Il silenzio dopo Gaza? Un seminario per ripensare umanismo e antiumanismo*
di Valerio Romitelli
I
Nel 1949, fu detto, da Adorno, che dopo Auschwitz anche far poesia sarebbe divenuto atto barbaro[1]. Che si potrà dire dopo Gaza? Il timore è che non se ne dirà nulla: che l’orrore della disumanità sarà diventato normalità.
La svolta in atto nella nostra civiltà, che si tenga o meno a questa parola, è comunque clamorosa. Per averne una qualche misura occorre quanto meno risalire ai primi anni Novanta, quando a seguito del crollo dell’Urss nulla parve più moderare l’euforia dell’impero americano. La sua immagine da trionfatore del XX secolo poteva allora arricchirsi di un nuovo trofeo: dopo la vittoria su nazifascismo, poteva infatti vantare anche la disfatta di quella patria del comunismo già sua alleata e concorrente principale sulla scena mondiale. Venne quindi il gran momento delle dottrine neoliberali accompagnato da altri fenomeni per lo più mai visti, quali la globalizzazione dei mercati, il diffondersi della rivoluzione informatica, la fede in una definitiva democratizzazione dell’intero pianeta. A consacrare questa aura magica scorsero fiumi d’inchiostro tra i quali eccelse il celeberrimo libro di Fukuyama sulla fine della storia[2].
La storia stessa, come concetto designante il divenire controverso e incerto dell’umanità, si trovò così screditata: anche le sue figure protagoniste fino ad allora più riconosciute a livello di opinione cominciarono a divenire quanto meno sospette. Va da sé che il bersaglio grosso più o meno dichiarato era quella concezione che aveva istruito più generazioni del personale dirigente degli stati socialisti e dei partiti comunisti, oltre che dei militanti di movimenti “di classe”: la concezione materialista della storia come storia della lotta di classe.
Per sconfessare ogni visione storica dei destini umani, inclusa quest’ultima, ha cominciato allora a configurarsi una soluzione particolarmente efficace, perché dall’aria inclusiva e eticamente irreprensibile: rivolta anzitutto a riscattare la memoria di quelle popolazioni che la storia non solo non l’avevano mai fatta, ma l’avevano più semplicemente e brutalmente subita. È così che è nato quello che è stato opportunamente chiamato il paradigma vittimario[3].
Terreno di incontro e confronto tra diversi orientamenti più o meno anti- e post-coloniali questo paradigma ha stimolato infiniti studi e discussioni volti a dimostrare quante e quali popolazioni avessero subito le peggiori sorti nel corso della storia. Doverosa luce ha cominciato così ad essere accesa sulle atrocità connesse agli innumerevoli fenomeni disumani come la tratta degli schiavi durata più secoli, la decimazione sistematica dei nativi delle due Americhe anch’essa di lunghissima durata, la persecuzione di armeni, zingari o le svariate imprese perseguite dagli imperialismi occidentali, tra le quali quelle particolarmente efferate del fascismo italiano in Africa. Ma la lista, si sa, è senza termine.
Resta che a guadagnare il titolo di emblema impareggiabile di tale paradigma vittimario è stato il genocidio degli ebrei. Israele si è potuto così presentare al mondo come la patria delle prime vittime tra le vittime della storia, traendo da questo primato una sorta di impunità a livello internazionale. Non altrimenti si spiega l’incredibile tolleranza dimostrata dall’opinione mondiale in oltre settant’anni di reiterati soprusi e abomini commessi in nome della stella di Davide ai danni del popolo palestinese.
Ora, però, con l’abominio inflitto a Gaza, la misura sembra colma. L’immagine di Israele si sta capovolgendo: già massimo esempio di umanità sofferente ora si ritrova sul punto di incarnare il massimo esempio di disumanità. Si ha un bel negare questa metamorfosi interpretandola come inevitabile risposta al sussulto dei gruppi armati capeggiati da Hamas il 7 ottobre: la totale deficienza del senso delle proporzioni in simili interpretazioni le discredita sul nascere. Fatto innegabile è che la patria della popolazione già riconosciuta come bersaglio privilegiato del male assoluto, appare oramai essa stessa focolaio di un inedito male assoluto.
