La battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968): l’alba della contestazione in Italia
di Terry Dalfrano
Il primo marzo, sì, me lo rammento,
saremo stati millecinquecento
e caricava giù la polizia
ma gli studenti la cacciavan via…
(P. Pietrangeli, Valle Giulia)
Il movimento studentesco era partito a Lettere già da settembre del 1967. Si estese rapidamente ad altre facoltà. Il Magnifico Rettore diede un contributo importante al processo di diffusione. Noi si occupava Lettere e lui mandava la polizia. Il giorno dopo si occupava Fisica, e si univano al movimento gli studenti di quella facoltà. Il rettore mandava la polizia e noi si passava a Chimica, e si univano altri studenti. Lui mandava la polizia e noi si passava a Matematica. La storia andò avanti così per qualche mese. E il movimento cresceva a vista d’occhio. Le assemblee erano sempre più numerose. Gli scontri con la polizia sempre più duri. A un certo momento, verso la fine di febbraio, il rettore fece occupare tutta l’università dalle forze dell’ordine, non solo la città universitaria, ma anche le facoltà situate all’esterno della cerchia delle sue mura fasciste, Ingegneria, Magistero, Architettura, Economia.
La sera prima della grande battaglia il comitato d’agitazione, riunito in via dei Frentani in cui aveva sede la Federazione Giovanile Comunista, deliberò che era giunta l’ora di una risposta decisa. La mattina appresso, alle otto, il movimento era schierato sulle gradinate di Trinità dei Monti. Non eravamo moltissimi, quando ci muovemmo, millecinquecento, duemila. Facevamo una gran caciara. Ci incanalammo per via del Ba-buino, verso la facoltà d’Architettura. Pochi si aggiunsero per strada. Si urlava di rabbia e di gioia. Si gridavano slogan contro la polizia, contro il rettore, contro l’imperialismo americano. Credevamo di andare verso il nostro Vietnam. I negozi ab-bassavano le saracinesche. Dalle finestre degli uffici si affac-ciavano gli impiegati. Ci guardavano come fossimo marziani. Fino allora il movimento non era praticamente mai uscito dalla città universitaria e quella prima sortita era un evento già di per sé.
Arrivammo a Valle Giulia che il sole era alto. Architettura, in cima alla sua collina, si stagliava tronfia contro il cielo primaverile, sembrava una fortezza. Quando il corteo cominciò a salire per il viale alberato che portava alla facoltà, le quattro file di poliziotti che la difendevano ebbero un ondeggiamento. Noi giungemmo davanti a loro in pochi minuti e cominciammo a gettargli addosso manciate di monetine da cinque lire. – Servi dei padroni! – gli gridavamo in faccia. Loro ci guardavano con occhi spauriti, anche loro al primo cimento, evidentemente. Che pena! Che rabbia! Il cozzo delle aste delle nostre bandiere sugli scudi dei celerini fu una deflagrazione. La polizia resistette all’urto e reagì immediatamente con una carica feroce. Il movimento sbandò, si arruffò su se stesso e prese a indietreggiare lentamente in un infuriare di corpo a corpo. Il piazzale antistante la facoltà terminava in una scarpata. Giunti sul suo ciglio, quando non fummo più in grado di sostenere l’urto delle schiere grigioverdi ci precipitammo di sotto a valanga. La polizia non ci seguì e tornò sulle sue posizioni a ridosso alla facoltà. Pareva che fosse tutto già finito. Invece era solo l’inizio. – Non è che l’inizio! – gridavamo, e il maggio francese era ancora di là da venire.
Ripreso fiato, salimmo di corsa su per la scarpata e, armati di sassi e di bastoni, ci avventammo di nuovo addosso al nemico. Le bandiere e i cartelli erano stati strappati dalle aste e ormai nessuna finzione si frapponeva tra noi e quelle schiere di proletari asserviti. Ricominciò il contrattacco della polizia e il nostro indietreggiamento. Poi di nuovo giù per la scarpata, poi di nuovo su e ancora all’assalto, con rabbia montante. La vicenda andò avanti per un bel pezzo. Ci saranno stati quattro o cinque nostri assalti, e le rispettive cariche della polizia e le nostre ritirate. Ma sempre tornavamo alla carica, con irruenza crescente, senza dare tregua. Finché la nostra rabbia raggiunse il parossismo.
