Il ’68 a Bologna (2/2)
di Andrea Rapini
3. Dall’università alla società (giugno 1968 – dicembre 1969)*
Tra i vari soggetti sociali quello che per sua natura si configura come antisistema, anticapitalistico e oggettivamente eversivo rispetto all’ordine dato non è che la classe operaia fordista. Così almeno credono gli studenti, immersi in larga parte nelle categorie politiche della modernità. E così comincia la loro “transumanza” verso le fabbriche, non soltanto sulla base di una generica solidarietà nei confronti della “classe sfruttata” o per balordo ideologismo, ma soprattutto alla luce della riflessione, maturata durante le occupazioni, che dipinge lo studente come una forza-lavoro intellettuale in formazione destinata comunque ad essere proletarizzata. Da qui discende la convinzione che tra studenti e operai si possa realizzare una saldatura sulla base della comune condizione materiale di salariati subalterni, per poi muovere insieme alla trasformazione radicale della società, in una parola per “fare insieme la rivoluzione”.
E gli operai bolognesi? Come un orologio perfettamente sincronizzato che sembrava dare ragione alle tesi studentesche, dalla primavera del 1968 e con ritmo sempre più crescente, anche loro scioperano, occupano, manifestano, si riuniscono in assemblea. La piccola e media impresa bolognese vive l’incubazione del suo “autunno caldo” del ’69: dapprima si attivano gli operai della Weber, Sabiem, Menarini, Ravaglioli, Acma, Cevolani e Minganti; poi da giugno ad agosto segue la Pancaldi, che viene occupata e in ottobre è la volta della Ducati; a dicembre sono le commesse dei grandi magazzini a scioperare con gli studenti che manifestano con loro lungo via Rizzoli e via dei Mille. A sostegno delle varie vertenze aziendali Fiom, Fim e Uilm indicono il 7 giugno 1968 uno sciopero generale della categoria che ha per oggetto il salario, l’orario, il cottimo, le qualifiche e la nocività (alla Pancaldi soprattutto, denunciata da una inchiesta condotta da un gruppo di studenti di Medicina). Con l’anno nuovo l’agitazione si moltiplica: all’inizio di gennaio alla Sasib, alla fine del mese alla Ico, alla Bouton, alla Weber, alla Sabiem, poi a febbraio ancora alla Sasib, in marzo alla Longo con scontri tra studenti, operai e polizia che portano all’arresto di sette studenti e una operaia (a maggio Stefano Grossi sarà rilasciato in libertà provvisoria, mentre Giuseppe Gardogna, Roberto Martucci, Franco Berardi, Otello Ciavatti, Massimo Serafini, Giancarlo Stisi e Gabriella Pirani saranno condannati con la condizionale) e così seguitando con i braccianti che a giugno “invadono” Bologna e occupano la sede dell’Ente Delta e i lavoratori del Cnen che spengono il reattore nucleare di Montecuccolino. Insomma, se in provincia nel 1967 si erano già fatte 2.435.077 ore di sciopero, nel biennio 1968-69 le cifre diventano queste: 1.100.000 ore di sciopero per vertenze aziendali, 400.000 ore di sciopero per vertenze provinciali di categoria, 2.150.000 ore di sciopero per la riforma del pensionamento e ben 7.700.000 ore di sciopero per il rinnovo contrattuale (cfr. Fabrizio Billi, Le lotte operaie e il sindacato a Bologna nel ’67-’69, in AA.VV., Tra immaginazione e programmazione: Bologna di fronte al ’68, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1998).
Naturalmente l’incontro degli operai con gli studenti non è completamente indolore. All’interno e davanti ai cancelli delle fabbriche si pone, in primo luogo, il problema del rapporto con il sindacato ed il Pci che a Bologna, nonostante alcuni spazi di dissenso e di contestazione conservano l’egemonia sul movimento operaio. Tale questione, come ricorda Maria Grazia Negrini, contraddistingue in particolare le lotte delle fabbriche a Santa Viola, dove il radicamento del partito e del sindacato è maggiore rispetto che alla Bolognina:
in generale alla Bolognina… tutti i leaders sindacali della zona facevano riferimento a noi (Belinelli, Sassi, Inghilesi). Diversa era la situazione a Santa Viola dove esisteva un sindacato che non dava spazio a nessuno all’infuori del Pci, sicché lì intervenivano soltanto gli studenti comunisti. Soprattutto alla Sabiem il sindacato e il Pci non ti davano proprio nessun spazio, era impossibile presentarsi davanti alle fabbriche. A Santa Viola c’era solo un gruppo che faceva intervento alla Ducati con Valerio Monteventi e Luciano Nadalini, era un gruppo molto duro che faceva molto lavoro dentro la fabbrica.
