È una vecchia storia, ma sempre nuova resta*
di Valerio Romitelli
Non che sia per nulla il mio preferito – anzi, ma di sicuro ad ogni rilettura mi pare sempre più intrigante il libro che ora ricordo. Il suo vigore argomentativo non risulta per nulla fiaccato dalla sua molto incerta età, comunque clamorosa: risalente all’incirca a 25 secoli fa, ai tempi più classici della Grecia antica!
Sta di fatto che le amenità pettegole non gli mancano. Qua e là si trovano infatti battute, ora sull’alito fetido di Euripide (Libro V, 10, 1311 b), ora sulle propensioni trans di Sardanapalo, ora sull’alcolismo di Dionigi il giovane, ora sulle orge di più e più giorni esibite da tiranni greci irrimediabilmente narcisistici (V, 11, 1314 b). Ma non sto parlando di una qualche commedia satirica di Aristofane o di un dimenticato libello scandalistico di quei tempi remoti. Sto parlando di uno dei più classici dei classici testi concernenti la politica: la Politica, appunto di Aristotele!
Perché intrigante, dunque? Perché, da un lato, non è affatto nelle mie corde, ma, dall’altro, vi riscopro sempre più le ragioni della mia insofferenza non tanto verso questa opera, quanto verso tutti i suoi seguaci anche contemporanei, spesso inconsapevoli.
Ai giorni nostri, nei quali la politica dei politici, ossia la democrazia delle istituzioni democratiche non convincono più (almeno la metà del loro pubblico) mi pare dunque quanto mai consigliabile un tuffo in questo testo iperclassico, dove si trova l’ABC di ogni ragionamento riguardante argomenti simili. Vediamone tre o quattro, giusto per invitare alla lettura o alla rilettura. Prima di tutto però due premesse, banali quanto si vuole, ma il cui contenuto è spesso trascurato affrontando opere di autori così remoti.
La prima riguarda l’attendibilità del testo, scritto e riscritto, perduto e ritrovato, dimenticato e riscoperto nel corso dei secoli. Lasciando ai filologi il loro lavoro, al lettore generico è consigliabile fare attenzione semplicemente a ciò che è scritto e che evidentemente al netto di tutti i rimaneggiamenti è ciò che è restato e dunque ha fatto e continua far scuola.
Seconda premessa: nel IV secolo a. c. in cui la Politica fu scritta la scoperta dell’universo infinito e della sfericità della terra era di là da venire. Per quante intuizioni più o meno vagamente anticipatrici di questa scoperta circolassero al tempo di Aristotele l’opinione comune era per lo più decisamente “terrapiattista”, per usare un termine contemporaneo. Ed è proprio a lettori influenzati da questo tipo di opinione che tutta l’opera di Aristotele si rivolge. Quando tratta di Natura, “Physis”, e metafisica, cioè Meta-Physis, è in questo senso limitato che vanno intese. Ed è proprio all’interno di un contesto così concepito che va inteso anche quel principio del “giusto mezzo” che in ogni argomento trattato da questo autore funziona come antidoto ad ogni forzatura speculativa “contronatura”.
La Politica è quindi tutta ispirata a questo principio (di cui non si può non notare la prossimità con l’omologo principio della tradizione confuciana sempre tutt’oggi onorata dal Partito Comunista Cinese) cosicché si giunge in tal modo anche a giustificare e definire il rapporto tra servo e padrone come un rapporto naturale entro certi limiti, purché “ciò che lo schiavo deve saper fare, il padrone deve saperlo comandare” (I (A) 2 1252 a). Dove chi mastica un po’ Hegel e Marx non fatica a riconoscere uno spunto originario di tutte le loro opere. Ma sempre a questo principio del “giusto mezzo” si attiene Aristotele nello stabilire la dimensione per lui più consigliabile di quelle “polis”, ossia di quelle città stato che punteggiavano lo spazio della Grecia del suo tempo: una dimensione né troppo grande, né troppo piccola, la cui popolazione deve potere essere“abbracciata da un solo sguardo”( VII (H) 4. 1326 b). In effetti, tra il V e IV secolo a.c. il territorio occupato dalla popolazione ateniese corrispondeva all’incirca a quella dell’attuale Lussemburgo con un numero di abitanti oscillante tra 40 e 45 mila o ancora meno in periodi eccezionali. ( cfr. Finley M.I., La democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, 1997, p 16)
Allievo di Platone, Aristotele lo mantiene sempre come riferimento imprescindibile, ora in termini polemici, ora più consenzienti. Si discute quando e in che misura prevalgano i primi o i secondi lungo il corso della monumentale opera di Aristotele, ma una cosa mi pare certa. Se Platone, qualunque sia l’impressione e il giudizio complessivo che se ne dà, punta a prefigurare radicali trasformazioni politiche e sociali, addirittura “comuniste” ante litteram, Aristotele è decisamente un conservatore. Ma attenzione: intendendo quella del conservatore una postura ben differente da quella del reazionario. La prima corrispondente ad un desiderio di mantenere, strutturare, consolidare le cose come già stanno, adattandole al mutare delle circostanze, la seconda invece corrispondente al desiderio di riassettare la situazione esistente per riportarla ad una supposta condizione precedente, opponendosi ad ogni novità.
