Il prestito al tulipano: ancora a lezione da Dgiangoz. Cronache marXZiane n. 10
di Giorgio Gattei
1. Allorquando si presenta un sovrappiù di produzione, ossia un surplus rispetto a ciò che serve per riprodurre l’attività economica sulla stessa scala precedente, si aprono due questioni assai differenti. La prima riguarda la spartizione di quel sovrappiù tra i partecipanti alla sua produzione, che in prima battuta sono i lavoratori con il salario ed i capitalisti con il profitto, ed è per questo che l’astronomo “classico” David Ricardo aveva posto a prefazione dei suoi Principi di economia celeste «la determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione (come) il problema fondamentale nell’economia politica». Tuttavia esso non è l’unico (sul quale peraltro si è speso fin troppo inchiostro), perchè ce ne è pure un secondo problema relativo alla destinazione di quel sovrappiù: che farsene, servirsene per accrescere la base produttiva già in essere (accumulazione) oppure consumarlo improduttivamente ossia, per dirla con Piero Sraffa, non utilizzarlo «né come strumento di produzione né come mezzo di sussistenza per la produzione di altre merci»? Come al solito questo secondo problema era già stato ottimamente colto da Karl Marx, il massimo geografo di quel nuovo pianeta comparso nel cielo dell’economia che da lui ha preso il nome, che così ne aveva discusso nel Capitale. Critica dell’economia celeste a proposito della “Trasformazione del plusvalore in capitale”: «la produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plusprodotto, nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plusprodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice», ma fortunatamente così non è, potendo passare alla “riproduzione su scala allargata”, ossia alla accumulazione, cosicché, «se con la prima il capitalista dava fondo all’intero plusvalore, con la seconda dà prova della sua virtù civica consumandone soltanto una parte» e trasformando il resto in capitali addizionali («né per il momento ci interessa se i capitali addizionali vengono aggiunti al capitale originario o se ne vengono separati per una valorizzazione autonoma, se li usi il medesimo capitalista che li ha accumulati o se egli li trasferisca ad altri»).
Quello che importa è per il momento che quel Prodotto Netto Y, da suddividersi in Salario W e in Profitto P, si deve pure destinare ad Investimento produttivo I od a Consumo improduttivo C, così da imporre la doppia equivalenza:
Y = W + P = I + C
In origine il capitalista, in quanto «funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza», aveva considerato il proprio consumo come «un furto ai danni dell’accumulazione», da cui quella decisione per cui C = 0 che era stata quello “spirito sparagnino (ossia protestante) del capitalismo” che è stato descritto con dovizia da Max Weber in opposizione alla dissipazione della aristocrazia nobiliare precedente, ma poi anche per lui si è offerta l’occasione del “consumo gaudente” e in cui si è precipitato con una «prodigalità cresciuta col crescere della sua accumulazione senza che l’una debba pregiudicare l’altra, ma così accendendo un conflitto faustiano tra l’istinto di accumulazione e l’istinto di godimento», come aveva da tempo segnalato l’antagonista di Ricardo, l’astronomo ecclesiastico Robert Malthus, osservando nei suoi alternativi Principi di economia celeste che si sarebbero dovute «tener separate la passione dello spendere e la passione dell’accumulazione (the passion for expenditure and the passion for accumulation)», peraltro entrambe coesistenti nell’animo del capitalista.
Avrebbe dovuto essere questa ambivalenza così evidente che perfino Ricardo vi aveva convenuto scrivendo in una lettera a Malthus del 16 settembre 1814 che «noi tutti desideriamo aumentare i nostri godimenti o il nostro potere. Il consumo accresce i nostri godimenti, l’accumulazione il nostri potere ed ambedue egualmente promuovono la domanda». Eppure essa è stata sempre fatta pencolare dagli astronomi d’accademia dalla parte dell’accumulazione (ironizzava Marx che «è sempre la vecchia storia: Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, e così via», finché nella Bibbia non è comparso Onan che, per non avere discendenza, spargeva il suo seme per terra «il che dispiacque molto al Signore che lo fece morire» senza figli ovviamente), essendo insegnamento sacrosanto quello di fecondare tutte le donne (“crescete e moltiplicatevi”) e di accrescere tutti i capitali (“arricchitevi”), e perciò più popolazione e più merci a dispetto della sovrapproduzione di persone e di cose se ne sarebbe seguita e al cui rimedio soltanto degli eretici potevano consigliare il “controllo delle nascite” e lo “spreco improduttivo”.
