Il Fascismo nell’Appennino bolognese. Povertà, emigrazione e guerra in Africa
di Fabrizio Simoncini
Introduzione
È vizio del tutto nostrano, e purtroppo sempre attuale, quello di far riguadagnare forza e una nostalgia da “bei tempi” ad avvenimenti che in realtà meriterebbero di essere consegnati alla storia con un giudizio, non certo moralistico, ma indiscutibilmente obiettivo. Mi preme dunque divulgare uno stralcio di analisi di storia locale, per così dire, per dare conto di ciò che accadde realmente nelle nostre terre in epoca fascista a ridosso della guerra d’Africa del 1936 con dati e tabelle dal sottoscritto elaborate in uno studio di qualche anno fa. Accompagno lo scritto con alcune suggestioni di biografi e storici che permettano al lettore di inquadrare il fenomeno complessivamente.
Così scriveva Ruggero Zangrandi nel suo toccante racconto autobiografico “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”: «Nell’ottobre ’35, Vittorio (il figlio di Mussolini di cui Zangrandi fino a quel momento era stato grande amico, ndr) partì “volontario”, in omaggio al desiderio del padre, per la guerra d’Africa. Lo accompagnavano il fratello Bruno, il cugino Vito, il cognato Galeazzo, Ettore Muti, Arturo Riccardi e tutta la corte dei suoi amici più recenti, con i quali non avevo mai legato. Mi fu facile, grazie anche alla mia miopia, declinare l’invito, del resto cordiale, di accodarmi alla comitiva. […] Sebbene, durante il suo soggiorno in Etiopia, ci fossimo tenuti in affettuosa e franca corrispondenza, quand’egli rientrò, nell’estate del ’36, molte cose erano cambiate in entrambi. E fuori di noi. Vittorio non era più il ragazzone scanzonato e bonario degli anni del liceo e io non avevo più la coscienza pulita nei suoi confronti: navigavo sul filo di una corrente che doveva fatalmente condurmi lontano da lui. […] Gradualmente, comunque, a partire dal ’37, diradammo i nostri incontri quasi per tacita intesa. Fino a che la guerra ci travolse, ognuno dentro il suo gorgo».
E quella corrente di cui parla Zangrandi, non solo cominciò a covare in molti dei giovani che inizialmente avevano aderito in maniera entusiastica alla “rivoluzione fascista”, ma l’ambizione più fortemente totalitaria di quella ideologia, e cioè di creare un “uomo nuovo” interamente votato alla causa dello Stato fascista, fallì miseramente, trascinando la stessa figura del Duce, a posteriori, in una sorta di stravagante caricatura. Eppure se a noi oggi le pose e i discorsi di Benito Mussolini possono apparire ben poco credibili, per quei tempi egli operò, sulla scena politica internazionale, un cambiamento epocale nei modi di comunicazione e di creazione del consenso.
Scrive così Paul Corner nel suo prezioso studio “Italia fascista” edito da Carocci: «Non si vuole infatti negare che i miti, le immagini e i rituali del regime non incidessero sull’immaginario popolare, ma è nostra convinzione che furono soprattutto le condizioni di vita materiali – che dipendevano in buona misura dall’organizzazione del partito a livello locale – a incidere sull’atteggiamento popolare nei confronti del fascismo. […] Se la popolazione non seguì l’esempio dei fascisti di fede assoluta, e se non si realizzò la trasformazione degli italiani negli “uomini nuovi”, fu perché l’esperienza quotidiana era profondamente negativa. In parte ciò fu dovuto al progressivo peggioramento delle condizioni economiche generali nel corso degli anni ’30, ma in parte dipese anche dal contrasto tra quanto il fascismo sosteneva a livello nazionale e il modo in cui si comportava nelle province. La gerarchia fascista – corrotta, tutta tesa a mantenere i suoi privilegi e non di rado violenta – si guadagnò l’appellativo di “casta”, in quanto oligarchia ingiusta, intoccabile e destinata inevitabilmente a suscitare un’acuta irritazione popolare, soprattutto in tempi di crisi economica, quando i sacrifici non erano evidentemente distribuiti in modo uniforme».