Lo conferma anche Cosimo Braccesi, all’epoca studente e poi militante sindacale:
dove la Fiom era molto più forte, come a Santa Viola, gli studenti non mettevano piede… Alla Bolognina invece il sindacato era stato spazzato via fin dagli anni cinquanta… e lì gli operai prendevano volentieri i volantini attraverso il cancello, ma quando veniva fuori la “cavalieressa” Minganti, donna d’acciaio che guidava la fabbrica, nessuno aveva più il coraggio di prenderli. Era questo il clima, e per questo dico che, senza gli studenti, le organizzazioni sindacali avrebbero trovato una mediazione, un accordo col padronato… Ma senza questo incontro la nuova leva di operai, che hanno poi guidato le lotte, avrebbe avuto meno forza.
Gli studenti devono anche affrontare il problema della diffidenza operaia, che per principio grava su di loro. E’ una diffidenza che coinvolge tutta la “cultura” considerata come uno strumento di oppressione dei lavoratori e impersonificata quotidianamente dai “capi” di fabbrica, dagli ingegneri, dai professori che a scuola spiegano che i figli degli operai non sono “portati per lo studio”. Progressivamente questa diffidenza viene erosa dall’impegno testardo degli studenti davanti ai cancelli. Racconta Bruno Giorgini:
gli operai ti accoglievano bene perché aumentavi molto il loro grado di libertà. La Costituzione in Italia si era sempre fermata ai cancelli delle fabbriche, col movimento ha cominciato ad entrare un pochino in fabbrica, anche se poi è stata ributtata fuori… C’erano iniziative sulla sanità, sulla mensa: per esempio in molte fabbriche non c’era la mensa e molti operai venivano a magiare alla mensa universitaria. Nello stesso tempo c’erano però anche difficoltà con gli operai, quelli comunisti in particolare, difficoltà profonde… Gli operai più vecchi dicevano che poi alla fine noi studenti stavamo al caldo e tornavamo a studiare e ci saremmo laureati mentre loro rimanevano operai di seconda o terza categoria, c’era una sorta di diffidenza oggettiva, di condizioni materiali di vita che era innegabile, per cui noi potevamo rischiare di più e loro di meno… Nello stesso tempo però gli operai erano molto contenti perché facevamo i picchetti; c’è stato un periodo che facevamo i picchetti tutte le mattine alla Ducati, alla Menarini, alla Sasib, alla Minganti, alla Ico. Rispetto al Pci e al sindacato, certo c’era il timore che gli studenti si rapportassero agli operai direttamente, senza la loro mediazione. Ci fu anche chi tentò di inglobarci, la Fiom in particolare, di prendere alcuni studenti e fargli fare la formazione quadro e anch’io ho partecipato, ma per pochissimo tempo. Invece verso gli studenti più radicali, più estremisti, c’era una tendenza non dico a picchiarli, ma a tenerli lontani: voi pascolate nella vostra scuola che noi pascoliamo nella nostra fabbrica.
Comunque l’esempio più significativo di concretizzazione dell’incontro tra università e fabbrica, capace di oltrepassare il formalismo della consegna del volantino e di dare corpo ad un reale scambio politico, è costituito dai comitati operai-studenti che fioriscono sin dall’estate del 1968. La testimonianza di Valerio Monteventi, allora studente medio, illumina nei dettagli il funzionamento concreto del comitato operai-studenti della Ducati a Santa Viola:
quando in università si decise l’intervento degli studenti davanti alle fabbriche, la città venne suddivisa in zone e ogni collettivo di facoltà andò a fare interventi davanti alle fabbriche di una zona: Scienze politiche a Santa Viola, Lettere alla Minganti e alla Sasib… Io, dato che abitavo ad Anzola, partecipai al gruppo di intervento alla Ducati che era vicina a casa mia. Tutti i giorni si faceva volantinaggio la mattina alle 7, andavo a volantinare prima di andare a scuola e poi a mezzogiorno, durante la pausa pranzo, si andava a fare la discussione sul volantino. Allora alla Ducati c’erano circa 3.000 operaie e 2-300 operai. Il nostro intervento produsse poi la lotta del ’69. Si formò un comitato operai-studenti che poi divenne il comitato operaio della Ducati. Alcuni membri di questo comitato furono licenziati nel ’69 durante la vertenza aziendale e si fece quindi la battaglia contro questi licenziamenti politici. Nel ’68 io, oltre a distribuire i volantini, ascoltavo i compagni più grandi per imparare. C’era una cosa curiosa: nell’approccio venivano usate le compagne nei confronti degli operai. Non so se fosse una cosa preordinata, ma le compagne venivano usate per attirare gli operai, poi si cominciava il lavoro di “intorto” ideologico perché se le compagne si presentavano in minigonna e quant’altro, producevano un certo tipo di risultato. La cosa funzionava perché negli operai c’era un certo tipo di mentalità. Il comitato operai-studenti si riuniva una volta alla settimana nel bar sotto il portico dove c’è la fermata dell’autobus della Ducati. Alle 5,30 si faceva la riunione per decidere le cose da farsi e si decidevano i volantini. Certe proposte furono elaborate dal comitato, come quella che scandalizzò di più il sindacato: gli aumenti salariali uguali per tutti, cioè la tematica dell’egualitarismo, e poi le 40 ore di lavoro… Il comitato era effettivamente composto da operai e studenti: alle riunioni partecipavano una ventina di operai e 8-10 studenti, quasi tutti universitari, i medi eravamo io e un altro ragazzo di 16 anni.