La distinzione tra umano e disumano, così come si è andata configurando dal dopoguerra ad oggi, sta dunque vacillando dalle fondamenta. Ad attestarlo sono tra l’altro gli imbarazzi nei quali si dimenano anche i più sordi e ostinati difensori di Israele. Ma a dimostrarsi vano è purtroppo anche ogni appello all’umanità in favore di quel che resta dei sempre più martoriati residenti di Gaza.
Il tutto, per di più, in un mondo in cui la corsa agli armamenti è divenuto lo sport più praticato da tutti i governi mondiali, mentre si eleva esponenzialmente il rischio di una guerra atomica. I timori per la sopravvivenza della stessa umanità come i dubbi sui valori di progresso, civiltà e democrazia serpeggiano più che mai nello stesso Occidente che insiste nel rivendicarli sia pur con sempre meno ascolto planetario. In un discutibile, ma fondamentale libro appena uscito, Emmanuel Todd parla di un nichilismo dilagante tra le potenze un tempo egemoni sul globo[4].
È questo dunque il grumo di problemi che fanno da sfondo al prossimo dei seminari aperti a tutti gli interessati che chi scrive tiene periodicamente assieme a Luca Jourdan presso l’università di Bologna[5].
Seguono ora ulteriori indicazioni su problematica e metodo.
II
Piuttosto che rimasticare usurate nenie etiche e teoriche, pare il caso di azzardare le domande più scottanti, anche se al momento senza risposta. Ci chiederemo allora se non sia opportuno provare a ridiscutere la stessa idea sulla quale si fondano tutte le altre caratterizzanti la mentalità occidentale: sarebbe a dire l’idea stessa di umanità e dunque anche il suo contrario, la disumanità, così come si stanno riconfigurando nel nostro tempo. Ad essere abbozzata sarà quindi un’interrogazione su quali siano le possibili mutazioni in corso di ciò che costituisce il tema centrale della stessa antropologia.
Ma veniamo ad alcune delle osservazioni e riflessioni che hanno motivato questa interrogazione.
La prima osservazione riguarda un paio di fenomeni di evidente discredito che stanno mettendo sotto cattiva luce il senso stesso della parola umanità.
Anzitutto, le correnti di opinione traversanti da capo a piedi tutte le società occidentali e aventi come tesi cruciale l’origine antropica del cambiamento climatico; si aggiungano le insistenti denunce delle devastanti conseguenze dovute all’avvento dell’antropocene a seguito del diffondersi dell’industrializzazione sull’intero pianeta. Opinioni e denunce, queste, che certamente possono vantare abbondanti conferme da parte della cosiddetta comunità scientifica, ma che dimostrano anche l’enorme consenso riscosso attualmente dalla messa sotto accusa senza troppe distinzioni dell’intera umanità proprio nei suoi progressi (tecnologici) più recenti.
Altra corrente di opinione screditante l’immagine dell’umanità la si può rintracciare nell’incriminazione che fa da leit motif a tutti o quasi i movimenti femministi. Sarebbe a dire, il riconoscimento del patriarcato come origine di molti dei mali più tradizionali subiti dalla donna. Che c’entri l’umanità col patriarcato, potrà anche non apparire subito evidente, visto che la discussione in proposito non è tra le priorità più note di questi movimenti. Ma non può sfuggire che la parola “umanità” derivi dalla parola “Uomo” la quale ne funge addirittura come sinonimo[6], oltre a connotare il genere dominante nello stesso patriarcato. Dopo le tante dispute sulle discriminazioni tra i generi dovute al linguaggio, verrà forse il tempo in cui anche i termini “umanità” e “uomo” inteso come suo sinonimo saranno smascherati dalla denuncia del loro intrinseco maschilismo? Ai fini di una maggiore equità di genere non si aprirà forse l’ardua questione di come trovare sostituti per tutta la famiglia di parole “umanità (“umano”, “umanismo”, “umanitario” ecc.) che fa capo a quella di “uomo”? Più probabilmente, però, le notevoli difficoltà a trovare risposte a simile questione continuerà ad essere ragione sufficiente per non affrontarla.
