Il re Alboino fatto uccidere dalla moglie Rosmunda – da Paolo Diacono, “Historia Langobardorum”
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Paolo Diacono (Cividale, 720/730) è lo storico longobardo che scrisse la storia dell’occupazione d’Italia da parte del suo popolo. Opera di coinvolgente lettura e a un tempo documento preziosissimo, soprattutto perché le sue sono quasi tutte fonti orali che raccontavano vicende lontane o a lui prossime. Scritta in latino: Paolo divenne infatti romano di cultura fino a farsi monaco a Montecassino, senza tuttavia rinnegare la sua appartenenza etnica. La storia, in VI libri, inizia col racconto dell’emigrazione dei Longobardi dalla Scandinavia e prosegue con l’occupazione dell’Italia nel 569, re Alboino, fino al regno di Liutprando. La morte (Cassino, dopo il 787) non gli consentì di proseguire fino alla sconfitta del re Desiderio da parte di Carlo Magno, da lui vissuta in prima persona.
La traduzione dal latino è a cura di Lidia Capo per le edizioni Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, VII edizione, 2006, Storia dei Longobardi, pp. 107-113.
In quel tempo, la città di Ticino, sostenendo l’assedio per più di tre anni, resisteva con valore, mentre l’esercito longobardo era accampato non lontano da essa, dalla parte occidentale. Intanto, cacciati i soldati imperiali, Alboino occupò tutto il territorio fino alla Tuscia, eccettuate Roma e Ravenna e qualche fortezza posta sulla riva del mare. Né allora i Romani avevano la forza per resistere, perché la pestilenza scoppiata al tempo di Narsete aveva ucciso moltissimi uomini in Liguria e nella Venezia, e in più, dopo un’annata che abbiamo detto di abbondanza, una carestia terribile colpiva e devastava l’intera Italia. Certo è che poi Alboino aveva portato con sé in Italia molti uomini dei diversi popoli che i suoi predecessori e lui stesso avevano sottomesso. Per cui ancora oggi chiamiamo i villaggi in cui essi abitano con il nome di Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannoni, Svevi, Norici e altri del genere.
Ma la città di Ticino, che sopportava l’assedio da tre anni e alcuni mesi, alla fine si arrese ad Alboino e ai Longobardi che l’assediavano. Mentre Alboino entrava in città dalla parte orientale, attraverso la porta che è detta di San Giovanni, il suo cavallo cadde proprio al passaggio della porta e, per quanto spronato, per quanto colpito di qua e di là con le lance, non si riusciva a farlo rialzare. Allora uno degli stessi Longobardi si rivolse al re e disse: “Ricordati o mio re del voto che hai pronunciato. Rompi un voto così duro ed entrerai nella città: perché questo popolo è veramente cristiano”. Alboino aveva infatti giurato che avrebbe passato a fil di spada tutta la popolazione, perché non aveva voluto piegarsi. Ma quando, rompendo questo voto, promise indulgenza ai cittadini, subito il cavallo si rialzò ed egli, entrato nella città mantenne fede alla sua promessa non recando offesa ad alcuno. (…)
Ma il re, dopo aver regnato in Italia per tre anni e sei mesi, fu ucciso per il tradimento della moglie. La causa del suo assassinio fu questa. Mentre sedeva a banchetto in Verona più allegro di quanto sarebbe stato opportuno, ordinò di dare da bere del vino alla regina nella coppa che gli aveva fatto con la testa di Cunimondo, suo suocero, e la invitò a bere lietamente insieme a suo padre. Perché questo non sembri impossibile a qualcuno, dico la verità davanti a Cristo: ho visto io stesso in un giorno di festa il principe Ratchis tenere in mano quella coppa per mostrarla ai suoi commensali. Vedendo questo, Rosmunda sentì nel suo cuore un dolore profondo e, non riuscendo a reprimerlo, immediatamente si infiammò nel proposito di uccidere il marito per vendicare la morte del padre; e subito si consigliò con Helmichis, che era scilpor, cioè armigero del re e suo fratello di latte, sul modo di ucciderlo.
