Alessandro il Grande – da Plutarco, Le vite parallele, Vita di Alessandro (Volume secondo/tomo I, p. 3-79, passim)
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Plutarco, nato a Cheronea, in Grecia, fra il 45 e il 50 e a Cheronea morto dopo il 120, è stato per secoli scrittore di fama, amato e ammirato dagli studiosi greci, latini, cristiani del mondo antico per Le vite parallele e le Opere morali. Con la rinascita umanistica e l’arrivo dei dotti bizantini in Italia, anche in Occidente iniziò la diffusione delle sue opere che divennero ben presto di culto. Dal Cinquecento all’Ottocento, soprattutto Le vite parallele, rappresentarono il simbolo dell’ideale umanistico e i suoi eroi esempi di perfezione morale. Del resto Plutarco stesso scrisse: Mi accadde di mettere mano a queste biografie (…) con l’intento di adornare ed elevare la mia vita mediante la storia, come si fa in uno specchio, alla luce delle virtù di quei grandi. La conoscenza della storia, dunque, dei suoi protagonisti nel bene e nel male, è un mezzo per apprendere ciò che nella vita di ciascuno veramente conta. Ritengo che anche questo nostro astorico presente ne beneficerebbe. La traduzione dal greco è di Almerico Ribera per le edizioni Sansoni. Dalle Vite parallele trascrivo alcuni brani della vita di Alessandro: la nascita, l’omaggio ad Achille, la notte innanzi la battaglia di Gaugamela, la morte.
Si narra che Filippo venne istruito in Samotracia nelle cose sacre, unitamente ad Olimpia, quando era ancora giovinetto e si innamorò di lei, orfana dei genitori; ivi egli concertò le nozze, dopo averne persuaso Arimba, fratello di lei. Alla sposa, proprio alla vigilia della loro unione, parve che, scoppiato un tuono, il fulmine le cadesse sul ventre e da quell’urto si suscitasse una gran fiamma, che lingueggiando dappertutto finì col dileguarsi e sparire (…) Una volta fu anche venduto un drago disteso lungo il corpo di Olimpia, mentre ella dormiva; e si dice che questo fatto rallentasse la tenerezza di Filippo per lei, e perciò non andò più a coricarsi frequentemente con la moglie, o perché temesse qualche sortilegio o malìa di lei, o perché evitasse di avere relazioni con lei per motivi religiosi, come se ella si accoppiasse con un essere superiore ad un uomo. (…)
A Filippo, che da poco aveva preso Potidea, furono dati tre annunci contemporaneamente: uno che gli Illiri erano stati vinti in una grande battaglia da Parmenione; l’altro che il suo cavallo aveva riportato vittoria nei giochi olimpici; il terzo che era nato Alessandro. Per queste notizie, come si può immaginare, Filippo fu molto lieto; ma ancora di più lo fu nell’animo suo, quando gli dissero gli indovini che quel bambino nato nel momento di tre vittorie sarebbe invincibile.
(…) passò l’Ellesponto ed arrivò ad Ilio, dove sacrificò a Minerva e fece libazioni agli eroi. Quando ebbe unta di olio la colonna di Achille, vi passò attorno nudo, secondo il rito, assieme ai suoi amici e la adornò di ghirlande chiamandolo beato, perché durante la vita aveva la fortuna di trovare un amico fedele e dopo e dopo morto un insigne cantore.
(…) Nel mese boedromione ebbe luogo un’eclissi di luna, all’inizio della solennità dei misteri in Atene. L’undicesima notte dopo quel fenomeno, Dario fece schierare il suo esercito, ispezionando i reparti alla luce delle torce. Alessandro lasciò in riposo i suoi Macedoni, trattenendosi davanti alla propria tenda con l’indovino Aristandro e facendo alcune funzioni sacre con delle offerte al Timore. I più vecchi degli amici suoi, e specialmente Parmenione, quando ebbero veduto la pianura che si estende dal fiume di Nifate ai monti Gordieni, tutta splendente per i lumi dei barbari e udirono un indistinto molteplice vocìo e uno strepito spaventevole venire da quel campo come da un mare immenso, meravigliati di tanta moltitudine, parlando tra loro dicevano che molto difficile impresa sarebbe stata quella di respingere tanta quantità di nemici, se si veniva a battaglia di giorno. Perciò se ne andarono dal re e, quando ebbe terminato i sacrifici, cercarono di persuaderlo ad assalire i nemici di notte, perché le tenebre celassero quanto di spaventevole potrebbe presentare un simile combattimento in piena luce. Ma egli rispose con le celebri parole:
– Io la vittoria non la rubo.