Ulteriore osservazione riguarda il fatto che il ricorrere del termine umanità attualmente si trovi quasi sempre associato al suo contrario, il disumano, per contrastarlo. Quando si parla di “umanità” e di “umano”, insomma, non lo si fa forse soprattutto per evocare un eventuale contraltare ad una manifestazione disumana già in atto? Ma se così è, non se ne deve forse concludere che “umano” e “umanità” attualmente hanno assunto per lo più un senso polemico, una funzione negativa, quindi un contenuto assai povero di significati affermativi? E non sarà proprio per questa carenza di positività che l’agire in loro nome risulta così poco efficace?
Insomma si sarebbe proprio tentati di esclamare: povera umanità, quella d’oggi, contestata come è da geologi, da ecologisti, sospettabile da parte delle femministe e sempre alla rincorsa della disumanità nel tentativo di ammansirla!
Una prima riflessione conseguente a queste osservazioni ci ha spinto quindi a fare un ulteriore passo indietro nella storia, parecchio tempo prima che ne fosse vanamente decretata la fine e trionfasse il paradigma vittimario. Più esattamente, questo passo indietro ci ha portato a quella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso[7], quando, raggiunta la pace dopo i cinque, sei abominevoli anni della seconda guerra mondiale l’umanismo ebbe il suo gran momento, grazie al quale l’umanità in quanto tale si ritrovò sommamente celebrata e propagandata: prima, nel 1945 coi processi di Norimberga[8] (pochi mesi dopo lo sgancio delle due bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki), processi durante i quali, per la prima volta nella storia e senza alcun precedente di riferimento, un tribunale si trovò a dover giudicare di “crimini contro l’umanità” ; poi, nel corso del 1947, quando le Nazioni Unite incaricarono l’ American Anthropological Association di avviare ricerche e dar vita ad una Commissione sui Diritti umani; infine, nel 1948, quando a Parigi per bocca di Eleanor Roosevelt, in una solenne seduta dell’Onu venne letta e approvata la fatidica e tutt’oggi ancora vigente Dichiarazione universale dei diritti umani, due anni dopo fatta propria dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani promossa dal Consiglio d’Europa appena nato[9].
Di qui un ulteriore passo della riflessione è stato breve. L’attenzione si è infatti rivolta su come anche i partiti e gli Stati comunisti, allora più diffusi e consistenti che mai su scala planetaria, pur non sottoscrivendo questa dichiarazione, abbiano finito per adattarsi al loro modo alla propaganda umanista. La denuncia dello stalinismo al XX Congresso del Pcus e la successiva invasione dell’Ungheria nel 1956; la “primavera” di Praga avvenuta in nome di un “socialismo dal volto umano” e l’immediata reazione sovietica nel 1968: questi i due episodi più noti e discussi a riguardo. Ma nota e discussa è anche la riscoperta e la messa in circolazione in questo stesso secondo dopoguerra dei testi di Marx ancora giovane, cioè ancora caratterizzati da un’impostazione per l’appunto umanista, in seguito abbandonata. Seguendo il filosofo francese Althusser[10], cui si deve questa lettura in termini di discontinuità dell’opera e della biografia intellettuale dell’autore de Il Capitale, la decisione teorica che lo avrebbe eretto a riferimento cruciale di tutto il movimento operaio sarebbe consistita infatti proprio nel rifiuto di ogni idea umanista, in quanto falsamente universale, falsamente interclassista, e realmente funzionale solo allo sfruttamento dell’uomo da parte del uomo sotto il dominio della classe capitalista.
