Gramsci a Wuhan*
di Valerio Romitelli
L’epoca d’oro della democrazia all’americana, ovvero neoliberale, è decollata col crollo del muro di Berlino e ha cominciato a declinare da quando Cina e Russia sono ridiventati protagonisti della scena mondiale. Se è vero che l’epoca in corso è caratterizzata dall’emergere del modo sovranista e populista di pensare e sperimentare la politica[1], ciò è possibile anche per il ritorno alla ribalta di questi due paesi ex comunisti, il primo dei quali restato tale almeno ufficialmente.
Anche le elezioni di Trump, così come molte sue scelte, sarebbero restate impensabili nel mondo precedente, quello nel quale gli Stati Uniti godevano di una superpotenza illimitata. Parecchi fatti storici cruciali attestano l’esaurirsi di questa supremazia globale di Washington. Tra di essi l’andamento della guerra in Siria, nel quale la distruzione sistematica del paese adottata per la Libia di Gheddafi è stata bloccata dall’intervento russo. Ma anche nell’emergenza pandemica, mentre gli Stati Uniti hanno dimostrato inefficienze disastrose, la Cina, nonostante tutte le calunnie occidentali, è apparsa capace di mettere in opera la soluzione di distanziamento e controllo della popolazione che a partire da Wuhan è diventata il modello promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità e seguito in ogni angolo del globo. Quello che è stato l’«Impero di mezzo», già tre secoli fa esempio del mercato prediletto dallo stesso Smith[2], sembra oggi tornare a primeggiare non più solo in fatto di commercio e produzione.
Stato e corpi collettivi
Per arrivare subito al cuore del primo punto occorre sbarazzarsi del maggiore pregiudizio che su simili temi viene diffuso dalla propaganda in uso in paesi vassalli degli Stati Uniti come il nostro. Si tratta del pregiudizio secondo il quale la differenza fondamentale tra «noi» e i cinesi o i russi starebbe nel fatto che «noi» viviamo più o meno liberi in democrazia, mentre «loro» la libertà non sanno neanche cos’è perché soggiacciono a regimi totalitari o autoritari. Per capire che questo non è altro che un pregiudizio non occorre alcun particolare ragionamento. Basta riuscire a emanciparsi dal misero schematismo secondo il quale ogni vicenda politica si ridurrebbe ovunque ai rapporti contrastati che vedrebbero schierati, da un lato, un regime statale più compatibile con la natura umana, quello democratico, dall’altro, i regimi statali innaturali e retrogradi.
Ricordo che la conseguenza peggiore di questo schematismo consiste nel distogliere l’attenzione da quelle che sono le forze più decisive delle dinamiche politiche. Sarebbe a dire quei corpi collettivi che in quanto organizzazioni almeno in parte immerse nel sociale e quindi estranee alle istituzioni statali, ne condizionano la loro stessa esistenza. Solo assumendo una simile angolatura ci si può rendere conto di una delle più importanti differenze tra come si vive prevalentemente nelle società occidentali o filoccidentali e come si vive nelle società più a oriente, come Russia e Cina. Laddove come «da noi» a occupare la scena politica sono infatti per lo più i partiti «leggeri», ovvero «mediatici», e i governi traballanti che ne derivano, non sono certo loro a decidere di quel che accade nei rispettivi paesi. I protagonisti della dimensione collettiva, ivi comprese le istituzioni pubbliche, in tali casi sono piuttosto oligarchie mediatiche e finanziarie, forze militari, servizi segreti, lobby più o meno criminali[3] e così via. Tutte queste componenti non sono certo estranee né alla Cina né alla Russia, ma lì sono accompagnate da un’altra entità; un’entità collettiva che, per quanto sia essa stessa corrotta e influenzata da fattori esogeni, ha comunque una consistenza organizzativa a se stante: i partiti vecchio stile, ossia di massa, radicati nel territorio. Partiti che in un modo o nell’altro ancora oggi in Cina e in altri paesi come la Corea del Nord sopratutto, e in modo più contraddittorio in Russia, si pongono in continuità con quelli che nei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra hanno fatto la storia della guerra fredda non solo a Est, ma anche negli Stati Uniti e all’interno della sfera d’influenza americana[4].