2. Chi si è posto esplicitamente contro la legge del Signore è stato quel filosofo irregolare (e pornografo anche) che di nome fa Georges Bataille (1897-1962) in quel suo scandaloso libro, ignorato dai più, dedicato alla Parte maledetta (1949), ossa proprio a quella parte dell’umano comportamento che non piace a Dio né agli astronomi d’accademia. Era il suo libro che giudicava il più importante ed era tutta una esaltazione del “sesso inutile”(a cui dedicherà in specifico un altro volume sull’Erotismo nel 1957) e della “spesa immotivata”. A suo dire la giustificazione di questa esigenza di spreco era addirittura d’ordine cosmico: siccome «il sole dà senza mai ricevere», è sostanza del mondo presentare un eccesso di energia e di ricchezza che, siccome «non può per intero essere assorbito nella sua crescita, bisogna necessariamente perderlo senza profitto, spenderlo, volentieri o meno, gloriosamente o in modo catastrofico», e siccome l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, risulta «il più adatto a consumare intensamente, lussuosamente, l’eccedente di energia che la pressione della vita offre ad ardori conformi all’origine solare del suo movimento», ecco che «la questione è sempre posta in termini di lusso e la scelta è limitata ai modi di dilapidazione della ricchezza», (fino alla insolita organizzazione societaria del «monachesimo totalitario tibetano» tutto rivolto al celibato e al “lavoro di preghiera” per «rispondere al bisogno di arrestare la crescita di un sistema chiuso».
Era da questa premessa che scaturiva la necessità di un «dispendio senza corrispettivo», e proprio alla illustrazione di questa Nozione di dépense egli ha dedicato un saggio seminale nel 1933 in cui aveva esposto quel suo principio di “economia generale” per cui l’attività economica non può essere «interamente riducibile ai processi di produzione e di conservazione…, all’uso del minimo necessario, agli individui di una data società, per la conservazione della vita e per la continuazione dell’attività produttiva», ma deve tener conto anche delle «spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, le costruzioni di monumenti suntuari, i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) che rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in se stesse. Orbene, è necessario riservare il nome di dépense a queste forme improduttive, escludendo tutti i modi di consumo che servono da termine intermedio alla produzione», compreso l’«inaudito scatenamento della lotta di classe» che costituisce «la forma più grandiosa della dépense sociale quando viene ripresa e sviluppata, questa volta per conto degli operai, con una ampiezza che minaccia l’esistenza stessa dei padroni».
Insomma, essendo due le modalità intrinseche dell’umano comportamento, quella “economica” rivolta all’utilità del proprio operare che si cerca di esercitare al meglio con una condotta razionale, misurata e calma, e quella indirizzata invece al piacere immediato, al godimento anche esagerato che comporta sconsideratezza, frenesia e dismisura, con questi due aspetti che potevano perfino coesistere in uno stesso individuo, così come «il volto di un uomo cambia dalla turbolenza della notte agli affari seri del mattino» (che Bataille ne sapesse qualcosa?).Ma allora homo faber oppure homo ludens? Ovviamente tutti e due, come quelle comunità primitive indigenti che, dopo una caccia risultata particolarmente fruttuosa, sprecavano la maggior parte del bottino in una festa di consumo esagerato come se non esistesse più penuria e che gli etnologi hanno interpretato come la necessità d’impedire a quelle comunità di crescere al di là delle risorse scarse proprie dell’ambiente in cui erano inserite (alla stessa maniera cui anche le società evolute, con troppa energia e ricchezza che non riescono a smaltire all’interno, la dissipano all’esterno facendosi la guerra fra loro).
Storicamente, come documenta Bataille, questa doppiezza di comportamento aveva contrapposto ai due lati dell’Oceano Atlantico società complesse come il Messico azteco e l’antica Roma a proposito del trattamento da riservare ai prigionieri di guerra che i Romani riducevano in schiavitù per farli lavorare “alla maggior gloria dell’Urbe” mentre gli aztechi li sacrificavano, con un rituale tanto complesso quanto sanguinario, “alla maggior gloria della divinità”. Per gli aztechi la vittima era «un surplus preso nella massa della ricchezza utile ed essa può esserne tratta solo per venire consumata senza profitto, di conseguenza distrutta per sempre. E quando viene scelta, essa è la parte maledetta destinata al consumo violento», così che quei «sacrifici umani erano solamente un momento estremo nel ciclo delle prodigalità: la passione che faceva scorrere il sangue dalle piramidi trascinava in genere il mondo azteco a fare un uso improduttivo di una parte importante delle risorse di cui disponeva» (tuttavia anche a Roma gli schiavi potevano essere immolati in massa se si ribellavano, come quei ribelli di Spartaco che, quando sconfitti nel 71 a.C. e diventati inservibili al lavoro per avere provato il gusto della rivolta, vennero crocifissi in seimila lungo la via Appia da Capua a Roma “per fare da esempio agli altri”).