Specie in montagna è facile desumere, osservando i contratti stabiliti fra braccianti, contadini e padroni di terre (fossero di mezzadria o altra forma anche solo verbale e/o simbolica nel senso di riti addirittura di radice medievale essendo larga fetta della popolazione poco più che analfabeta nelle generazioni più anziane), che le condizioni degli agricoltori non fossero migliorate anzi peggiorate, sotto lo scudo protettivo offerto dalla violenza fascista ai signorotti locali, su coloro che cercavano di ottenere contratti meno umilianti e condizioni più umane nello svolgimento di lavori logoranti ed estremamente pesanti.
Inoltre le politiche del regime con specifiche leggi, già all’inizio dei primi anni ’30, portarono a contrastare fortemente le migrazioni sia interne che all’estero per evitare, da un lato l’inurbamento delle città, e dall’altro la fuga di popolazione maschile che si voleva disponibile e guerriera in un’ottica di espansione di quello che poi venne chiamato, in modo quasi farsesco, “impero”. Cosicché anche le zone di montagna subirono una forte crescita demografica che contrastava con la penuria delle risorse e degli investimenti presenti nel territorio, contribuendo a creare una elevata domanda di lavoro e di conseguenza paghe più basse con ancora maggiore e crescente miseria.
Già questo basterebbe a fugare i dubbi sulla presunta bontà sociale operata dallo stato totalitario fascista nei confronti delle classi popolari, ma la conferma delle vicissitudini patite dagli abitanti della montagna vengono scolpite da un elemento chiave per l’analisi: vale a dire la forte emigrazione che si mise in moto nelle nostre zone appenniniche. Nonostante il governo del fascio provasse a mettere il freno agli spostamenti, nei fatti ciò non accadde semplicemente perché era impossibile contrastare il desiderio alla sopravvivenza di uomini spinti a tutto da condizioni di estrema povertà. E quando i giovani, o una larga fetta di popolazione, sono costretti a emigrare significa che sussiste, in un territorio o area specifica, un contesto di forte malessere economico. Per provare questa tesi viene buono l’estratto di uno studio portato a termine dal sottoscritto dal titolo: “La montagna attraverso i censimenti della popolazione (1921-1951)” pubblicato all’interno del libro “La montagna e la guerra. L’Appennino bolognese fra Savena e Reno 1940-1945” Edizioni Aspasia – 1999. E’ chiaro, come si potrà evincere dalla sua lettura, che la guerra in africa del 1936 si offrì come l’occasione per dare sfogo a una situazione sociale divenuta, in certe aree economicamente depresse, praticamente insostenibile. Non a caso, coloro che partiranno verso l’Abissinia, saranno per la gran parte giovani maschi della montagna.
Guerra in Africa orientale che molti giornalisti, al soldo di un revisionismo storico tutto nostrano con la precisa volontà atta a creare un’operazione di banalizzazione del regime mussoliniano (intento politico ben preciso utile a sdoganare forze neofasciste relegate ai margini dell’arco costituzionale), hanno ribattezzato “colonialismo dal volto umano”. Dimenticando così: i gas del Generale Rodolfo Graziani e di Pietro Badoglio (addirittura promosso a Duca di Addis Abeba), le impiccagioni sommarie dei ribelli etiopi e la violenza generalizzata su un popolo: violenza che troverà poi la sua drammatica teorizzazione nelle leggi razziali del 1938. Buona lettura.
Lo sfruttamento delle classi povere come causa delle migrazioni interne e dell’emigrazione verso le colonie dell’Africa orientale
Nel confrontare i dati tra la popolazione residente e la popolazione presente appare chiaro come la prima sia sempre e comunque inferiore alla seconda categoria di classificazione. La montagna era dunque un luogo che non assicurava a tutti i suoi abitanti sufficienti mezzi di sussistenza e dunque costringeva larghe fette di popolazione all’emigrazione. Va sottolineato come contribuisse a determinare tale stato di cose la forte sperequazione nella distribuzione delle risorse prodotte dall’agricoltura montana in virtù di contratti fortemente sbilanciati in favore dei proprietari terrieri.
Dal censimento del 1936 risultava, nell’agricoltura, la seguente distribuzione delle famiglie residenti secondo la condizione sociale del capo famiglia nella Regione di montagna[1]:
Tabella 1 – Numero delle famiglie impiegate in agricoltura nella Regione di montagna secondo la condizione sociale del capo famiglia.
padroni | coloni parziari | braccianti | |
Numero di famiglie
impiegate in agricoltura |
488 |
4.494 |
3.272 |
fonte: Istat, VIII censimento generale della popolazione- 21 aprile 1936, elaborazione dell’autore.