Certo si può obiettare che in Russia, col disfacimento dell’Urss, anche il Partito comunista si è decomposto, riducendosi a poco più che a una setta e lasciando crescere attorno a sé una miriade di partiti più o meno «leggeri», ma resta il fatto che la duratura leadership dell’ex comunista e agente segreto Putin non sarebbe neanche immaginabile se dietro di lui non si fossero riprodotte le vestigia di un apparato partitico d’altri tempi. In Cina invece la continuità onnipresente del Partito – almeno formalmente sempre quello della «lunga marcia» e della liberazione nazionale – è ben più evidente.
Difficilmente però l’esistenza di questo tipo di partito, da «noi» per lo più scomparso – sia pur con qualche assai relativa eccezione, come la Cdu della Merkel – viene adeguatamente considerato all’interno della letteratura d’ispirazione occidentale che tratta dei grandi successi riscossi dalla Cina negli ultimi anni. Tanto gli apprezzamenti quanto le critiche nei suoi confronti la riguardano sopratutto come Stato e come economia. Le più apprezzate sono solitamente le iniziative pubbliche in campo imprenditoriale, in favore della formazione, della ricerca, della meritocrazia, mentre più criticati sono sul piano interno il controllo sociale e dell’informazione e soprattutto le discriminazioni nei confronti delle minoranze[5] . Il tutto condito spesso e volentieri da residui pregiudizi più o meno razzisti sul «pericolo giallo» che il governo mondiale declinante degli Stati Uniti rinfocola volentieri attorno al suo nuovo e temibile rivale.
Se di rado il Pcc è fatto oggetto di analisi e giudizi specifici da parte dei commentatori occidentali o filoccidentali, ciò non accade certo per la sua scarsa influenza reale. Niente in effetti si decide a Pechino e dintorni che non passi per il vaglio di questo tipo di corpo collettivo che da noi è considerato un’anticaglia da condannare e dimenticare. Rivalutarne l’enorme peso politico attuale è evidentemente sforzo troppo grande per l’opinione dominante «da noi». Compiere questo sforzo significherebbe infatti fare i conti con tutta una serie di resistenze così inveterate da esser divenute coatte, praticamente inconsce. Anzitutto, la supposizione che il pluralismo dei regimi democratici sarebbe un valore intangibile, anche quando a difenderlo sono rimasti solo quei partiti «leggeri», facili prede di ogni influenza mediatica, finanziaria, militare o criminale. Ma a frenare la «nostra» curiosità per il Pcc c’è anche un’altra ragione. Che se lo si prendesse sul serio occorrerebbe ripensare tutto il complicato e sempre aggiornato bagaglio dottrinario di questo mastodontico, strapotente, ma anche duttile apparato burocratico: un bagaglio dottrinario che non rinunciando a riferimenti includenti finanche marxismo-leninismo e maoismo, oltre al confucianesimo, lo rende incompatibile con quella tradizione giuridica che continua a modellare ogni Stato capitalistico[6].
Alcuni grandi studiosi come Arrighi o Losurdo[7] hanno continuato a credere fino alla fine dei loro giorni che così la Repubblica popolare cinese, dopo rivoluzione culturale e gli incidenti di piazza Tienanmen, avesse finalmente trovato la via alla tanto attesa sintesi delle promesse di giustizia sociale universale elaborate sia in nome del liberalismo borghese sia in nome del comunismo. Molti sintomi contrastano però con questa visione ottimistica. Non solo le crescenti differenze sociali che, nonostante l’ingrossarsi del ceto medio, affliggono soprattutto le parti più povere della società cinese[8], non solo le politiche di neocolonialismo promosse da Pechino in molte parti del mondo (malgrado i metodi utilizzati siano assai meno aggressivi delle tradizioni brutalmente belliciste del capitalismo occidentali), ma sopratutto le esplicite strategie del Pcc.
Da quando, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Deng Xiaoping ha incominciato a teorizzare una via tutta cinese a un inedito «socialismo di mercato», la retorica del partito è divenuta infatti sempre più decisamente qualificabile come nazional-comunista. Nel senso che l’obiettivo del comunismo non è concepito altrimenti che come conseguenza dei successi nazionali. Come dire, una sorta di «China first!» come controcanto al trumpiano «America first!».
