoilo.
Morto, lungo disteso e seppellito, egli era là il genio e il demone della scena. Ahimè! Non aveva parte, lui, al nostro divertimento; salvoché la sua faccia, sconvolta dal male, e gli occhi, dove la morte non avea spento che a mezzo il fuoco della peste, sembrava prendere tanto interesse alla nostra gioia quanto posson prendere i morti alla gioia di quelli che devon morire. Ma, benché io, Oinos, mi sentissi addosso, fissi su me, gli occhi del defunto, nondimeno mi sforzai di non comprendere l’amarezza della loro espressione, e, figgendo ostinatamente lo sguardo nelle profondità dello specchio d’ebano, cantai con voce alta e sonora le canzoni del poeta di Teo. Ma grado a grado il mio canto cessò, e gli echi, correndo lontano fra le nere drapperie della camera, divennero fievoli, indistinti, e svanirono. Ed ecco che dal fondo di quelle drapperie nere ove andava a morire il suono della canzone, s’arderse un’ombra, fosca, indefinita, – un’ombra simile a quella d’un corpo di un uomo, quando la luna è bassa nel cielo; ma non era l’ombra né d’un uomo, né di un Dio, né d’alcun altro essere comune. E quasi rabbrividendo, oscillando per un istante fra le drapperie, rimase infine visibile e dritta, sulla superficie della porta di bronzo.
Ma l’ombra era vaga, senza forma, indefinita; non era l’ombra né di un uomo né di un Dio,- né di un Dio di Grecia, né d’un Dio di Caldea, né d’alcun altro Dio egiziano. E l’ombra riposava sulla gran porta di bronzo e sulla cornice scolpita, e non si muoveva, e non pronunciava una parola: ma si fissava sempre più, e restò immobile. E la porta sulla quale l’ombra riposava era, se ben mi ricordo, proprio di contro ai piedi del morto Zoilo. Ma noi, i sette compagni, avendo veduto l’ombra mentre usciva dalle drapperie, non osavamo contemplarla fissamente; ma abbassavamo gli occhi, figgendoli sempre nelle profondità dello specchio d’ebano. E, finalmente, io, Oinos, ardii pronunziare alcune parole a bassa voce, e domandai all’ombra il suo nome e la sua dimora. E l’ombra rispose:
Io sono OMBRA, e la mia dimora è vicina alle catacombe di Tolemaide, e presso quelle cupe lande infernali, dove scorrono le acque impure di Caronte! – E allora, tutti e sette, ci rizzammo inorriditi sui nostri seggi, e restammo così, tremanti, terrorizzati, convulsi; perché il timbro della voce dell’ombra non era quello d’un solo individuo, ma d’una moltitudine d’esseri; e quella voce, variando le sue inflessioni di sillaba in sillaba, veniva a caderci confusamente negli orecchi, imitando gli accenti noti e familiari di mille e mille amici scomparsi!