Questi convinse la regina a far partecipare alla congiura Peredeo, che era uomo di grandissima forza. Ma poiché, quando la regina cercò di persuaderlo, Peredeo non volle acconsentire a un simile delitto, lei di notte si sostituì nel letto a una sua cameriera con la quale Peredeo aveva commercio carnale; e quando Peredeo andò lì senza sapere niente, giacque con la regina. Commessa ormai la colpa, lei gli chiese chi credeva che lei fosse ed egli, come pensava, fece il nome della sua amica, ma la regina continuò: “Non è affatto come credi; invece io sono Rosmunda”, disse. “Certo tu ora, Peredeo, hai compiuto un’azione tale che o tu uccidi Alboino o lui ucciderà te con la sua spada”. Allora egli capì il male che aveva fatto, e se spontaneamente non aveva voluto, in questo modo costretto diede il suo assenso all’uccisione del re.
Allora, mentre Alboino dopo pranzo dormiva, Rosmunda ordinò che nel palazzo si facesse un grande silenzio e, tolta di mezzo ogni altra arma, legò forte la spada di lui alla testata del letto, in modo che non si potesse staccare né sguainare: poi, secondo suggerimento di Peredeo, fece entrare – più feroce di una belva – l’assassino Helmichis. Alboino, svegliatosi di soprassalto, comprese il pericolo che gli era addosso e portò subito la mano alla spada; ma, non riuscendo ad estrarla, legata come era, prese uno sgabello per i piedi e si difese per qualche tempo con quello. Ma, ahimè, un guerriero così valorose e così audace, non potendo niente contro il nemico, fu ucciso come un imbelle, e morì per le trame di una sola femmina colui che era così famoso in guerra per tante stragi di nemici. Il suo corpo fu sepolto dai Longobardi con immenso pianto e lamento sotto la rampa di una scala che era contigua al palazzo. Fu alto di statura e in tutto il corpo adattissimo a sostenere i combattimenti.
(…) Dopo aver ucciso Alboino, Helmichis tentò di usurparne il regno. Ma non ci riuscì, perché i Longobardi, addoloratissimi per la morte del re, volevano ucciderlo. Allora Rosmunda mandò a chiedere a Longino, prefetto di Ravenna, di inviare in fretta una nave per accoglierli. Lieto di tale notizia, Longino mandò subito la nave, su cui Helmichis e Rosmunda, ormai sua moglie, salirono, fuggendo di notte e portando con sé Albsuinda, figlia del re, e tutto il tesoro dei Longobardi, arrivarono rapidamente a Ravenna. Allora il prefetto Longino prese a suggerire Rosmunda di uccidere Helmichis e diventare sua moglie. La donna, che facilmente si lasciava indurre ad ogni infamia, dette il suo consenso a compiere tale delitto, sognando di farsi signora dei Ravennati; e mentre Helmichis si lavava nel bagno, gli porse, all’uscita dall’acqua, una coppa avvelenata, dicendogli che era una bevanda salutare. Egli, come si accorse di aver bevuto la coppa della morte, sguainò la spada sopra Rosmunda e la costrinse a bere quello che era rimasto. E così, per giudizio di Dio onnipotente, gli infami assassini morirono nello stesso momento.
(…) Affermano alcuni che anche Peredeo era arrivato insieme a Helmichis e Rosmunda a Ravenna e che di lì fu inviato con Albsuinda a Costantinopoli, dove, alla vista del popolo, uccise davanti all’imperatore un leone di straordinaria grandezza. Si dice anche che per evitare che compisse qualcosa di pericoloso nella città regia, dal momento che era così forte, gli furono cavati gli occhi per ordine dell’imperatore. Passato qualche tempo, egli si procurò due coltelli e nascostili dentro le maniche, si recò al palazzo, promettendo di rivelare cose utili all’imperatore se fosse stato ammesso alla sua presenza. Al che l’Augusto mandò due patrizi suoi consiglieri a raccogliere le sue parole. Ma quando questi giunsero dov’era Peredeo, egli si fece loro più vicino come per dire qualcosa in gran segreto, e con forza, con tutte e due le mani, lì colpi entrambi con le spade che aveva nascoste, così che quelli stramazzarono subito a terra e morirono. Così – non dissimile in qualche modo dal fortissimo Sansone – egli vendicò le proprie offese e in cambio della perdita dei suoi due occhi uccise due uomini utilissimi all’imperatore.