Nonostante la durezza manifestata sul principio, allorché si temeva l’usurpazione della rappresentanza operaia, la Cgil, segnatamente la Fiom, più del Partito comunista recepisce le istanze di rinnovamento provenienti dalla contestazione e ne assorbe alcuni quadri (come Cosimo Braccesi, Francesco Garibaldo, Claudio Sabattini, Giorgio Cremaschi) cambiando profondamente il proprio gruppo dirigente. Poi l’elezione di Claudio Sabattini a segretario della Fiom nel 1970 esprimerà questa capacità di rigenerazione, testimoniando una sensibilità spiccata versi i fermenti e le dinamiche sociali. Nascerà allora il cosiddetto “sindacato dei consigli” incentrato sulla democrazia diretta e sul radicamento nei luoghi di lavoro.
Questa terza fase del movimento bolognese non si esaurisce però nel raccordo tra fabbrica ed università. Mentre proseguono le occupazioni di facoltà, ripetutamente occupate, disoccupate e rioccupate (a Economia e Commercio, durante un consiglio di facoltà allargato, il preside viene a diverbio con un assistente e aggredisce fisicamente uno studento, la facoltà finisce subito occupata), l’agitazione si estende agli istituti superiori Aldini-Valeriani, Marconi, Pier Crescenzi, Galvani, Itis, Fermi, Righi, Pacinotti. L’istituto professionale femminile “Rubbiani”, occupato a marzo, è sgomberato dalla polizia con due studentesse denunciate, dodici sospese per un mese e un centinaio che prendono sei in condotta; altrettanto all’istituto magistrale “Laura Bassi” per uno sciopero ad ottobre: 10 studentesse sospese per 3 giorni ed una nota disciplinare ad altre 100.
Ma ormai la protesta giovanile innerva ogni settore sociale, prefigurando quell’attivismo della società civile che sarà tipico gli anni a venire. Qui ci si limiterà a segnalare alcune esperienze di rilievo. La carcerazione di alcuni studenti (nel 1967, ma anche nel marzo 1969) a seguito delle agitazioni di piazza provoca una fitta sequenza di mobilitazioni davanti al carcere di San Giovanni in Monte, con i detenuti all’interno che attuano lo sciopero della fame oppure si rifiutano di tornare in cella dopo l’ora d’aria (in questo caso dovrà intervenire la Celere), accelerando la diffusione delle lotte per i diritti dei carcerati fuori e dentro l’“istituzione totale”. Ma c’è pure lo sciopero degli assistenti volontari e dei medici interni del Policlinico “S. Orsola” che chiedono il riconoscimento della personalità professionale, e poi l’occupazione dell’Istituto per ciechi “F. Cavazza” di via Castiglione da parte dei suoi “convittori”, e ancora lo sciopero dei sanitari dell’ospedale psichiatrico “Roncati” di via Sant’Isaia, in cui le discussioni sulla non neutralità della scienza, per tanti mesi confinate all’interno degli atenei o nelle pagine delle riviste, sostanziano una significativa pratica antipsichiatrica.
Alla fine del 1969 al movimento studentesco si sostituiscono poi i vari gruppi della Nuova Sinistra (Lotta continua e Servire il popolo, Avanguardia operaia e Potere operaio), ma sarà lo scoppio della bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (16 morti e 84 feriti) ad aprire una fase politica decisamente – e terroristicamente – diversa: quella della “strategia della tensione”.
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* Per i riferimenti bibliografici e archivistici si rinvia a Andrea Rapini, “Per una storia del movimento studentesco: il caso bolognese”, Annali dell’Istituto Gramsci Emilia-Romagna, vol. 2/3, 2000, pp. 153-179.