I Romani vinti dalla ricchezza e dal potere – da Sallustio, La congiura di Catilina, 10-14
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Caio Sallustio Crispo (86 – 36 o 35 a.C.) divenne storico della società romana dopo essersi ritirato dalla vita politica cui aveva partecipato fra i partigiani di Cesare. Visse da testimone la crisi della repubblica: gli ultimi anni della crudele dittatura di Silla, le lotte per il primato in Roma fra Cesare e Pompeo e, ucciso Cesare, fra Ottaviano e Antonio, che trasformarono la secolare repubblica di Roma nell’impero di Augusto. Tempi di profondi sconvolgimenti politici e sociali, che videro i tradizionali valori del popolo romano sovvertiti dalle immense ricchezze e dal potere mondiale che si concentrarono in Roma. Da La congiura di Catilina (l’altra sua monografia storica è La guerra giugurtina) propongo una pagina esemplare: come non riconoscere anche il nostro tempo nel decadimento di Roma sotto l’imperversare del culto del denaro? Le passioni degli uomini evidentemente non mutano. La traduzione, per l’UTET, è di Paolo Frassinetti e Lucia di Salvo.
Quando però la repubblica si fu incrementata con l’operosità e la giustizia… e genti barbare e popolazioni ingenti furono sottomesse con la guerra… e tutti i mari e tutte le terre si aprivano a Roma, allora la fortuna prese a infuriare e a sconvolgere ogni cosa. Quegli uomini che avevano saputo sopportare facilmente fatiche, pericoli, incertezze, avversità, proprio ad essi le ricchezze e la tranquillità, beni desiderabili in altre circostanze, riuscirono gravose e perniciose. Pertanto crebbe dapprima la bramosia di denaro, poi l’ambizione di potere; e queste due passioni furono all’origine di tutti i mali. Infatti la cupidigia sovvertì la lealtà, la probità e ogni altra virtù, e in loro vece insegnò la tracotanza, la crudeltà, la trascuratezza verso gli dei, l’opinione di una venalità universale. L’ambizione indusse molti uomini a divenire ingannatori, a celare nell’intimo una cosa e altra ad esprimerne con le labbra, a valutare le amicizie e le inimicizie non secondo verità ma in base al proprio interesse, ad aver buono più l’aspetto che l’animo. Mali che dapprima si svilupparono lentamente e talvolta vennero anche puniti: ma in seguito, quando il contagio dilagò come una pestilenza, la città ne fu trasformata e il governo, da giustissimo e virtuosissimo, divenne crudele e intollerabile.
Dapprincipio, per la verità, più che la cupidigia di denaro tormentava gli animi l’ambizione, passione che, tuttavia, era assai vicina alla virtù. La gloria, gli onori, il potere li ambiscono infatti egualmente l’uomo di valore e l’inetto; anche se quello si sforza di giungervi per la retta via, e questo, dal momento che gli mancano le capacità, vi tende con inganni e imposture. L’avarizia invece comporta brama di denaro, cosa che nessun saggio ha mai desiderato; essa, come impregnata di veleni malefici, fiacca nell’uomo il corpo e l’anima, non conosce infatti limiti, non è mai sazia, non si attenua né per abbondanza né per penuria.
Ma dopo che Lucio Silla, conquistato il potere con le armi, fece seguire a buoni principi funeste conclusioni, tutti si diedero alla rapina e al saccheggio…; i vincitori non conoscevano né misura né moderazione, e perpetravano contro i cittadini scelleratezze e crudeltà. Inoltre Lucio Silla, per assicurarsi la fedeltà dell’esercito che aveva comandato in Asia, contrariamente al costume dei padri, gli aveva concesso di vivere nei piaceri e in una eccessiva licenza… Per la prima volta, l’esercito romano si avvezzò ai facili amori, al bere smodato, prese ad ammirare stupito statue, quadri, vasi cesellati, a rubarli da case private e da luoghi pubblici, a spogliare i templi, a contaminare sacro e profano. Così quei soldati, dopo aver conseguito la vittoria, nulla lasciarono ai vinti. Infatti la propizia fortuna snerva anche l’animo dei saggi; figuriamoci se uomini di corrotti costumi potevano serbare moderazione nella vittoria!
Dopo che si cominciò a tenere in pregio il denaro, e gloria, autorità, potere ne furono conseguenza, la povertà fu considerata un disonore, e l’integrità passò per malanimo. Così, per effetto delle ricchezze, lussuria, avidità e arroganza invasero l’animo dei giovani; rubavano, sperperavano, non tenevano in nessun conto le proprie sostanze, bramavano quelle altrui, confondevano nello stesso disprezzo decoro e pudicizia, leggi divine e umane, senza scrupolo né moderazione. Varrebbe la pena, dopo aver visto i nostri palazzi e le ville grandi come città, soffermarsi a guardare i templi innalzati agli dèi dai nostri antenati, uomini religiosissimi. Ma quelli ornavano i templi degli dèi con sentimento religioso, le loro case con la gloria, e ai vinti nulla toglievano al di fuori della possibilità di nuocere. Questi al contrario, individui sommamente vili, rubano con inaudita ribalderia agli alleati tutto ciò che uomini di grande valore, dopo la vittoria, avevano lasciato ai vinti; come se commettere ingiustizie fosse il solo modo di esercitare il potere.
… E si era non meno diffuso il piacere della lussuria, delle gozzoviglie, di ogni altra voluttuosa raffinatezza: uomini che si prostituivano come donne; donne che mettevano all’incanto il pudore; si frugavano mari e terre per appagare la gola; dormivano prima di avere sonno; non attendevano gli stimoli naturali della fame, della sete, del freddo, della stanchezza, ma tutti li prevenivano per raffinatezza. Queste abitudini, una volta dilapidato il patrimonio familiare, incitavano i giovani alla delinquenza; l’animo imbevuto di vizi non poteva facilmente rinunciare alle proprie passioni, così che ancora più sfrenatamente si abbandonava in mille modi al guadagno e allo sperpero.
In una città così vasta e così corrotta, Catilina non aveva difficoltà a raccogliere intorno a sé, quasi come satelliti, bande di uomini turpi e scellerati. Quanti disonesti, adulteri, crapuloni, avevano dissipato i beni familiari col gioco, con la crapula, con la lussuria, quanti avevano contratto debiti enormi per comperare l’impunità di infamie o di delitti, quanti, inoltre, convenuti da ogni parte, erano assassini, sacrileghi, già condannati in processi o timorosi della condanna per le loro azioni, e ancora coloro che la mano e la lingua sostentavano con lo spergiuro e l’uccisione di cittadini, insomma, tutti quelli che erano travagliati dal disonore, dalla miseria, dal rimorso, questi erano gli amici intimi di Catilina. Che se poi qualcuno, ancora immune da colpe, incappava nella sua amicizia, con la convivenza abituale e con le lusinghe, diveniva facilmente pari e simile agli altri. Egli però cercava soprattutto la familiarità dei giovani, l’animo dei quali, malleabile e incostante, si lasciava facilmente irretire dagli inganni. Infatti, a seconda della passione che l’età giovanile accendeva in ognuno, ad alcuni procurava donne, ad altri comperava cani e cavalli: in una parola non risparmiava né denaro né decoro pur di ottenere da parte loro sottomissione e fedeltà.