Sotto i nostri occhi si sta dunque sempre più imponendo un nuovo inedito protagonismo mondiale di paesi ancora e già comunisti quali Cina e Russia: entrambi ben più sovranisti, in quanto Stati multinazionali, che comunisti, e tuttavia ben lontani da ogni precedente di paesi nazionalisti. Una singolarità questa che obbliga ad uno sguardo singolare. Non è dunque senza ragione che è diventato di uso corrente lo strano accoppiamento di termini come sovranismo e populismo, che qui assumiamo come cifra ben caratterizzante la differenza dell’epoca in corso rispetto alle precedenti.
Misura politica ne é soprattutto il declino di ciò che Fassin[9] ha chiamato «etica compassionale». Di quell’etica, cioè, attualmente rivendicata con decisione solo da Papa Bergoglio e che, pur con tutte le sue ambiguità e fallimenti, era priorità obbligatoria nella retorica di ogni governo e di ogni organizzazione internazionale[10]. Nell’epoca che si sta aprendo è probabile che simili ambiguità e fallimenti si faranno sempre più rari per il semplice fatto che ogni intento di giustizia sociale universale sembra destinato a venire dimenticato o relegato a una sempre meno supportata buona volontà filantropica. Né le conseguenze che tutto ciò potrà avere sull’impennarsi della mortalità globale destano grandi scandali, stante l’acritico diffondersi delle ansie di fronte a un aumento demografico ritenuto eccessivo per le sorti del pianeta[11].
Può non sembrare il caso di attribuire alla Cina tanta importanza simbolica in questa involuzione antiumanitaria delle politiche mondiali, ma non bisogna dimenticare che l’umanitarismo quale finora l’abbiamo conosciuto è decollato nell’immediato dopoguerra anzitutto come risposta a quello che allora era il dilagare del comunismo vincente in mezzo mondo. È stata infatti la giustizia sociale universale promessa dall’Urss, con tutti i partiti, movimenti e Stati suoi alleati, a creare dopo la sconfitta dell’asse nazifascista quell’«entusiasmo delle masse per il socialismo», come lo chiamava Mao, che ha costretto la controparte capitalista a correre ai ripari sullo stesso terreno di battaglia alle iniquità sociali più evidenti. Ed è di qui (come già ampiamente argomentato da questo libro) che sono venute anche tutte le politiche di welfare le quali hanno reso «gloriosi» i trent’anni successivi al ’45.
Se dunque lo stesso nome comunismo in salsa cinese viene oggi a significare esattamente il contrario di quello per cui è stato così entusiasmante e persuasivo per la controparte capitalista, allora vuol proprio dire che si sta chiudendo l’intera lunghissima parabola storica iniziata nel secondo dopoguerra. E non certo con le migliori prospettive. Per non lasciare che sia questa l’unica conclusione possibile bisogna dunque prendere più che mai radicalmente le distanze da ciò che più ha favorito questo esito regressivo: il nazional-comunismo.
Le perversioni politiche del nazional-comunismo
L’idea che il comunismo potesse realizzarsi con la fusione «organica» di partito, Stato e società non è certo un’idea cinese. Tant’è che è proprio questo tipo di «organicità» che persino Gramsci auspica nei suoi Quaderni del carcere[12] . Che i militanti dovessero prima o poi trasformarsi in impiegati, funzionari e soldati regolari é stata in effetti una tra le interpretazioni prevalenti nella storia che è seguita al Manifesto di Marx ed Engels, nonostante le loro ben diverse intenzioni. Ciò però non ha tolto che, additando il fine comunista, si è sempre preconizzato il trionfo di una giustizia sociale universale. In quest’ottica la nazione è sempre stata assunta come una «questione», mai come una soluzione. Tuttavia nel corso della più grande, profonda e terrificante sperimentazione condotta in nome del marxismo, quella della costruzione dell’Urss, si è affermata l’idea, sì dialettica, ma unilaterale, per la quale l’internazionalismo comunista avesse trovato la sua patria. Prima però che da questa idea derivassero tutte le sue conseguenze più controproducenti occorrerà attendere la fine egli anni Settanta del secolo scorso: è solo a partire da quegli anni che nazionalismo e comunismo cominciano ad andare a braccetto, a contaminarsi sistematicamente l’un l’altro. Prima di allora convergenze e divergenze tra tattiche nazionaliste e strategie comuniste si sono alternate, lasciando sempre un margine di credibilità all’internazionalismo rivendicato da queste ultime.