(…) Nei diari di corte fu così scritto della sua malattia:
«Nel decimo ottavo giorno del mese di desio (2 giugno 323 a.C.) andò a letto nella stanza da bagno perché sorpreso dalla febbre. Il giorno dopo, fatto il bagno, tornò in camera sua e vi si trattenne fino a tardi, giocando ai dadi con Medio. La sera, dopo essersi lavato nel bagno, aver fatto un sacrificio agli dei e mangiato alquanto, gli tornò la febbre che durò tutta la notte. Il ventesimo giorno, dopo essersi lavato nel bagno, fece nuovamente il consueto e sacrificio agli dei è messosi a sedere nella stessa stanza da bagno, si trattenne con Nearco, ascoltando ciò che questi gli narrava circa la navigazione compiuta sul gran mare. Il ventunesimo giorno, dopo le abituali cure, la febbre aumentò e le sue condizioni si aggravarono durante la notte; alla mattina seguente, quando la febbre salì ancora, trasportato presso l’altare, si mise a giacere e discorse coi suoi comandanti dei reparti privi di capitani, per assegnarvi persone meritevoli e pratiche. Il ventitreesimo giorno, avendo sempre febbre violenta, sacrificò e si fece portare alla sacra funzione, ordinando che i comandanti di più alto grado si trattenessero nella corte e i centurioni e i comandanti di compagnia facessero la guardia fuori durante la notte. Il ventiquattresimo giorno si fece portare nella reggia oltre il fiume e poté riposare alquanto; ma la febbre non diminuì, e quando i capitani si recarono da lui non fu più capace di parlare. In tale stato rimase durante tutto il giorno seguente: tanto che i Macedoni lo credettero morto e si raccolsero davanti alla porta, gridando e minacciando gli amici del re fino ad usar loro violenza. Aperte loro le porte, passarono ad uno ad uno in semplice tunica davanti al letto di lui. Nello stesso giorno Pitone e Seleuco, mandati al tempio di Serapide a interrogare il Nume se dovessero portarvi Alessandro, il Nume rispose che lo lasciassero dov’era. Il ventottesimo giorno dello stesso mese (13 giugno 323 a.C.) verso la sera spirò».
La maggior parte di queste notizie si trovano nei diari di corte parola per parola. Allora non vi fu alcuno che accennasse ad avvelenamento. Ma dicono che dopo sei anni, essendosi parlato di ciò, Olimpiade fece uccidere molti uomini e disperdere le ceneri di Iolao, morto in precedenza, come se fosse stato costui a versare il veleno nella tazza.
Asseriscono alcuni che sia stato Aristotele a consigliare ad Antipatro un tale delitto, e anzi di avergli fornito egli stesso il veleno, e aggiungono che ciò era stato raccontato da un certo Agnotemi, il quale a sua volta l’aveva udito dire dal re Antigono, e il veleno consisteva in una certa acqua fredda e ghiaccio scaturita da una da una certa roccia nei terreni di Nonacro. Quest’acqua viene raccolta come una minuta rugiada e versata in un’unghia di asino, perché nessun altro recipiente è capace di contenerla, per essere troppo gelata ed acida e quindi tale da spezzare tutti i vasi.
I più credono che il racconto di questo veleno sia una favola e adducono una prova non lieve: i capitani essendo stati discordi tra loro per molti giorni, lasciarono la salma del re in luoghi caldi e non arieggiati per altrettanto tempo senza prendersene troppo cura; ma il corpo non presentò alcun sintomo di corruzione da veleno e si conserva immune, come se fosse morto appena allora.