L’ultima scalata alla collina fu la più impetuosa. E appena iniziato il nuovo assalto assistemmo a uno spettacolo mai visto: i celerini si divisero in due schiere disordinate e presero a fuggire a destra e a sinistra. Noi, con un urlo unisono di trionfo, ci gettammo sulla nostra Bastiglia e la prendemmo. Dopo un po’ le finestre della facoltà cominciarono a colorarsi con gli striscioni, i cartelli, le bandiere rosse e quelle vietnamite e le facce raggianti degli studenti e le camicette di cento colori che ansimavano sui petti gloriosi delle studentesse. I corridoi e gli androni della facoltà si empirono dei nostri canti e di slogan rivoluzionari. Cantavamo la vittoria e pensavamo di aver finito. Non era che l’inizio. I megafoni, su per le scale, chiamavano all’assemblea in aula magna. Molti si avviarono, ma altri restarono di fuori. Era evidente che la battaglia non era finita, che sarebbe arrivata altra polizia e che si doveva pensare a preparare la difesa della facoltà. Però non ci fu tempo per preparare niente. Da tutti i punti cardinali la città ci mandava urli di sirene, dei lunghi ululati che diventavano sempre più acuti e sempre più forti. Nel giro di mezz’ora la valle sotto la collina s’era riempita di poliziotti. Saranno stati un migliaio e più. Si schierarono in pochi minuti. C’era la Celere coi gipponi grigioverdi e i carabinieri coi loro cellulari neri. Allineati e immobili, da lontano sembravano carri armati pronti a sparare.
La loro carica fu una sorpresa. Non ci fu quasi scontro perché non avevamo avuto il tempo di prepararci. Il grosso del movimento stava ancora dentro la facoltà e non s’era accorto di niente. La resistenza disordinata che tentammo noi che eravamo rimasti fuori fu rotta in breve tempo. Quindi la polizia si riversò dentro l’edificio e cominciò il rastrellamento. Dalle finestre del piano terra schizzavano fuori gli studenti come il succo da un limone schiacciato. Ci fu un fuggi fuggi generale mentre le forze dell’ordine ripresero possesso della collina e della facoltà. Il movimento si raccolse di nuovo in fondo alla valle. Qui si svolse lo scontro più cruento della battaglia. Ora la polizia non commise l’errore di schierarsi a ridosso dell’edificio, ma si portò sul ciglio della scarpata, impedendoci il contrattacco. Noi dal fondo valle, già in parte decimati dal primo rastrellamento, ricominciammo a urlare i nostri slogan provocatori. Di fronte avevamo la collina della facoltà tenuta dalla polizia. Ai due lati, dove il grande piazzale di Valle Giulia si stringeva su due viali solcati dai binari del tram, stavano immobili, in assetto di battaglia, altre schiere di celerini e di carabinieri. Dietro a noi, sul lato opposto alla facoltà, si elevavano le ampie scalinate che portavano a Villa Borghese. Nessuno pensò di andare da quella parte, all’inizio.
C’era una grande agitazione. Qualcuno gridava al megafono contro la polizia e il rettore che l’aveva mandata. Molti urlavano slogan rivoluzionari – Giap, Giap, Ho Chi Min! – Altri ribattevano: – Due, tre, molti Vietnam! – Un gruppetto, sotto la scarpata, cantava Bandiera Rossa per provocare la polizia. Al centro della piazza si cominciò a divellere il selciato. I sampietrini venivano raccolti in piccoli mucchi in diversi punti della valle. C’era una confusione esaltante. Nessuno sapeva cosa fare. Tra i canti, gli slogan e le urla, la rabbia montava come il fuoco in un bosco. Si avvicinava la grande buriana. Di lì a un momento ci saremmo potuti avventare sul nemico su tutti e tre i fronti contemporaneamente. Quel momento non venne.
La polizia prese l’iniziativa. Cominciò con le bombe lacrimogene. I primi spari ci spaventarono. Nessuno di noi ne aveva ancora mai sentiti. Ci fu un attimo di panico. Però quando le bombe arrivarono a terra, la battaglia ricominciò. Raccoglievamo i candelotti con le mani e li rilanciavamo al mittente insieme a gragnole di sampietrini. Per pochi minuti la valle fu piena di fumo, che il vento spazzò via presto. Allora la polizia smise di sparare e cominciarono le cariche. Ci furono addosso da tutti e tre i lati. Gli scontri furono durissimi. Noi avevamo smesso di cantare e di urlare slogan, e per l’aria si sentivano solo grida di rabbia e i comandi dei poliziotti. Le sirene avevano cessato di suonare. Al centro della piazza s’era fermato un tram pieno di gente, bloccato da un mucchietto di sampietrini su una rotaia. Il conducente aveva chiuso le porte e i passeggeri, in piedi davanti ai finestrini, assistevano allo spettacolo con gli occhi sbarrati.