Un esempio classico a questo proposito viene proprio dalla storia dell’Urss costruita in un alternarsi di successi eccezionali e orrori ininterrotti, e culminata con quella «grande guerra patriottica» che il partito di Stalin – con uno degli zig zag dei quali lo accusava Trotzkij – riesce a mobilitare. Senza l’evento glorioso di Stalingrado non sarebbe infatti neanche immaginabile tutta la serie di risultati formidabili quali: non solo lo stop irreversibile all’espansione mondiale del nazismo, non solo la rinascita partigiana di tutta l’Europa, ma anche il dilagare del comunismo nel mondo e la messa sotto assedio del capitalismo. Altro clamoroso esempio che attesta la vitalità internazionalista del comunismo anche nel secondo dopoguerra è ovviamente il cosiddetto Sessantotto, ossia quel decennio che precede e segue quell’anno simbolico, durante il quale le sperimentazioni politiche egualitarie in nome dei popoli oppressi e dei classici del marxismo sono pullulate ovunque – e sopratutto nella stessa Cina.
Ma certo bisogna anche rovesciare la medaglia e non chiudersi gli occhi di fronte alla Germania del ’53, all’Ungheria del ’56, al Tibet del ’59, al muro di Berlino del ’61, alla Cecoslovacchia del ’68 e ai tanti altri casi che raccontano tutta un’altra storia. Una storia nella quale l’internazionalismo di tipo sovietico finisce per far rima con imperialismo. É però appunto solo col finire degli anni Settanta che questo peggio diventa schiacciante, comprimendo lo slancio universalistico del comunismo a fenomeno marginale, mantenuto in via solo da gruppi di attivisti, movimenti antagonisti o riflessioni filosofiche. Da allora in poi a imporsi in nome del comunismo saranno soprattutto figure di un nazionalismo indifendibile come quelle del Vietnam (subito dopo la pur gloriosa vittoria sull’imperialismo americano), della Polonia di Jaruzelski, della Romania di Ceaușescu, dell’Albania di Enver Hoxha, della Serbia di Milošević, della parrebbe immarcescibile Corea del Nord, della stessa Urss prima del suo confuso disfacimento e della stessa Cina col suo «socialismo di mercato».
Se, insomma, la storia di ogni governo comunista è sempre stata fatta più da ombre che da luci, all’alba degli anni Ottanta questa storia finisce per sprofondare nelle più cupe perversioni politiche. Al punto che il crollo del muro di Berlino e della stessa Urss susciteranno ovunque ben pochi rimpianti, mentre la controrivoluzione capitalista godrà di consensi euforici scambiando questi disastri come sue vittorie. Saltando a tempi più recenti, viene allora da chiedersi come mai la Repubblica popolare cinese, dopo essere stata protagonista degli eventi planetari attorno al Sessantotto e dopo essere finita tra gli anfratti più bui della storia come ogni regime comunista negli anni Ottanta, da allora in poi sia riuscita nella più straordinaria rincorsa economica mai vista, senza rinunciare a una sia pur relativa continuità come regime politico.
La superpotenza cinese
Per provare ad accennare una pista in questo senso, mi limito a quanto più concerne il filo del discorso sulla politica come esperienza sui generis. Prendiamo allora quel che è accaduto a una specifica figura della società cinese, già al centro di discussioni e conflitti durante la rivoluzione culturale e invece quanto mai sostenuta e promossa dal Pcc dopo la svolta impressa da Deng al «socialismo di mercato». Si tratta degli «esperti», ovvero dei tecnocrati. Sarebbe a dire quella popolazione di scienziati, tecnici, quadri, funzionari, impiegati, soldati e così via, specializzati in un qualche campo del sapere, non di rado perfezionati in università americane o straniere. Una popolazione, questa, che ha costituito un importante nerbo del ceto medio espansosi in Cina dagli anni Ottanta in poi e che è stata protagonista anche del proliferare delle fin troppe, troppo estese e inquinate megalopoli ivi edificate spesso in tutta fretta. La battuta qui potrebbe essere insomma che il paese già a suo tempo dei mandarini tra il secondo e il terzo millennio è diventato il paese degli «esperti».