Una volta tirato in ballo l’antiumanismo di Althusser la riflessione si è naturalmente rivolta ad andare a ripescare quella che è stata una corrente di pensiero di punta a livello mondiale tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso. Si tratta di quella corrente che allora si voleva per l’appunto né più né meno “antiumanista”. Marx, Nietzsche e Freud, ma anche Heidegger, i suoi principali autori di riferimento, mentre i suoi protagonisti sono stati parecchi di quegli straordinari studiosi e pensatori di svariate discipline soprattutto francesi a suo tempo etichettati come “strutturalisti”: tra gli altri, Lévi-Strauss, Lacan, Althusser, Foucault[11]. Fu così che “umanismo” e “antiumanismo” allora, nel secondo dopoguerra, divennero i termini di importanti discussioni, epistemologiche e politiche, così come attualmente non è neanche immaginabile.
Ulteriore riflessione è consistita nel rileggere alla luce di questa corrente di pensiero la più recente opera L’etica, Saggio sulla coscienza del male di Badiou[12], particolarmente incisiva per affrontare i temi qui in questione.
è dunque in base a questa serie di osservazioni e riflessioni che ha preso corpo l’idea del seminario qui presentato. Suo oggetto di discussione sarà quindi questa lunga parabola concernente il divenire della tematica umanista a partire dai suoi successi nell’immediato secondo dopoguerra per giungere alla sua rimessa in discussione attuale di fronte alle efferatezze del genocidio a Gaza.
Seguono ora alcune indicazioni preliminari su come intendere più precisamente i termini umanismo e antiumanismo.
III
Per districarsi in merito a questa difficile questione si devono tenere in considerazione i precedenti che hanno fatto da riferimento alla la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: anzitutto dunque la famosa Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, ma ancora prima non ci si può non ricordare dell’umanesimo rinascimentale e delle sue fonti tratte dall’humanitas romana e ancor prima alla filantropia greca[13].
A quest’ultimo riguardo, un riferimento chiarificante lo troviamo seguendo Heidegger[14], che individua a fondamento di ogni umanismo l’arcinota definizione di Aristotele dell’uomo come animale razionale[15]. Una formula canonica, che nonostante i secoli trascorsi dai tempi della Grecia antica appare tanto famigliare quanto evidente: salvo che a pensarci su in dettaglio risulta quanto meno discutibile.
Che significa infatti l’idea che l’umanità sia sempre essenzialmente riconducibile ad una sua originaria natura animale? Significa che anche la sua razionalità, come ogni progresso con essa ottenuto, andrebbe valutato in base alla sua funzionalità o meno rispetto a detta natura. In altre parole, secondo questa prospettiva, tipicamente umanista, tutto quanto è accaduto e può accedere al genere umano manterrebbe sempre una stessa destinazione. La destinazione stabilita dalla necessità di adeguarsi alla natura come contesto ambientale e/o di seguire la nostra stessa intima natura animale. L’infinita miriade di eventi accaduti nei più svariati campi della storia dell’umanità si ritrovano così del tutto sottovalutati. Come se fossero tutti riconducibili ad unica e reiterata peripezia volta sempre a adattare o migliorare solo i mezzi per fini già dati. La molteplicità infinita del divenire storico così si ridurrebbe ad un’unica storia reale: quella della tecnica o della tecnologia. Da qui tutte le angosce derivanti da questa prospettiva le quali si concentrano sull’eventualità che i mezzi stessi, ossia la tecnologia, sfuggano di mano alla stessa umanità imponendole fini estranei alla sua natura. L’Intelligenza artificiale, le meraviglie e i timori che sta suscitando, le infinite dispute che la riguardano non rappresentano che l’ultimo dei tanti casi di controversie sulle innovazioni tecnologiche risalenti forse all’uso del vapore, se non prima.
