Firenze: Guelfi e Ghibellini, Neri e Bianchi – da Dino Compagni, “Cronica”, I, 22-23; II, 1, 84-87, 89; III, 124
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Dino Compagni nacque a Firenze intorno al 1246-47 e a Firenze morì nel 1324. Del Comune fu priore nel 1289 e nel 1301, e gonfaloniere di giustizia nel 1293. Mercante popolano di parte guelfa, combatté a Campaldino dove i fuoriusciti ghibellini furono sconfitti e più non rientrarono in Firenze. Visse da protagonista e da angosciato cittadino la successiva contesa politica fra Bianchi e Neri, la cui cruda vicenda – che coinvolse anche Dante, costretto all’esilio per la vita – ha appunto raccontato nella sua Cronica. Opera storiografica che è rimasta nella storia della letteratura italiana per la qualità della scrittura – che, pur alta, ha la freschezza del parlato fiorentino – e per l’efficacia della narrazione, calda di passione e a un tempo testimonianza diretta di eventi che appartengono, nel bene e nel male, alla nostra civiltà comunale. Dalla Cronica riportiamo una delle pagine che raccontano la sanguinosa contesa fra le parti avverse, la descrizione della corruttela che sviliva il Comune, e il memorabile ritratto che Dino fa di Corso Donati, capo di parte nera.
Inizia la contesa fra Bianchi e Neri
Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani, e distendete le vostre malizie! Palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti! Non penate più, andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città! Spandete il sangue de’ vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello amore! Nieghi l’uno all’altro aiuto e servigio! Seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granai de’ vostri figlioli!
Fate come fé Silla nella città di Roma, che tutti i mali che fece in .x. anni, Mario in pochi dì li vendicò! Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una: guardate a’ vostri antichi, se ricevettono merito nelle loro discordie! Barattate gli onori ch’eglino acquistorono, non vi indugiate miseri! Ché più si consuma in un dì nella guerra che molti anni non si guadagna in pace, e picciola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.
(…) Ritenuti così i capi di parte bianca, la gente sbigottita si cominciò a dolere. I priori comandorono che la campana grossa fusse sonata, la quale era su il loro palazzo: benché niente giovò, perché la gente, sbigottita, non trasse. Di casa i Cerchi non uscì uomo a cavallo né a piè armato. Solo messer Goccio e messer Bindo Adimari, e’ loro fratelli e figlioli, vennono al Palagio: e non venendo altra gente, ritornarono alle loro case, rimanendo la Piazza abandonata.
La sera apparì in cielo un segno maraviglioso, il quale fu una croce vermiglia sopra il palagio de’ priori: fu la sua lista ampia più che palmi uno e mezzo, e l’una linea era di lunghezza braccia .xx. in apparenza, quella attraverso un poco minore: la qual durò per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a correre due aringhi. Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemo comprendere che Iddio era fortemente contro alla nostra città crucciato.
Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case dei loro amici; l’uno nimico offendea l’altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degli impotenti; i Neri potenti domandavano danari a’ Bianchi; maritavansi fanciulle a forza; uccideansi uomini. E quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: «Che fuoco è quello?». Erali risposto che era una cappanna, quando era un riecco palazzo. E questo malfare durò giorni sei, ché così era ordinato. Il contado ardea da ogni parte.
I priori per pietà della città, vedendo multiplicare il malfare, chiamarono merzé a molti popolani potenti, pregandoli per Dio avessono pietà della loro città: i quali niente ne vollono fare. E perciò lasciorno il priorato.
La corruttela dei governanti di parte
Le loro leggi in effetto furono che avessono a guardare l’avere del Comune, e che le signorie facessono ragione a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fussono oppressati da’ grandi e potenti: e tenendo questa forma, era grande utilità del popolo. Ma tosto si mutò, però che i cittadini che entravano in quello uficio non attendeano a osservare le leggi, ma corromperle.
Se l’amico o il parente cadea nelle pene, procuravano con le signorie e con li uficiali a nascondere le loro colpe, acciò che rimanessono impuniti. Né l’avere del Comune non guardavano, anzi trovavano modo come meglio potessono rubare: e così della camera del Comune molta pecunia traevano.
Corso Donati
Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a malfare, col quale molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a’ Cerchi e a’ loro amici, molto avere guadagnò, e in grande altezza salì: costui fu messer Corso Donato, che per sua superbia fu chiamato il Barone, ché quando passava per la terra molti gridavano «Viva il Barone», e parea la terra sua; la vanagloria il guidava, e molti servigi facea.
(…) Messer Corso, infermo per le gotti, fuggia verso la badia di San Salvi, dove già molti mali avea fatti e fatti fare. Gli sgarigli (scherani, ndr) il presono, e riconobborlo; e volendolne menare, si difendeva con belle parole, sì come savio cavaliere. Intanto sopravvenne uno giovane cognato del Mariscalco: stimolato da altri d’ucciderlo, nol volle fare; e ritornandosi indietro, vi fu rimandato; il quale la seconda volta li diè d’una lancia catelanesca nella gola, e uno altro colpo nel fianco, e cadde in terra. Alcuni monaci nol portarono alla badia: e quivi morì, a dì … di settembre 1307, e fu sepolto.
Ecco, infine, come Forese Donati profetizza a Dante la morte di Corso, suo fratello:
… che quei che più n’ha colpa,
vegg’io a coda d’una bestia tratto
inver la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogni passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto. (Purgatorio, XXIV, 82-87)