Contro ogni visione della politica come riflesso del sociale e dell’economia, l’espansione del ceto medio specializzato in Cina mostra quanto invece sia proprio la politica a poter decidere delle sorti del sociale e dell’economia. E ciò specie se si tratta di una politica guidata da un’organizzazione dotata di un proprio bagaglio dottrinario che non si confonde con quello delle regole statali. In effetti senza l’esistenza del Pcc e la sua politica in favore degli «esperti» non si capirebbe come la Cina abbia potuto seguire e non seguire, ossia seguire in modo tutto suo il trend della globalizzazione neoliberale dei mercati. Adeguarsi a questo trend di mercato e al tempo stesso sviluppare il socialismo, secondo la formula «socialismo di mercato», ha significato in effetti due cose del tutto contrapposte: da un lato, fare tutto e di più di quanto richiesto dalle oligarchie produttive, finanziarie e informatiche, spasmodicamente a caccia in tutto il mondo di condizioni più favorevoli allo sfruttamento della mano d’opera; d’altro lato, copiarle per divenire loro concorrenti in tutto tranne che gli effetti delle loro strategie proprio sul ceto medio. Così, mentre negli Stati Uniti questa popolazione si impoveriva e si dequalificava, a meno di non essere agganciata ai progetti privati più immediatamente remunerativi, in Cina accadeva esattamente il contrario: che il ceto medio si qualificava e diventava l’esercito di specialisti in grado di fare meglio persino dei concorrenti occidentali imitati [13].
Il segreto dello stupefacente successo cinese è dunque da cercarsi anche nell’originale bagaglio dottrinario del Pcc. E più in particolare due riferimenti che a suo tempo sono stati, come la stessa figura dell’«esperto», bersagli sistematici delle contestazioni della rivoluzione culturale. Da un lato la tradizione di pensiero più coltivato nell’etnia dominante, quella han: sarebbe a dire il confucianesimo. Dall’altra, il marxismo inteso come ai tempi dell’Urss, nel senso più che mai antiutopico, e quindi oltremodo scientista, cioè incline a privilegiare le ricerche con maggiori ricadute tecnologiche. Sono questi i riferimenti che si sono dimostrati assai funzionali sia a imitare le novità del sapere occidentale (ivi incluse le dottrine neoliberali e le teorie informatiche) sia a non farlo passivamente.
Arrighi sottolinea il contributo finanziario dato dagli emigrati cinesi nel sostenere la costruzione del socialismo di mercato perseguito sotto la direzione di Deng, la quale avrebbe anche saputo valorizzare come mai in precedenza anche la pregressa, diffusa ed elevata qualificazione dei operai. Ma è indubbio che, dopo la fine della rivoluzione culturale, la promozione del socialismo di mercato e degli esperti competenti a realizzarlo ha comportato qualcosa già al centro delle analisi di Marx: ciò che egli chiamava l’accumulazione capitalistica originaria. Di qui tutte le conseguenze peggiori ben note: lo sfruttamento bestiale di ampie quote di forza lavoro ridotte praticamente in schiavitù, l’abbandono alla povertà di ampie zone agricole, le sistematiche vessazioni etniche di minoranze come quelle uiguri, tibetane, di Hong Kong; ma a tutto ciò si devono aggiungere anche le ambizioni colonialiste di Pechino in Africa e altrove, segnatamente tramite il megaprogetto delle vie della seta. Una lista di «ombre cinesi» tra le quali non si possono non citare anche non sottostimabili fenomeni di corruzione pubblica e criminalità organizzata.
Resta che sotto la spinta della rincorsa cinese l’intero pianeta è politicamente cambiato. Definitivamente sfatato è il residuo mito razzista secondo il quale non ci può essere progresso duraturo se non a guida occidentale. Così come nessuno può più dubitare che anche i paesi più poveri possono mettersi in condizione di cambiare il proprio destino. Accanto a questo segnale di speranza, resta però anche un segnale ben meno incoraggiante, tale da far temere che questo cambiamento stia prendendo una piega, quella sovranista e populista, che è la peggiore in tema di giustizia sociale universale e cui la stessa Cina contribuisce enormemente.
Per cercare come questo destino possa essere anche solo minimamente intralciato, sviato o interrotto è importante riflettere sulla prima delle tre epoche che hanno succeduto la seconda guerra mondiale: quella dei «trent’anni gloriosi», grosso modo tra 1945 e il 1975. Trattandosi di Cina il pensiero non può non andare a quella «Rivoluzione culturale» (a suo tempo detta anche «grande» e «proletaria») che con le sue premesse, picchi, riflussi e strascichi è durata più di dieci anni (tra il 1965 e il 1975), e il cui ricordo evoca una dimensione politica quanto mai estranea a quella poi invece perseguita dal Pcc.
