Il grano e il tulipano: a lezione da Dgiangoz (“La D è muta”. “Lo soooo”!). Cronache marXZiane n. 9
di Giorgio Gattei
1. Nel corso del mio prolungato soggiorno sul pianeta Marx, dove sono stato trascinato dall’astronave marxziana “La Grundrisse” (vedi Cronache MarXZiane n. 1) mi ero fatto l’idea che la presenza delle cosiddette “merci non-base”, che sono una componente significativa del suo panorama, potesse avere una qualche parte nella “legge di caduta” del suo Saggio Massimo (di profitto). Ricordo i due termini in questione: Saggio Massimo è il maggiore dei saggi del profitto qualora non si paghino salari (il che succede in una estrema periferia del pianeta che ho visitato) e questo è evidente: essendo il profitto P = (Y – W) con Y = prezzo del Prodotto al netto del capitale impiegato K e W = ammontare dei salari, per W = 0 sarà:
max r = R = Y/K
da cui si vede subito come Saggio Massimo non sia poi altro che l’inverso del ben più noto rapporto Capitale/Reddito (sebbene questa coincidenza non abbia mai ricevuto sufficiente attenzione).
A loro volta le “merci non-base” sono quelle merci che, secondo la definizione rigorosa data da Piero Sraffa, pur essendo state prodotte come ouput non entrano come input nella produzione delle altre merci – e non si pensi che siano poche queste merci se in esse vanno compresi i “beni di lusso” dei signori ma pure i beni-salario acquistati dai lavoratori oltre il loro consumo necessario e le spese pubbliche improduttive dello Stato, come gli armamenti o le “buche per terra” di keynesiana memoria. Insomma, sono così tante e diverse queste merci non-base che, per non far torto a nessuna di loro, le ho generalizzate ai tulipani che sono un bene ad esclusivo utilizzo ornamentale e che sono anche stati curiosamente oggetto, come ho ricordato nella Cronaca precedente, della prima speculazione finanziaria “di massa” della storia.
Tuttavia per saperne di più (e meglio) sulla eventuale relazione tra queste merci non-base e la “legge di caduta” di Saggio Massimo sono andato a consultare il “miglior astronomo sulla piazza”, quel tal Dgiangoz (“la D è muta”. “Lo soooo!”) che vive in un luogo disertato dalle istituzioni accademiche e che, da buon “lettore di provincia” s’ingegna, alla maniera del Guido Cavalcanti nel Decamerone, “a provar se potesse che il valore non fosse” (ma per Cavalcanti l’oggetto della negazione era Dio). E lui, appena lo incontro nella sua “aula didattica”, subito mi aggredisce: “Cosa vuoi da me?” “So che dai consulenze e io cerco lumi”, gli rispondo. E lui: “Però prima mi devi dire a che punto sei giunto con le tue strologazioni astronomiche sul pianeta Marx”. “Sono giunto a concordare con quel promemoria di Piero Sraffa in cui si dice che «la caduta del saggio del profitto è basata sulla esistenza di un Saggio Massimo del profitto e sulla tendenza del Saggio Massimo a cadere con l’accumulazione», di cui però Sraffa non sembra aver mai dato spiegazione, tanto che nemmeno i suoi colleghi dell’osservatorio di Cambridge gli hanno creduto, con Joan Robinson che ha negato l’esistenza stessa di un Saggio Massimo e Nicholas Kaldor, che pure quella esistenza ammetteva sebbene “truccata” da rapporto Reddito/Capitale, ne ha contestato la caduta perché a suo parere quel rapporto alla lunga è costante (e l’economia sta in steady state, come si dice in economistese). Però nella registrazione, purtroppo incompleta, da me ritrovata del colloquio straordinario che Sraffa ha avuto con Saggio Massimo e che ho riportato nella Cronaca n.7, è comparso un possibile rimando della sua caduta per la presenza delle “merci non-base” (senza che comunque nulla se ne trovi nella relazione di viaggio pubblicata nel 1960), sicché sono venuto da te per saperne di più.
– Conosco le merci non-base e proverò a spiegartene il funzionamento dentro la dinamica del pianeta, anche se so già che la mia risposta ti deluderà. Ma, come disse nel 1966 il premio Nobel Paul Samuelson, «gli studiosi non sono venuti al mondo per avere una facile esistenza. Dobbiamo rispettare, e considerare nel loro valore, i fatti della vita». E quindi comincio. Posso mettermi in cattedra? [Nella immagine messa in copertina di questa Cronaca c’è il bassorilievo della memorabile lezione di Dgiangoz alla presenza anche di altri uditori, tra cui l’artefice della scultura].