Insomma volendo tirare le fila di tutto quanto fin qui argomentato sull’umanismo si dirà che la sua convinzione più profonda sta nel credere che l’Umanità alla fin fine non è fatta che di semplici uomini, ossia di quelle mezze bestie che sono sempre stati: anche razionali magari, ma sempre motivati anzitutto dalle loro necessità naturali cioè animali.
Conferme a tale assunto non mancano del resto da parte delle scienze che oggi godono di maggiore prestigio: la biologia e le scienze neurocognitive. Dal loro punto di vista è infatti riconosciuto il fatto che cervello e corpo umano d’oggi siano parecchio simili a quelli di migliaia e migliaia di anni fa[16]. Dal che non è difficile (anche se per nulla obbligatorio) ricavarne la conclusione che l’umanità in fondo resta sempre la stessa, quali che ne siano i gradi e modi delle trasformazioni storiche intervenute nel corso del suo divenire. Così c’è chi come il compianto antropologo anarchico David Graeber, col supporto dell’archeologo David Wengrow, può persino rimpiangere la notte dei tempi estesa finanche prima del paleolitico fantasticando che allora molto più di ora si era liberi di scegliere il proprio destino collettivo[17]. Una tesi questa certo iperumanista ma perfettamente conforme allo scientismo biologista e cognitivista oggi dominante.
Se quindi non fosse per le tragedie politiche e belliche attualmente in corso che scuotono dalle fondamenta ogni certezza umanista parrebbe veramente inossidabile la massima aristotelica secondo la quale l’umanità sarebbe e resterebbe da pensare anzitutto come una specie animale, anche se con quel quid in più che è la razionalità.
Una volta compreso che la fede umanista ha questo come suo presupposto decisivo se ne possono comprendere le diverse versioni. Anzitutto, da un lato, quella negativa, diciamo pure “cattiva”, la quale spesso in conformità col mito biblico del peccato originale considera la natura umana preda del male, salvo nei casi degli individui o i popoli eletti; dall’altro, quella positiva, o diciamo pure “buonista”, la quale, spesso più vicina alla dottrina evangelica del battesimo come dilavamento dal peccato originale e del pentimento come possibile antidoto dei peccati successivi, considera l’umanità per lo più incline al bene.
La prima ha come figura emblematica Hobbes[18], col suo detto secondo il quale l’uomo sarebbe lupo tra i lupi (homo homini lupus). Lupo tra lupi che potrebbe essere ammansito, portato alla mediazione e ridotto all’obbedienza solo dalla paura inculcata da un branco organizzato di suoi simili. Qui evidentemente a imporsi è l’idea che l’animalità, di cui l’umanità sarebbe sempre espressione speciale, sia da intendersi come un’animalità feroce, disumana. Tutta la tradizione che vede nell’odio e nell’inimicizia i principi primi della politica[19] è di qui che trae conferma ed ispirazione, sia che odio ed inimicizia siano concepiti su base di classe o di razza. Così ragiona dunque l’umanismo in versione negativa, nichilista, pessimistica, che vede l’umanità fatta di individui per loro natura propensi più che altro a raggrupparsi in base all’odio condiviso nei confronti di altri. La grande conferma che può rivendicare è quella che viene dalle guerre di fatto sempre più progettate per l’annientamento del nemico e dei civili. Il quid in più degli animali che umanismo riconosce agli uomini, ossia la loro razionalità, qui pare davvero funzionare solo per renderli più sistematicamente e ostinatamente feroci di qualsiasi altra specie animale.