Non so quanto durò lo scontro di corpo a corpo. Ricordo che ad un tratto i poliziotti si ritirarono di nuovo. E fu un urlo di trionfo. Accanto a me c’era un compagno con la fronte rigata di sangue. Se la puliva con la mano sinistra, mentre con la destra impugnava un’asta che aveva divelto da una panchina. Io avevo il bastone di una bandiera. Mi faceva male l’avambraccio sinistro, su cui avevo preso qualche manganellata. Ci guardammo negli occhi, senza fiatare. Quello sguardo, in quell’istante, suggellò un legame che nulla potrà mai sciogliere.
Anche la seconda vittoria fu di breve respiro. Ad un tratto entrarono in azione i gipponi della Celere. Si avventarono sulla folla a tutta velocità e cominciarono dei caroselli sfrenati. I nostri che fuggivano finivano tra le braccia dei carabinieri. I cellulari si riempivano a ondate. Ricominciarono gli ululati delle sirene. Cellulari se ne andavano pieni di studenti, cellulari tornavano vuoti. E la battaglia continuava. Contro i gipponi usammo i sassi. Li prendevamo più grossi possibile dai bordi delle aiuole. Dalle posizioni sopraelevate, sul declivio di Villa Borghese, piovevano giù dei veri e propri macigni. All’improvviso un compagno fu intruppato dal parafango di un gippone. Cadde a terra. Si rialzò subito cercando di fuggire, ma cadde di nuovo su una gamba malconcia. Lo presi da sotto le ascelle e lo portai via rapidamente. Aveva una gamba ridotta piuttosto male. Appoggiandosi a me riusciva a stare in piedi sull’altra. Ci rifugiammo sulla scalinata che porta a Villa Borghese, dove le auto della polizia non potevano arrivare. Lì ci fermammo a guardare la scena, abbracciati come fratelli.
Alcuni compagni accanto a noi divelsero un masso di travertino dalla scalinata e lo fecero rotolare giù dalle scale. Quando giunse sulla massicciata capitò davanti a una camionetta che sopraggiungeva a velocità sostenuta, a venti metri da noi. L’autista cercò di virare per non prenderlo in pieno, ma non ci riuscì, e quando la ruota sotto sterzo colpi il blocco di marmo l’auto si rovesciò. I due celerini che ci stavano dentro schizzarono via come due ranocchie grigioverdi e scapparono inseguiti da un nugolo di studenti, lasciando al suo destino l’auto rovesciata sul fianco. Noi due guardammo la macchina, ci guardammo negli occhi, ed avemmo contemporaneamente la stessa idea. Raccolsi da terra un pezzo di giornale. Lo zoppo tirò fuori dei cerini e gli diede fuoco. Io l’afferrai e lo andai a buttare dentro il gippone. I sedili di vinilpelle presero fuoco in un attimo e la colonna di fumo turbolento che si alzò nera nel cielo fu un segnale di guerra. Dopo un po’, sparsi nella valle, altri tre o quattro automezzi erano in fiamme.
I gipponi, dopo aver fatto varie tornate di caroselli, di fronte alle fiamme e al fumo si ritirarono precipitosamente. Anche i cellulari tornarono sulle loro posizioni, stavolta senza il loro bottino di studenti. Fu la terza vittoria della giornata. Le forze dell’ordine lasciarono passare alcuni minuti. Poi ricominciarono ad avanzare con le auto, adagio, in fila, da entrambi i lati della valle. Dietro le auto, schiere di carabinieri. Sembrava la fanteria tedesca nella Battaglia dei giganti, in quell’avanzata lenta e inesorabile dietro i panzer neri. I pochi di noi che tenevano duro tentarono un’ultima resistenza coi selci. I gipponi non fecero una piega. Infine, di fronte al loro avanzare compatto i nostri ripiegarono, convergendo al centro della valle. Man mano che l’accerchiamento stringeva, l’ormai sparuta massa di studenti si incanalava su per le scalinate di Villa Borghese. Appena fu chiaro che ci stavamo ritirando, i carabinieri superarono i gipponi e caricarono d’assalto, tutti assieme. La gente, dai finestrini del tram, stava sempre lì a guardare a bocca aperta. Ci fu un ultimo breve contatto dei più coraggiosi col nemico, dopo di che cominciò una fuga precipitosa verso Villa Borghese. Le nostre colonne erano ormai decimate e molto inferiori di numero rispetto a quelle della polizia. A centinaia i compagni riempirono le questure e gli ospedali. Anche il nemico però aveva lasciato molti feriti sul campo.
Ecco, questa fu la battaglia di Valle Giulia. Fu il vero inizio del Sessantotto in Italia, un anno che durò fino al 1973.