Considerando che i braccianti prestavano la loro opera saltuariamente anche presso i padroni, si potrebbe annotare che, mediamente, per una famiglia di padroni ne lavoravano sedici di coloni parziari e braccianti. Tuttavia il rapporto è sovrastimato, in quanto i braccianti lavoravano appunto saltuariamente e anche per i conduttori-coltivatori[2] (in numero di 4.343). Appare evidente che la distribuzione delle risorse oltre che iniqua, risultava profondamente sfavorevole al mantenimento di un numero elevato di persone in luoghi che già la natura contribuiva a rendere inospitali. L’emigrazione dunque per parte delle famiglie o dei capi-famiglia era l’unica via obbligata per la sopravvivenza.
Tabella 2 – Popolazione maschile emigrata e residente suddivisa per aree geografiche.
M emigrati | M totale | % | |
Regioni di montagna | l.669 | 56.379· | 2,96 |
Alto colle di Pianoro | 477 | 19.457 | 2,45 |
Regioni di pianura | 2.099 | 95.396 | 2,2 |
fonte: Istat, VIII censimento generale della popolazione – 21 aprile 1936, elaborazione dell’autore.
La tabella 2 evidenzia e conferma come la predisposizione all’emigrazione stagionale fosse più accentuata per le regioni di montagna rispetto a quelle collinari e di pianura.
I luoghi di destinazione dell’emigrazione erano prevalentemente le miniere della Germania e del Belgio, la Romagna e la Maremma toscana. In quest’ultima erano diretti la gran parte degli stagionali e in montagna, a questo proposito, è noto un proverbio che testimonia come le migrazioni in terra toscana avessero lasciato un segno nella memoria popolare: «Anden véia a cavai di Sént e a turnén a cavai ed Sen Jusèf / Andiamo via a cavallo dei Santi e torniamo a cavallo di San Giuseppe»[3], dove a cavallo sta per intorno e il riferimento ai mesi di novembre e marzo è del tutto evidente. In Maremma si abbattevano alberi per legna e carbonella, scavavano fossi per la regimentazione delle acque e si facevano scassi per le viti, lavori duri e poco pagati.
Anche la migrazione stagionale in Romagna era diffusa e assai praticata nei mesi della mietitura, quando durante un breve periodo occorreva un numero elevato di braccianti per tagliare le immense distese di grano delle pianure dell’imolese e del ravennate col solo strumento tecnico, si fa per dire, della falce. Così racconta Terziglio Santi: «I mietitori erano tutti a gruppetti di due, tre o quattro, e cominciarono ad arrivare dei biroccini che si fermavano nelle vie adiacenti alla piazza e dai quali cominciarono a scendere i reggitori[4] venendo verso di noi… Si avvicinarono a questo o quel gruppetto di mietitori e con una certa arroganza si rivolgevano a quello che ritenevano il capo così esprimendosi:
“Volete vendervi, voi?” Ovviamente la risposta era sempre affermativa e allora cominciavano le trattative per il prezzo a giornata, cioè dall’alba all’imbrunire»[5].
L’emigrazione stagionale era una caratteristica non solo maschile, anzi in certi comuni – San Benedetto, Pianoro e Monzuno – al censimento del 1931 la forbice tra popolazione residente e presente era più accentuata per le donne. La mansione che veniva svolta era nella gran parte dei casi quello che oggi si chiama lavoro di “collaboratrice familiare”, ma che allora veniva più crudamente definito come “l’andar per serva”. Tale divario nei censimenti successivi tenderà a scomparire rimanendo rilevante nel 1936 solo per i maschi, fino a cessare quasi nel 1951 a fronte di un forte spopolamento dei centri della montagna.
L’aumento dei flussi di emigrazione, verificatosi nel periodo immediatamente seguente la fine della Grande guerra, ha in parte attenuato le capacità espansive della popolazione montana. Infatti, a partire dal censimento del 1861, la popolazione dei comuni montani è in continua crescita grazie all’aumento del tasso d’incremento naturale, per effetto dell’aumento della speranza di vita e della riduzione della mortalità. A partire dagli anni ’20 inizia l’emigrazione, non solo stagionale, determinando un sensibile decremento demografico e una forbice sempre più ampia tra popolazione residente e popolazione presente. Tale forbice si attenua, fino quasi a scomparire, agli inizi degli anni ’50 quando per i comuni della montagna inizia un lento ma inesorabile declino demografico.