La seconda versione dell’umanismo, quella “buonista”, contraria a quella “cattiva” appena evocata, ha invece in Rousseau uno dei suoi autori simbolo. Parola chiave spesso associata a questo pensatore (ma che non ne è in realtà l’inventore, in quanto lessema già circolante al suo tempo) è ben inteso il “buon selvaggio”: termine col quale si intendeva una figura mitica precedente o comunque estranea a quella che nell’età del Settecento illuminista si considerava la civiltà occidentale. Ecco allora che il fatto stesso di riconoscere nei selvaggi, dunque in degli incivili, degli uomini “buoni”, spontaneamente e a modo loro, induceva a vedere questa civiltà come qualcosa di non necessario, se non di troppo. Ad insistere però in una simile accusa evidentemente si rischiava e si rischia sempre di finire in un paradosso senza soluzioni: una simile prospettiva simpatizzante per lo stato “selvaggio” non obbliga infatti ad auspicare il regresso dell’umanità in una condizione pre- o in-civile, proprio per ciò da ritenersi conforme alla natura spontaneamente “buona” degli uomini?
Ci ritroviamo così al cuore del dilemma che continua ancora a tormentarci: ossia come calcolare costi e benefici della civiltà moderna? E non è forse sempre la solita tentazione di una risposta regressiva a questo dilemma che perseguita tutt’oggi ogni movimento pacifista e/o anticapitalista? Si prenda ad esempio, quando tutt’oggi si implora “restiamo umani!” di fronte ai disastri procurati dalle guerre o dalle infamie varie dovute al regime capitalista: così facendo non si suppone forse che tra le vittime di simili mali esista già bella e pronta e una naturale propensione umana al bene, ossia ai quei comportamenti solidali e cooperativi ritenuti immediatamente capaci, se non repressi, di migliorare radicalmente la società? E ancora: non è proprio da questa supposizione immaginaria che derivano le tante disillusioni demotivanti tali movimenti?
Credere che dietro tutto ciò che accade ci sia sempre una stessa umanità, più o meno buona o cattiva: questo il pregiudizio umanista da cui non ci si guarda mai abbastanza.
IV
La fama di Rousseau in fondo è dovuta proprio alla sua capacità di cavarsela di fronte a questo pregiudizio intrinseco alla “teoria” del buon selvaggio e alla critica della civiltà moderna. Fatto sta che nei suoi scritti, pur non sempre cristallini, viene comunque evitata ogni soluzione regressiva o tradizionalista: mai vi prevale del tutto la nostalgia per i bei tempi andati né la fiducia nella natura in parte razionale dell’uomo in quanto tale. La vera novità di Rousseau sta nel fatto di proporre una sorta di protocollo per un esperimento collettivo inedito, tale da prefigurare un evento senza precedenti nella storia umana. Il testo in cui viene avanzata questa proposta è notoriamente intitolato Il contratto sociale[20] e sua categoria chiave è quella di “volontà generale”. Così, diversamente dal suo più noto contraltare rappresentato dal Levitano di Hobbes, Rousseau non mira alla restaurazione di alcun regime d’ordine, ma è tutto teso a perorare la causa di una nuova dinamica politica universale nella quale ogni individualismo sia messo all’angolo. A conferma dell’opportunità di questo intento è venuta poi niente meno che la Rivoluzione Francese i cui protagonisti tennero sempre questo testo e la sua categoria centrale della “volontà generale” come riferimenti decisivi.
Ecco dunque che oltre all’opposizione tra umanismo cattivo e umanismo buonista, ripensando Rousseau e la Rivoluzione Francese possiamo intravedere una sorta di terza via, quella di un antiumanismo affermativo: che afferma come l’umanità sia riconoscibile in quanto tale, nella sua diversità col resto del vivente, solo grazie agli eventi e alle loro conseguenze che ne hanno scandito i destini universali. Quali eventi più precisamente ? Seguendo Badiou potremo distinguerne quattro grandi galassie; politiche, artistiche, scientifiche e amorose. L’immagine dell’umanità apparirà cosi meno compatta e identificabile di come appare ad uno sguardo umanista. Se quest’ultimo la vede fatta di un’enorme moltitudine di animali razionali, sarebbe a dire con una ragione funzionale alle norme richieste da una vita da animale, lo sguardo antiumanista ispirato alla filosofia di Badiou vede altro. Vede la dimensione umana somigliante piuttosto ad un cielo stellato[21] fatto di uno sfondo oscuro e vuoto, metafora dell’inumano, e le stelle, metafora di tutti gli eventi[22] che illuminano i nostri destini, Il fardello da cui così ci si sbarazza è il pregiudizio di un’umanità sempre più o meno eguale a se stessa, sempre motivata da mix più o meno costante di animalità e razionalità. In effetti, se pensiamo che l’umanità sia fatta degli infiniti eventi artistici, politici, scientifici, amorosi che hanno scandito i suoi destini possiamo anche ammettere che la sua essenza sia irriducibilmente molteplice, composta di singolarità, mentre la sua unità, ovvero la sua dimensione universale ed egualitaria, sia essa stessa cangiante, mai definitivamente data. Sempre da aggiornare o trasformare.