3. Se hai finito con le tue divagazioni – la voce di Dgiangoz, l’astronomo di provincia a cui mi sono rivolto per non fare errori nei calcoli stellari, interrompe il mio flusso di pensieri – vorrei riportarti al nostro argomento di discussione che tratta invece del rapporto della produzione del grano, preso quale “merce-base generale” perchè necessario alla produzione di ogni altra, con quella del tulipano che invece assumiamo come “merce non-base esagerata” supponendo, secondo un caso estremo ipotizzato dallo stesso Sraffa, che «non si trovi fra i mezzi di produzione di nessuna industria» e quindi nemmeno di se stessa. Ne avevamo già discusso nella Cronaca precedente, però io ti avevo posto un quesito ulteriore: che cosa succede quando la produzione del tulipano, invece di esser fatta dallo stesso produttore di grano, viene affidata ad un altro produttore a ciò dedicato, come peraltro Marx ha accennato nella citazione che hai riportato più sopra? Devono succedere delle cose strane, ma prima riprendiamo il risultato che avevamo già conseguito (posso rimettermi in cattedra?).
Le due produzioni sono legate fra loro da un rapporto di necessità, dato che il grano deve servire ad entrambe mentre il tulipano no, che formalmente si esprime così: siano a11 e a12 i coefficienti unitari di produzione del grano e del tulipano e sia (p1 =1) il prezzo del grano perchè preso a numerario, mentre (p2 = p) è il prezzo del tulipano. Sotto condizione che dalle due produzioni si debba ricavare lo stesso Saggio Massimo del profitto R (ci muoviamo in quella stravagante periferia del pianeta Marx in cui non si pagano salari) che si determina nella produzione del grano ma che s’impone pure alla produzione del tulipano per effetto della libera circolazione dei capitali, supponendo che il produttore di grano ne possieda la quantità complessiva necessaria a produrre le quantità date Q1 di grano e Q2 di tulipano quale risultato di produzioni precedenti, avremo le due equazioni di prezzo di produzione:
Q1 = (1 + R) a11Q1 con R = 1/a11 – 1
Q2 p = (1 + R) a12Q2 con p = a12/a11
con un profitto complessivo che sarà pari a: R (a11Q1 + a12Q2).
Adesso facciamo produrre il tulipano da un altro imprenditore che avrà bisogno del grano necessario per la stessa quantità di tulipano di prima allo scopo di ricavarne un identico Saggio Massimo ma che, non possedendolo, dovrà richiederlo in prestito al suo produttore a cui dovrà restituirne un valore equivalente in tulipano alla fine della produzione secondo il rapporto di prezzo del tulipano sul grano. Così adesso sarà per lui, e non per il produttore di grano:
Q2 p = (1 + R) a12Q2 con p = a12/a11
ma con l’impegno di rinunciare ad una parte del profitto massimo realizzato per pagare al prestatore di grano un interesse secondo un tasso (i > 0) concordato fra i due. Considerando il suo guadagno netto, che chiameremo mt, esso sarà quindi:
mt = Ra12Q2 – ia12Q2 = (R – i) a12Q2
a prova che il suo guadagno sul prestito risulterà inversamente proporzionale al livello del tasso d’interesse e sarà positivo finché (i < R), ossia finché il Saggio Massimo sarà maggiore del tasso d’interesse, dato che per (i = R) quel guadagno gli diventerebbe nullo e non ci sarebbe più convenienza a chiedere il prestito.
A sua volta il produttore di grano guadagnerà il Saggio Massimo solo sulla parte di grano che continua ad impiegare, mentre sulla parte che presta guadagnerà l’interesse che gli paga il produttore di tulipano, così che il suo guadagno netto, che chiamiamo mg, risulterà:
mg = Ra11Q1 + ia12Q2
che dipenderà positivamente dal tasso d’interesse e che sarebbe massimo se fosse (i = R) perchè allora:
mg = Ra11Q1 + Ra12Q2 = R (a11Q1 + a12Q2)
così che, pur prestando ad un altro, guadagnerebbe lo stesso profitto complessivo come se fosse ancora lui a produrre il tulipano. Eppure questa possibilità deve essere esclusa perchè in conflitto con la presenza di un produttore indipendente di tulipano che per guadagnare richiede invece che sia (i < R). Ma se allora deve valere anche per il produttore di grano la condizione di guadagno del produttore di tulipano, ne seguirà che:
Ra1Q1 + i a12Q2 < R (a1Q1 + a12Q2)
sicché lui ci rimetterà a prestare grano per far produrre ad un altro il tulipano rispetto a quanto avrebbe potuto guadagnare producendolo personalmente ed il profitto a cui dovrà rinunciare è la del “sacrificio” che deve sopportare per consentire ad un produttore indipendente di tulipano di guadagnare pure lui. E arrivo così al nodo critico di questa mia chiacchierata perchè, se la concessione del prestito per far produrre ad altri il tulipano non gli risulta economicamente conveniente, perché lo fa? Ci dovranno pur essere altre ragioni, rispetto ai calcoli algebrici che finora abbiamo adottato, che giustificano la sua decisione, ma quali sono? Qui mi sa che ti aspetta un gran compito.