2. Facciamo allora il caso della produzione circolare di due merci soltanto, il “grano” e il “tulipano”, ma con la differenza che il grano è “merce base” perché necessario alla produzione di entrambe, mentre il tulipano è quella “merce non-base” esagerata, prevista dallo stesso Sraffa, che «non si trova fra i mezzi di produzione di nessuna industria» (insomma, oltre a goderselo alla vista, il tulipano non serve nemmeno alla produzione di se stesso). E parto dalla equazione di prezzo del grano che, nel mondo di Saggio Massimo in cui non si pagano salari, essendo a11 il coefficiente unitario di produzione del grano a mezzo del grano e p1 il suo prezzo che assumiamo ad unità di misura, ossia a “numerario così che p1=1, si avrà per unità di grano prodotto:
1 = (1 + R) a11 da cui: R = 1/a11 – 1
dove R è il Saggio Massimo (di profitto) di quella produzione.
Adesso facciamo entrare in scena il tulipano, che sul momento supponiamo prodotto dallo stesso produttore del grano. Per farlo dovrà destinare una parte del grano a disposizione a questa diversa produzione nella quantità Q2 impiegando grano secondo il proprio coefficiente di produzione unitario a12. Il prezzo del tulipano p sotto condizione della equiprofittabilità concorrenziale, ossia di guadagnare lo stesso Saggio Massimo della produzione del grano, sarà:
p = (1 + R) a12 con : p = a12 /a11
da cui appare evidente l’asimmetria delle due equazioni di prezzo, perché mentre la prima è autosufficiente nella determinazione di Saggio Massimo, la seconda lo riceve dalla prima fissando quel prezzo che consente ad entrambe le produzioni di guadagnare il stesso Saggio Massimo secondo il rapporto tra i due coefficienti (ovviamente a12 dovrà essere positivo, altrimenti il prezzo sarebbe nullo e il tulipano non sarebbe prodotto).
Ma si vede pure che, se il coefficiente di produzione del tulipano dovesse mutare, nulla accadrebbe a Saggio Massimo che è determinato dalla sola condizione di produzione del grano. E’ questo un risultato ben noto fin dai tempi dell’astronomo “classico” David Ricardo, sebbene da lui riferito ai “beni di lusso” e per il saggio generale del profitto, che si deve al fatto, riconosciuto da un suo attento interprete come Ladislaus von Bortkiewicz, che «Ricardo insegnava che una modificazione dei rapporti di produzione di quei beni che non entrano nel consumo della classe lavoratrice non può intaccare il livello del saggio del profitto». Di conseguenza questo effetto dovrebbe esserci pure negli “schemi di riproduzione” (ossia di accumulazione del profitto) del Capitale di Karl Marx quando alle due «grandi sezioni» della produzione dei beni salario e dei mezzi di produzione si aggiunge la produzione di «mezzi di consumo di lusso che entrano solo nel consumo della classe capitalistica… e che la classe operaia non può comperare». Eppure nulla se ne dice, ma solo perché il manoscritto del secondo libro, in cui questi schemi di riproduzione sono trattati, s’interrompe proprio a questo punto, sebbene qualche consapevolezza di quell’effetto Marx la doveva pur avere se nel terzo libro, scritto in precedenza, aveva accennato a «capitali che non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto», che «non incidono necessariamente sul livellamento del saggio generale del profitto».
Quindi che ha fatto Sraffa se non estendere questa proprietà dei beni di lusso sul saggio generale del profitto a tutte le “merci non-base” rispetto al Saggio Massimo? E questo tipo di merci (per noi il “tulipano”) si differenzia dalle merci base (per noi il “grano) che «hanno una funzione essenziale nel determinare i prezzi e il saggio del profitto, (perché) non ne ha invece alcuna… e ciò risulta evidente se si considera che il sistema di equazioni “base”, il quale di per sé determina il saggio del profitto e il prezzo dei prodotti base, non può essere influenzato da cambiamenti nella quantità o nel prezzo di merci non-base che non fanno parte del sistema medesimo». «Che le cose stiano così può verificarsi con l’eliminare dal sistema l’equazione che rappresenta la produzione di una merce di lusso. Poiché allo stesso tempo viene eliminata una incognita (il prezzo di quella merce) che appare solo in quella equazione, le rimanenti equazioni continuano a formare un sistema determinato». Ti basta? Il tuo Saggio Massimo se ne sbatte allegramente della presenza del tulipano, essendo determinato dalla sola condizione di produzione del grano!
– Ma allora le merci non-base non esercitano alcuna influenza sulla dinamica del pianeta?