A sintesi di tutto questo discorso, un esempio rudimentale: quando si parla o di un’epoca illuminista o di un’epoca romantica non parliamo forse di due tempi diversi dell’intera umanità? Di tempi così diversi da renderla assai diversa da se stessa? Il primo in cui agli eventi scientifici (di Galileo e Newton) era riconosciuto un primato in termini di universalità, il secondo, un tempo in cui invece questo il primato era riconosciuto agli eventi artistici. Ciò posto, viene da chiedersi che ne è allora dell’umanità in un tempo quale il nostro, dominato com’è dalla guerra o comunque dalle propensioni belliche ovunque imperversanti. Ebbene l’unica risposta attualmente possibile pare proprio che si tratti di un tempo in cui ogni evento è trascurato a favore delle divisioni ostili di un’umanità completamente a pezzi, per ciò esposta al rischio di disastri irreparabili.
Ma c’è un’obiezione evidente che può suscitare l’idea antiumanista qui esposta di un umanità cangiante a seconda degli eventi che ne scandiscono i destini. Ciò che si può obiettare ad una simile visione è infatti di trascurare il “grosso” della stessa umanità, ossia la sua normalità quotidiana, quella vissuta dei semplici cittadini/e, ovunque si trovino. In altri termini, rifiutando di attenersi sempre all’antica definizione aristotelica secondo cui l’essenza dell’uomo starebbe nel suo essere un animale razionale non si finisce forse per salvare solo i grandi uomini, famosi protagonisti di eventi sublimi, assieme ai loro seguaci di minor fama? Seguendo tale idea non si pecca cioè di una sorta di inclinazione aristocratica ed idealista? Ora bisogna riconoscere che questa obiezione è particolarmente convincente: ha dalla sua tutta la cultura occidentale contemporanea.
E tuttavia si può controbattere che se l’ideale resta il semplice quieto vivere, ossia l’umanità come normalità, allora va da sé che, sia di fronte agli abissi del disumano, sia di fronte ai picchi degli eventi sublimi non c’è che da voltare le spalle. Se ci si riesce. Finché ci si riesce. In proposito ha già detto quasi tutto Hannah Arendt in La banalità del male[23]. Da questo libro come dal documentario Il processo ad Adolf Eichmann e oggi dal film Zona di interesse, premiato da Oscar, si può ben vedere come la banalità umana può anche apparire solo ripetitiva, piacevolmente tranquilla o tediosa, ma resta in realtà sempre esposta all’eventualità di ritrovarsi correa del più abominevole degli orrori. È esattamente ciò che accadde ad Eichmann tutto e solo serenamente dedito ad eseguire gli ordini nel dirigere treni il cui contenuto e destinazione restavano assolutamente estranei ai suoi doveri.