Ripensare la rivoluzione culturale
Travolta dalle calunnie concentriche provenienti sia dal comunismo sovietico, sia dai comunisti cinesi più ortodossi, sia degli anticomunisti occidentali e filoccidentali, la memoria della rivoluzione culturale langue da tempo sotto una spessa coltre di discredito quasi unanime. Tra le tante denigrazioni una delle più circolanti è di essere stata una persecuzione di massa e senza quartiere scagliata contro ogni moderato dissidente rispetto alla linea più ideologica e personalistica di Mao. E dato il suo stracitato motto sull’«inchiesta» come preliminare obbligatorio a ogni presa di parola militante, anche questa categoria, così entusiasmante per tutte le esperienze del Sessantotto, giace sotto sospetto. Ad aggravare questa situazione sono poi arrivati i più recenti successi cinesi sul piano informatico. Ciò che l’opinione occidentale obietta loro è infatti di essere finalizzati a quel controllo del partito sul sociale di cui appunto il tema maoista dell’inchiesta sarebbe precedente.
Il successo di libri come Il capitalismo della sorveglianza di Soshanna Zuboff [14] fa però pensare che anche in occidente sia stata oramai corrosa la fiducia in quel pilastro della tradizione liberale che è la difesa della privacy. Così pare che l’intimità individuale si stia trovando sempre più esposta a quella caccia ai big data già da molti anni scatenata in nome del più cinico pragmatismo neoliberale. La fantasia è quindi indotta a immaginarsi cupe distopie dominate da «grandi fratelli» all’ennesima potenza. La Cina attuale si trova allora a rappresentare solo il più temibile apripista verso simili mondi da incubo, dove niente preserverebbe dal più completo monitoraggio manipolatorio delle opinioni[15].
Simili fantasie non sono però altro che uno frutti avvelenati del modo democratico di pensare la politica: il pregiudizio ormai nostalgico, dato il declino di questo modo di pensare, che pretende di far credere che sia esistito e possa esistere un mondo nel quale ogni individuo ragiona e decide esclusivamente con la propria testa, interpretando a sua maniera ogni informazione ed esprimendo liberamente il proprio parere politico quando lo Stato lo convoca alle scadenze elettorali. Per non perdersi in simili vaneggiamenti, non c’è che un punto fermo cui attenersi. La constatazione assai facile e intuitiva che la conoscenza e il condizionamento delle popolazioni alle quali si rivolge sono sempre stati e sempre saranno necessità imprescindibili di ogni strategia politica, buona o cattiva, giusta o ingiusta che sia. Soprattutto a partire dai trent’anni gloriosi seguiti al secondo dopoguerra, la vita di gran parte dell’umanità è stata inevitabilmente condizionata da scelte strategiche riguardanti l’uso delle tecnologie e delle redistribuzioni dei loro effetti, buone o cattive, giuste o ingiuste che fossero.
Vano è dunque prendersela con il potere della politica in genere e più in particolare di quello che Foucault ha chiamato biopolitica. Più pertinente è chiedersi come si possono distinguere dei metodi giusti da quelli ingiusti nel conoscere e condizionare politicamente ciò che la gente pensa. Qui chiamo «ingiusto» un metodo di ricerca e condizionamento che privilegi un settore di popolazione a scapito di altri. Per spiegare come sia proprio questo il modo di funzionamento dominante nella caccia ai big data, sia in occidente che in oriente, riprendo una illuminante citazione di Zuboff: «il capitalismo della sorveglianza sa tutto di noi, mentre le sue operazioni sono progettate in modo che noi non ne sappiamo nulla».
Per Zuboff il problema che ci sovrasta e che ci sovrasterà nel futuro è dunque un problema cognitivo, di «asimmetria» nel sapere, tra sorveglianti e sorvegliati nel campo della circolazione delle informazioni. Unica alternativa immaginabile non può evidentemente venire che da una riduzione di questa asimmetria, tale da far sì che i sorvegliati ne possano sapere di più dei sorveglianti, ma sempre a proposito della sorveglianza sulla circolazione delle informazioni. Presupposto indiscusso della Zuboff è che viviamo in quella che le teorie cognitiviste esplose in concomitanza con la cosiddetta rivoluzione informatica hanno chiamato società della conoscenza. Stante una simile visione del mondo, dove ogni idea politica sembra convertirsi in imperativi tecnologici, le figure protagoniste sono inevitabilmente quegli stessi esperti che abbiamo visto esplicitamente privilegiate dalla Cina da quando, sul finire degli anni Settanta, ha cominciato a orientarsi verso la via del socialismo di mercato.