– Niente affatto, dato che una influenza ce l’hanno ma solo se si prendono in considerazione, invece dei prezzi e del profitto, le quantità e la crescita. E quindi proseguo. Se il produttore di grano produce anche il tulipano, quanto grano potrà riprodurre investendone la quantità che ha prodotto? Senza il tulipano tutto il ricavato potrebbe essere reinvestito in ancora più grano, così da dar luogo ad un saggio di crescita G che sarebbe il massimo possibile:
Q1 = (1 + G) a11 Q1
da cui risulta immediatamente, semplificando per le quantità che:
1 = (1 + G) a11
a prova che in mancanza di tulipano sarebbe: G = R con il pianeta che cresce di dimensione (quantità) nella stessa misura del Saggio Massimo (prezzi). E’ stato questo peraltro il risultato analitico principale conseguito dal matematico John von Neumann (che poi avrebbe dato, ma questa è un’altra storia, un contributo decisivo alla fabbricazione della bomba all’idrogeno) in uno scritto giovanile pubblicato in tedesco nel 1932 ed ignorato dai più finché non è stato tradotto in inglese nel 1944 su suggerimento di Kaldor (e forse anche di Sraffa) che il suo traduttore David Champernowne ha descritto come l’esercizio logico delle proprietà di una «economia cristallina» in cui «lo sviluppo consiste soltanto nel ripetersi delle medesime condizioni e il sistema economico si espande come un cristallo sospeso in una soluzione del suo stesso sale». Ne risulterebbe allora una “simmetria” tra le variabili di prezzo/profitto e di quantità/crescita per cui «il fattore di interesse [leggi: profitto] e il coefficiente di espansione della economia [leggi: crescita] sono eguali e univocamente determinati dai processi tecnicamente possibili», così come ricavato da von Neumann con una esagerata strumentazione matematica.
Ma cosa succede a questa «rivoluzione non cruenta, ma certo violenta, nella teoria del capitale e della crescita» (come ha enfatizzato il giapponese Michio Morishima) se entra in scena il tulipano? Succede che, siccome per produrlo (Q2 > 0) una parte del grano a disposizione dovrà essere distolta dalla sua riproduzione, il saggio di crescita del grano non potrà più essere quello massimo, ma sarà più piccolo, ossia (g < G):
(1 + g) a11 Q1 + a12 Q2 = Q1
e se poi il tulipano dovesse crescere nella stessa misura del grano allora sarebbe peggio essendo (g’ < g):
Q1 = (1 + g’) (a11 Q1 + a12 Q2)
con (G – g’) che sarebbe il “sacrificio” di crescita da sopportare per consentire la presenza del tulipano in una quantità prodotta addirittura crescente. Quindi, come vedi, il tulipano, in quanto merce non-base, finisce per influenzare la crescita del grano come merce base, il che mi pare traduzione elegante dell’ammonimento di Adam Smith, primo scopritore del pianeta Marx nella costellazione dell’economia, sia pure con riferimento alla manodopera impiegata, che «un uomo diventa ricco se impiega una moltitudine di manifattori, mentre va in miseria se mantiene una moltitudine di domestici» (dove i “domestici” sarebbero l’equivalente dei nostri tulipani). Però sono io ora a chiederti: perché mai il produttore di grano dovrebbe produrre anche il tulipano che, pur facendogli guadagnare lo stesso Saggio Massimo, gli riduce però il saggio di crescita del grano?
3. Questo lo so perché l’argomento è stato dibattuto in passato a proposito del rapporto del “consumo “improduttivo”, che perciò è superfluo, rispetto alla accumulazione che è invece “produttiva”. Il quesito, era stato posto dalla storia prima che dalla teoria: perché mai ci sono state le piramidi d’Egitto, le chiese gotiche, le ville nobiliari, lo sfarzo delle corti e tutte le spese dispendiose e i beni voluttuari (compreso il mio tulipano), invece di impiegare le limitatissime risorse allora disponibili ad una maggior crescita di merci necessarie come il grano che è utile alla sussistenza? Perchè si è stati in passato così sciuponi invece di essere più produttivi? La risposta non è stata trovata in chiave economica (mi sa che a rigore la convenienza non ci sia), bensì nei termini di “sociologia della cultura” (Kultursoziologie), come ha provato a fare Werner Sombart in Lusso e capitalismo (1913) opponendo alla interpretazione corrente secondo cui per crescere si deve risparmiare, rinunciare, astenersi dal godimento (il che, secondo Max Weber, sarebbe poi tutta la sostanza del cosiddetto “spirito del capitalismo”) l’opinione contraria che la crescita è stata invece sostenuta dalla spesa, dal dispendio, perfino dallo spreco , che sarebbero tutti comportamenti niente affatto da reprimere, ma da condividere perché portatori addirittura di “incivilimento”.