Per non cedere ad alcuno stereotipo umanista è dunque ben difficile trovare altra via che ispirarsi a grandi eventi, quali in politica sono state le rivoluzioni, in particolare, quella francese, quella bolscevica, ma anche quella cinese (detta culturale, epicentro di tutto quanto accadde a livello globale attorno al fatidico Sessantotto), senza dimenticare l’immenso seguito di conseguenze che tutte tre hanno avuto e che sotto traccia continuano ad avere, in termini di imitazioni e ripensamenti. Tra queste conseguenze c’è stato l’innesco di un’amplissima gamma di sperimentazioni politiche per un rinnovamento più giusto della umanità. E se tutto (o quasi) è fallito ciò è avvenuto non solo, ma anche perché in nome della rivoluzione le sue interpretazioni umaniste hanno trovato modo di ripresentarsi fin a ingombrare ogni altra prospettiva.
Ritornando infine all’orrore di Gaza, anche in questo caso ci si può convincere di quanto possa essere vano ogni appello all’umanità, finché resta in stile umanista, ovvero sorretto dalla fede che l’esigenza di far cessare il massacro covi già spontaneamente nella coscienza di tutti gli attori e gli spettatori coinvolti. Più opportuno è forse pensare che per arrestare il periplo di tutti i gironi infernali subito dal popolo palestinese ci voglia un evento politico maggiore, quale quello che, come ricordavano Gilles Deleuze e François Chatêlet[24] fu tentato quando a capo dell’Olp c’era Arafat.
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* Questo articolo è anche sulla rivista on line Machina-DeriveApprodi.
[1] Cfr. Adorno T. W., Metafisica, ed. it. a cura di S. Petrucciani, Einaudi, ,Torino 2006, p. 330.
[2] La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
[3] Giglioli D., Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma, 2014.
[4] Todd E., La défaite de l’Occident, Gallimard, Paris, 2024.
[5] Per ulteriori informazioni su luogo, orari e codice per la partecipazione a distanza scrivere a valerio.romitelli@unibo.it
[6] Ad esempio in espressioni come “l’Uomo nel Paleolitico” o “l’Uomo moderno”.
[7] Per una sintesi dal punto di vista anglosassone Judt T., Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Roma-Bari, 2017.
[8] Zolo D., La giustizia dei vincitori, Da Norimberga a Bagdad, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[9] Flores M., Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna 2008.
[10] Per un ritratto d’insieme vedi di Calcagno O. https://www.machina-deriveapprodi.com/post/louis-althusser-tra-marxismo-e-marxismi del 23.11-2022
[11] Badiou A., L’avventura della filosofia francese dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma, 2013; Milner J.C., Il periplo strutturale. Figure e paradigma, Mimesis, Milano, 2009.
[12] Badiou A., L’etica. Saggio sulla coscienza del male, Pratiche, Parma, 1996.
[13] Bettini M., Homo sum. Essere umani nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019.
[14] Heidegger M.; Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, 1996.
[15] Aristotele, Politica, A I. 2. 1253, Laterza, Roma-Bari, 1984.
[16] Una delle varianti più estreme di questa tesi è quella sostenuta dal noto genetista americano Crabtree G. che tiene ad argomentare scientificamente la tesi che l’uomo a partire da un tempo tra i 6000 e 2000 anni fa le capacità intellettive e emotive degli esseri umani hanno cominciato a ridursi. Cfr: https://www.gqitalia.it/news/2016/04/08/levoluzione-dellintelligenza-umana-si-e-fermata
[17] Graeber, W., L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano, 2023.
[18] Hobbes T., Il leviatano. La materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, (1651) Utet, Milano, 1955.
[19] Schmitt C., Le categorie del Politico. Saggi teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1972; Tronti M., Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977.
[20] Rousseau J.J., Il Contratto sociale, (1762) Einaudi, Torino, 1966.
[21] “Il cielo stellato sopra di me…” diceva Kant.
[22] L’allusione qui è a tutto ciò che accade nell’arte, nella scienza, nella politica e nell’amore che non solo fa cultura, come si direbbe per farla facile, ma che trasforma anche il rapporto tra l’umanità e il reale.
[23] Arendt H., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2021.
[24] Deleuze G., Grandezza di Yasser Arafat, ( con un saggio di Chatêlet F.), Cronopio, Napoli, 2002.