Ecco allora perché è così importante contrastare l’opinione oggi unanimemente condivisa secondo la quale questa via che ha privilegiato gli esperti in generale e in particolare sempre più quelli informatici, dediti al controllo e al condizionamento delle informazioni, non sia stata altro che una continuazione della via politica già a suo tempo seguita in nome dell’inchiesta maoista. In effetti solo cogliendo la differenza radicale tra cosa era la Cina della Rivoluzione culturale e cos’è la Cina attuale può risultare meno vaga la distinzione tra metodi giusti e metodi ingiusti nel controllare e condizionare le popolazioni.
Prima annotazione necessaria è che tutto nella Cina della Rivoluzione culturale avveniva in nome non del sapere, non del marxismo come scienza, né degli esperti, ma del pensiero: certo, anzitutto, il pensiero del presidente Mao e dei militanti suoi seguaci più stretti come le Guardie rosse, ma anche delle «masse», visto che erano supposte in grado di applicare «creativamente» il pensiero del primo.
Altra annotazione importante è che il termine «masse» indicava chiaramente gente senza qualifiche, senza sapere, senza potere sui propri simili e a essi accomunati dall’esperienza di sofferenza sociale.
Terza annotazione è che era proprio il faccia a faccia tra questi due tipi di pensiero, quello dei militanti maoisti e quello delle masse, a costituire il nucleo di quello che si chiamava inchiesta.
Ulteriore annotazione è che così la figura dell’«esperto» non veniva affatto abolita – non fosse che per il fatto che l’inchiesta richiedeva chi sapesse condurla –, ma questo saper fare non puntava al controllo e all’estrazione di un altro sapere, ma a far ripensare la sofferenza sociale a chi la pativa direttamente. Il militante dunque come esperto che usava il suo sapere solo per interpellare le masse e apprendere da esse come poter pensare di ridurre tale sofferenza.
Ecco dunque dove stava la grande differenza con quella che in Cina sarà poi la via del socialismo di mercato. Se questa favorirà l’empowerment della figura degli esperti, più in particolare quella figura di esperti informatici che l’occidente tanto oggi invidia e teme, la via della rivoluzione culturale puntava invece a riscattare le «masse» senza sapere né potere. Ora la promozione di una popolazione di privilegiati, allora l’alleviamento della sofferenza sociale più acuta. Metodi ingiusti e metodi giusti, appunto.
Certo di fronte a queste annotazioni nel lettore più attento può subito insorgere un’obiezione. Per trattare di argomenti simili l’utilizzo del termine «sofferenza» può apparire poco pertinente o peggio troppo conforme a quella tendenza alla «psicologizzazione» dei problemi sociali notata da Fassin come correlato della diffusione della ragione umanitaria impostasi globalmente sul finire del secolo scorso. Ma in effetti qui il riferimento alla psicanalisi non può non c’entrare, per quanto strano possa sembrare. Non è infatti solo un caso che tra gli echi più immediati e rilevanti del maoismo nel mondo vi fu la conversione a esso in Francia di numerosi allievi di quel Jacques Lacan che in quegli stessi anni stava compiendo una sorta di rivoluzione culturale all’interno del vasto novero dei seguaci di Freud[16] . Evocare l’esperienza analitica per approfondire il senso dell’esperienza militante maoista permette in effetti di azzardare che tra questi due tipi di ricerca ci fosse almeno un punto in comune: proprio la questione della sofferenza, quella individuale, psichica nel primo caso, quella collettiva, per lo sfruttamento, l’oppressione e le ingiustizie, nel secondo caso. Così come lo studio dell’isteria femminile è notoriamente stato all’origine della rivoluzione freudiana – come Lacan ha insistentemente fatto notare –, allo stesso modo si può dire che il pensare ciò che pensano le masse della loro sofferenza per le ingiustizie sociali sia stato all’origine della Rivoluzione culturale in Cina.