Tabella 3 – Totale della popolazione residente e presente, variazione percentuale della popolazione residente e dell’emigrazione stagionale di tutti i comuni presi in esame per tutti gli anni del censimento dal 1901 al 1961.
fonte: Istat, Censimento generale della popolazione, elaborazione dell’autore.
È facile constatare come in pieno sviluppo e consolidamento del regime fascista i benefici per la popolazione montana erano del tutto inesistenti: lo squilibrio nell’utilizzazione delle risorse e la totale assenza di programmazione economica portarono ben presto al raggiungimento, come mai in passato, di forti tassi di emigrazione non solo stagionale, nonostante il governo nazionale cercasse in ogni modo di evitare, con il varo di specifiche leggi all’inizio e a metà degli anni ‘30, di contrastare sia l’inurbamento delle città sia l’emigrazione all’estero.
Non è da escludere che, con la guerra in Etiopia, il regime di Mussolini tentasse di offrire lo sfogo alla crescente pressione di domanda di lavoro che veniva principalmente dal Sud d’Italia ma anche dalle regioni dove c’era una forte concentrazione di manodopera bracciantile e/o disoccupata. La fuga della popolazione dalla montagna trovò conseguentemente sbocco anche nei possedimenti italiani dell’Africa. La caratteristica di questa emigrazione fu d’essere totalmente maschile; solo una donna, così risulta dai dati, residente a Monzuno partecipò all’emigrazione africana. La tabella 4 mostra comune per comune quale fu la portata e l’incidenza di tale evento sul totale della popolazione maschile residente a quel tempo (censimento del 1936).
Tabella 4 – Numero di maschi emigrati nelle colonie dell’Africa orientale e percentuale sulla popolazione residente maschile di ciascun comune. La classifica evidenzia in ordine crescente i comuni maggiormente esposti al fenomeno.
M | MR | % | Classifica | |
Castiglione | 152 | 4428 | 3,43 | 2° |
Grizzana | 63 | 3251 | 1,94 | 10° |
Loiano | 65 | 2467 | 2.63 | 6° |
Marzabotto | 83 | 3230 | 2,57 | 8° |
Monghidoro | 79 | 2538 | 3,11 | 4° |
Monzuno | 112 | 3285 | 3,41 | 3° |
Pianoro | 136 | 5223 | 2,6 | 7° |
San Benedetto | 146 | 3552 | 4,1 l | 1° |
Sasso Bolognese | 128 | 5814 | 2,2 | 9° |
Vergato | 98 | 3587 | 2,73 | 5° |
fonte: Istat, VIII censimento generale della popolazione – 21 aprile 1936, elaborazione dell’autore.
Il fenomeno potrà apparire marginale, ma così non è se si considera che gli emigranti erano prevalentemente giovani di età compresa tra i venti e i trent’anni e che quindi l’incidenza sulle rispettive classi d’ età fu assai cospicua.
Si potrebbe inoltre pensare di stilare una classifica di povertà dei comuni in base alla più alta percentuale di emigrazione: leggendo la tabella sopra riportata si evince infatti che l’emigrazione per l’Africa era maggiore per i comuni ubicati in montagna, seguiti via via da quelli di collina e pianura. Fa eccezione Grizzana, con la percentuale più bassa, non sappiamo per quali motivi. Dunque scarsezza di lavoro e fame spinsero molti giovani a intraprendere l’avventura in terra d’Africa, con quali esiti nessuno potrà mai sapere se non da racconti e storie de nostri ‘vecchi’.
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[1] Comprendeva le seguenti tre zone: I-Alta montagna della Porretta, II-Media montagna del Reno, III- Media montagna del Setta e Savena.
[2] Vale a dire coloro che lavoravano in proprio la terra, che però impiegavano al bisogno i braccianti.
[3] A. Simoncini, Il tempo delle favole, Bologna, Edagricole, p. 65.
[4] Coloro che avevano il compito di dirigere i lavori del podere.
[5] T. Santi, Via a piedi per andare e mietere In pianura, in «Savena Setta Sambro», periodico semestrale, fascicolo l0 giugno 1996.
[6] Il dato assoluto è ottenuto dalla differenza tra popolazione residente e presente.