È stato soprattutto all’epoca dei Lumi che il lusso è stato esaminato ed assolto a conferma della sentenza di Voltaire nel Mondano (1736) del «superfluo come cosa necessaria», ma già c’era stata la provocazione di Bernard de Mandeville nella Favola delle api, un misto di versi e di prosa composto tra il 1714 e il 1723, che aveva mostrato come i “vizi privati” potessero mostrarsi invece delle “pubbliche virtù”: un alveare finisce in rovina quando le api si convertono alla parsimonia e «la spesa vana è rifuggita come frode morale», dato che «la semplice virtù non può far vivere le nazioni in splendore». E John Maynard Keynes a commento: «non vi è da meravigliarsi che sentimenti perversi di tal sorta si attirassero l’obbrobrio di due secoli di moralisti e di economisti, i quali si sentivano assai più virtuosi in possesso della loro dottrina austera che nessun rimedio esistesse salvo che nel massimo di parsimonia e di economia sia da parte degli individui che da parte dello Stato. “I trattenimenti, le splendide mostre, gli archi trionfali ecc.” di cui aveva parlato Petty cedettero il posto alla saggezza lesinatrice della finanza di Gladstone e ad un sistema di stato che “non si poteva permettere” gli ospedali, le aree libere, i nobili edifici, né la conservazione dei monumenti antichi e tanto mendo gli splendori della musica e del teatro, tutte cose che venivano affidate alla carità privata o alla magnanimità di individui imprevidenti».
Ma provo ad elencarti invece tutti i vantaggi che vennero allora riconosciuti al lusso: uno stimolo alla domanda di merci («se tutti spendessero di più, tutti potrebbero vivere in abbondanza»), una occupazione per i lavoratori di troppo («è il lusso che dà lavoro ai poveri»), un allargamento degli scambi a prodotti esotici come le spezie e le droghe (e lo storico: con il caffè al posto del vino «l’umanità perduta nelle nebbie dell’alcol si risveglia alla ragione borghese riconquistando tutta la sua capacità lavorativa»), un sostegno al credito e alle banche per il ricorso al finanziamento delle spese voluttuarie, la comparsa del “sistema della moda” che prima non c’era ed infine, ma soprattutto, l’effetto di “emulazione” delle forme del godimento aristocratico da parte degli altri strati della popolazione (in un esempio estremo portato da Sombart «anche la donna onesta, stimolata dalla cortigiana, dovette lavarsi»). Il fatto è che l’esibizione sfacciata del lusso signorile ha indotto chi l’osservava ad imitarlo, sia pure nelle forme approssimative consentite dalla differenza di reddito, con approdo alla moderna “società opulenta” (affluent society) il cui “consumismo” si presenta certamente come una modesta “scimmiottatura” dei costumi di un tempo e di cui si può dire tutto il male possibile (che sia volgare, eccessivo, alienante), ma non che sia l’unico mezzo a disposizione delle “moltitudini” per accedere a quella dimensione di vita “da classe agiata”, poi diventata il connotato della cosiddetta “classe di mezzo, intravista da Thorstein Veblen in Teoria della classe agiata (1899): posto che «il consumo di generi di lusso… è un segno di signoria», «la classe agiata si trova alla testa della struttura sociale in fatto di rispettabilità e per questo il suo modo di vere e i suoi criteri di valutazione danno il canone di rispettabilità per la comunità. L’osservanza di questi criteri, con qualche approssimazione, diventa un dovere per tutte le classi più basse della scala sociale… (così che) i membri di ogni strato accettano come loro ideale di onorabilità lo schema di vita in auge nello strato superiore e impiegano le loro energie nel vivere secondo questo ideale, pena la perdita del loro buon nome e del rispetto di sé in caso d’incapacità«
Insomma, non si può proprio dire che la frugalità abbia mai fatto un gran bene a chi la imponeva e a chi la subiva, essendo stato piuttosto il lusso il grande fattore di civiltà sia nella maniera di produrre, scambiare e consumare che nella formazione dei bisogni e nel raffinamento del gusto. Per questo il consumo, anche vistoso, vive in competizione con l’accumulazione nella destinazione del reddito prodotto, come previsto da Karl Marx, grande descrittore del pianeta, perché con la sua crescita lo stesso capitalista «s’incivilisce al punto da schernire la mania entusiastica dell’ascesi come pregiudizio del tesaurizzatore all’antica», e sebbene la sua prodigalità «non abbia mai il carattere di buona fede che ha la prodigalità nello spensierato signore feudale e benché anzi nello sfondo stiano sempre in agguato la sudicia avarizia e il calcolo più pavido, tuttavia la sua prodigalità cresce col crescere della sua accumulazione senza che l’una debba pregiudicare l’altra…, (così che) nel seno sublime dell’individuo capitalista si accende un conflitto faustiano fra istinto d’accumulazione e istinto di godimento» che non può trovare soluzione. Per questo alle volte ci sarà più grano ma alle volte anche tulipano, ossia il pane ma pure le rose (and roses too), giusto lo slogan femminista di primo Novecento.
– Sarà. Ma che succede se il produttore di grano fa produrre il tulipano ad un altro produttore diverso da sé?
– Mi sa che la cosa si complica.