Una svolta auspicabile sarebbe forse registrabile nel momento in cui invece di continuare a invidiare la Cina d’oggi e a commiserare quella dei tempi di Mao, ci si rendesse conto che allora brillava talmente di una sua luce intellettuale che tutto il mondo e gli esperti delle più svariate competenze ne erano abbagliati.
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* Anteprima di un capitolo del libro in corso di pubblicazione La politica come esperienza tra il XX e il XXI secolo. Come articolo è inoltre uscito in Machina, 10/2020 (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-cina-nella-globalizzazione).
[1] Che nella Ue continuiamo a credere un fenomeno micronazionalista, mentre i maggiori esponenti di questa corrente, come Bolsonaro, Duterte, Modi, Johnson e lo stesso Trump, senza dimenticare Xi Jing Ping e Putin, sono a capo di Stati multinazionali.
[2] G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
[3] A. Giannuli, Come funzionano i servizi segreti. Dalla tradizione dello spionaggio alle guerre non convenzionali del prossimo futuro, Ponte alle grazie, Firenze 2009; Id., Mafia mondiale. Le grandi organizzazioni criminali all’epoca della globalizzazione, Ponte alle grazie, Firenze 2019.
[4] Sulla metamorfosi dei partiti americani a partire dagli anni Novanta vedi Y. Mounk, Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli, Milano 2018.
[5] A.D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss University Press, Milano 2019; L. Napoleoni, Maonomics. L’amara medicina cinese contro gli scandali della nostra economia, Bur, Milano 2013; A. Bagnai – C.A. Mongeau Ospina, La crescita della Cina. Scenari e implicazioni per gli altri poli dell’economia globale, Franco Angeli, Milano 2010.
[6] G. Messetti, Nella testa del Dragone. Identità e ambizioni della nuova Cina, Mondadori, Milano 2020.
[7] D. Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La città del sole, Napoli 1999 (in particolare il cap. IV, «Cina popolare e bilancio storico del socialismo»).
[8] P. Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaka Book, Milano 2012; Id., Morire per un iPhone. La Apple la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, Jaca Book, Milano 2015; Id., Ritorno alla sinistra. Politica di classe eimmaginazione comunista nell’alleanza operai-studenti, «ChinaFiles.com», 25 agosto 2020.
[9] D. Fassin, La ragione umanitaria. Una storia morale del presente, DeriveApprodi, Roma 2018.
[10] Sui loro fallimenti e sui connessi tentativi di occultarli si veda J. Hickel, The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Il Saggiatore, Milano 2018.
[11] Una critica sistematica di questa opinione la si trova in P.N. Giraud, L’homme inutile. Une économia politique du populisme, Odile Jacob, Paris 2015.
[12] In nome di una vulgata oramai dominante si obietterà che questi sono scritti di un libero pensatore, vittima tanto del fascismo quanto del comunismo sovietico, più che mai lontano dal marxismo allora promosso da Mosca. Ma così si dimentica che dopo la morte di Gramsci, prima di tornare in Italia ed essere pubblicati, i testi oggi conosciuti come Quaderni del carcere sono passati da Mosca e dunque al suo vaglio.
[13] Si veda S. Pieranni, Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari-Roma 2020.
[14] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019.
[15] Pieranni, in Red Mirror, descrive bene il sistema di «valutazione sociale» con cui i comportamenti di ogni cinese o quasi, specie se residente in una delle tante smart city, sono giudicati da tutti gli altri concittadini dotati come lui di WeChat: la «app delle app», contenente tutti i dati e le funzioni atti a questo come a infiniti altri scopi più personali o relazionali. La straordinaria diffusione di questo fenomeno di sorveglianza dal basso, orizzontale, porta a porta, di ciascuno nei confronti di ciascun altro, dimostra però che in Cina esso viene inteso da parte dei loro utenti come un modo per rendere il proprio paese più meritocratico, giusto e armonioso. Così tra di essi rimane alto il consenso anche nei confronti di quell’occhiuto supervisore di ogni fenomeno sociale che è sempre il Pcc: un partito così radicato nel nuovo ampio ceto urbano da poter vantare anche le virtù democratiche di saper dialogare con critiche e proposte avanzate da movimenti di opinione, specie in materia ecologica.
[16] A. Badiou, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, Roma 2013; N. Michel, Roman de la politique, La fabrique, Paris 2020.