Firenze: Guelfi e Ghibellini, Neri e Bianchi, da Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro ottavo, IX, 1-114
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Giovanni Villani nacque a Firenze verso il 1280 e a Firenze morì di peste nel 1348. Guelfo nero, ricoprì importanti cariche politiche e fu priore del Comune per più anni. Socio della compagnia commerciale dei Peruzzi, compì frequenti viaggi che gli consentirono di maturare esperienze e conoscenze tradotte poi nella cronaca, fornendo notizie di prima mano su eventi e situazioni dei paesi visitati. La narrazione inizia dal “cominciamento” della città di Firenze, ma le parti più originali e coinvolgenti sono quelle che raccontano il tempo e gli accadimenti vissuti dall’autore o dei quali ha udito parlare dagli anziani del suo tempo o comunque testimoniati da scritti e documenti d’archivio. Particolare emozione suscita leggere oggi pagine che trattano di Dante e di Giotto, grandi che ancora vivono nella letteratura e nell’arte e coi quali ha addirittura discorso.
Di seguito riportiamo il racconto della battaglia avvenuta nel 1265 nei pressi di Benevento fra Manfredi, figlio naturale di Federico II e re di Sicilia, e Carlo di Valois, fratello del re di Francia e incoronato re di Sicilia da papa Clemente IV.
Ordinate le schiere de’ due re nel piano della Grandella per lo modo detto innanzi, e ciascuno de’ detti signori ammonita la sua gente di ben fare, e dato il nome per loro e Carlo a’ suoi <<Mongioia, cavalieri>>, e per lo re e Manfredi a’ suoi, <<Soavia, cavalieri>>, il vescovo d’Alsurro, siccome legato del papa, assolvette e benedisse tutti quelli dell’oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, però ch’essi combattevano in servigio di santa Chiesa. E ciò fatto, si cominciò l’aspra battaglia tra le prime due schiere de’ Tedeschi e de’ Franceschi, e fu si forte l’assalto dei Tedeschi che malamente menavano la schiera de’ Franceschi, e assai gli fecero rinculare a dietro, e presono campo. E ’l buono re Carlo veggendo i suoi così malmenare, non tenne l’ordine della battaglia di difendersi con la seconda schiera, avvisandosi che se la prima schiera de’ Franceschi ove aveva tutta la sua fidanza fosse rotta, piccola speranza di salute attendea dell’altre; incontanente colla sua schiera si mise al soccorso della schiera de’ Franceschi contro quella de’ Tedeschi; e come gli usciti di Firenze e loro schiera vidono lo re Carlo fedire alla battaglia, si misono appresso francamente, e feciono meravigliose cose d’arme il giorno, seguendo sempre la persona del re Carlo (…)
La battaglia fu aspra e dura, e grande pezza durò che non si sapea chi avesse migliore; però che gli Tedeschi per loro virtude e forza colpendo di loro spade, molto danneggiavano i Franceschi. Ma subitamente si levò uno grande grido tra le schiere dei Franceschi, chi che ’l si cominciasse, dicendo: <<Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!>>; e così fu fatto, per la qualcosa in piccola d’ora i Tedeschi furono molto malmenati e molto abattuti, e quasi in sconfitta volti. Lo re Manfredi, lo quale con sua schiera de’ Pugliesi stava al soccorso dell’oste, veggendo gli suoi che non poteano durare la battaglia, sì confortò la sua gente della sua schiera, che ’l seguisseno alla battaglia, da’ quali fu malinteso però che la maggior parte de’ baroni pugliesi e del Regno (…) o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, si fallirono a Manfredi, abbandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benevento.
Manfredi rimaso con pochi, fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna; e mettendosi l’elmo, una aquila d’argento ch’egli avea ivi su per cimiera gli cadde in su l’arcione dinanzi. E egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a’ baroni che gli erano dal lato in latino <<Hoc est signum Dei, però che questa cimiera appiccai io con le mie mani in tal modo che non doveva potere cadere>>. Ma però non lasciò, ma come valente signore prese cuore, e incontanente si mise alla battaglia, non con sopransegne reali per non essere conosciuto per lo re, ma come un altro barone, lui fedendo francamente nel mezzo della battaglia. Ma però i suoi poco duraro che già erano in volta: incontanente furono sconfitti e lo re Manfredi morto in mezzo dei nemici, dissesi per uno scudiero francesco ma non si seppe il certo.
In quella battaglia ebbe gran mortalità da una parte e dall’altra, ma troppo più della gente di Manfredi. E fuggendo del campo verso Benevento, cacciati da quelli dell’oste del re Carlo, infino nella terra, che si facea già notte, gli seguirono e presono la città di Benevento e quelli che fuggieno. Molti de’ baroni caporali del re Manfredi rimasono presi: intra gli altri furono presi il conte Giordano e messer Piero Asini degli Uberti, i quali il re Carlo mandò in prigione in Proenza, e di là da aspra morte in carcere gli fece morire. Gli altri baroni pugliesi e tedeschi ritenne in prigione in diversi luoghi nel Regno. E pochi dì appresso la moglie del detto Manfredi e figlioli e la suora, i quali erano i Nocera de’ Saraceni in Puglia, furono renduti presi al re Carlo, i quali poi morirono in sua pregione. E bene venne a Manfredi e a sue rede la maledizione d’Iddio e assai chiaro si mostrò il giudizio d’Iddio in lui, perché era scomunicato e nemico e persecutore di santa Chiesa.
Nella sua fine, di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava e non si sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perché non avea avuto alla battaglia indosso armi reali. Alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia. E trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso su uno asino, venendo gridando <<Chi accatta Manfredi, chi accatta Manfredi?>>; il quale ribaldo da un barone del re fu battuto, e recato il corpo di Manfredi dinanzi al re, fece venire tutti i baroni che erano presi, e domandato ciascuno s’egli era Manfredi, tutti temorosamente dissono di sì. Quando venne il conto Giordano sì si diede delle mani nel volto piagnendo e gridando: <<Omè, omè, signore mio!>>; onde molto ne fu commendato da Franceschi, e per alquanti dei baroni del re fu pregato che gli facesse onore alla seppultura. Rispuose il re: <<Si feisse ie volontiers, s’il non fust scomunié>>; ma imperciò ch’era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro; ma appié del ponte di Benevento fu soppellito; e sopra la sua fossa per ciascuno dell’oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di sassi. Ma per alcuni si disse che poi per mandato del papa il vescovo di Cosenza il trasse di quella sepoltura, e mandollo fuori del Regno, ch’era terra di Chiesa, e fu sepolto lungo il fiume del Verde a’ confini del Regno e di Campagna: questo però non affermiamo. Questa battaglia e sconfitta fu uno venerdì, il sezzaio di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXV.
Ed ecco come Dante racconta la sepoltura di Manfredi:
Se il pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente, allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia
l’ossa del corpo mio sarìeno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo il Verde,
dov’ei le trasmutò a lume spento.
(Purgatorio, III, 124-132)