Perché è importante qui ribadire questa ben nota distinzione? Perché a me pare molto utile per capire la differenza tra il pensiero politico di Aristotele e tanta politologia contemporanea che più o meno si richiama ad esso. Il tema della democrazia è chiarificante a riguardo.
Per Aristotele non solo è un regime tra gli altri possibili, quali l’oligarchia e la tirannide, ma addirittura è mescolabile con essi. Concependo la democrazia così come veniva esercitata ai suoi tempi, in modo diretto e assembleare, per lui ogni elezione, dal momento che seleziona pochi eletti rispetto alla massa degli elettori, introduce già un principio oligarchico. Di qui una conseguenza maggiore. Che quello che oggi viene oggi definita democrazia rappresentativa alla luce del pensiero di Aristotele appare chiaramente per quel che è di fatto: un governo sì del popolo ma intimamente condizionato da pochi eletti con al seguito tutte loro lobby più o meno strapotenti. Ecco dunque che da simile angolatura risulta del tutto inconsistente quello che è un pregiudizio inveterato di tutta la politologia contemporanea; quello di opporre come se fossero due regimi tra loro incompatibili, da un lato, la democrazia, dall’altro, l’oligarchia. Il tutto per celebrare la prima come tipica dei paesi occidentali e ingiuriare la seconda come tipica di paesi non occidentali. Diversamente, in riferimento ad Aristotele possiamo meglio capire che le oligarchie esistenti anche da noi (eccome!) lungi dall’essere frutto maledetto di disfunzioni della democrazia, ne sono parte integrante.
D’altra parte, tutti ragionamenti contenuti nella Politica sono volti a favorire la stabilità di ogni regime esistente, in quanto “esistente per natura”, ovvero “corrispondente alla natura socievole dell’uomo”(I (A) 2 1253a). La propensione conservatrice di Aristotele è qui che dimostra una delle sue implicazioni più rilevanti: la prospettiva (già platonica) dell’invenzione di nuovi principi politici per la trasformazione delle società essendo esclusa in partenza, il destino di ogni regime politico appare sospeso su un’alternativa: o di distruggersi o di conservarsi anche deviando dai propri principi e contaminandosi con principi di altri regimi.
Anche qui l’esempio di quanto dice la Politica della democrazia è illuminante. Proprio per garantire la conservazione di questo regime Aristotele ne consiglia infatti la moderazione. Proprio in quanto regime del giusto mezzo, del ceto medio e politicamente favorevole piuttosto ai poveri e che ai ricchi – dice Aristotele- esso non deve penalizzare questi ultimi, redistribuendone gli averi o le entrate (V (E) 8 1309 b). Ecco quindi un altro pregiudizio politologico sfatato: non è perché i poveri possono partecipare alla democrazia con la loro massa preponderante rispetto ai ricchi che il divario tra ricchi e poveri possa o debba diminuire. Vero è piuttosto il contrario: in quanto accumulatori di ricchezza – sostiene sempre Aristotele – i primi vanno tutelati, perché solo da loro può venire quanto necessario a mantenere funzionate lo stesso regime democratico.
E giustamente sotto questo profilo Moses Finley ha insistito sul legame necessario tra la democrazia ateniese e il carattere predatorio e imperialista della sua proiezione marittima.
Tornando sulla distinzione tra conservatori e reazionari più sopra accennata si dirà dunque che da conservatore Aristotele ci mostra tutt’oggi qualcosa di fondamentale sulla molteplice varietà dei possibili regimi politici, mentre molti politologici contemporanei, pur rifacendosi al suo insegnamento, insistono nel volere difendere della democrazia immaginata quale regime politico più conforme alla natura umana.
Un’ultima osservazione sul famoso passo de la Politica secondo il quale la polis è per sua natura “anteriore a ciascun individuo” ( I (A) 2 1253 a). Ciò significa porre una questione epistemologica tutt’oggi aperta: quella che le dottrine neoliberali hanno provato a chiudere nel loro modo brutalmente reazionario, ben espresso dal famigerato detto della Thatcher secondo il quale “la società non esiste, esistono solo gli individui”. Tutto al contrario possiamo ricordare la frase campeggiante nei reparti delle fabbriche naziste “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”[1], evidente enunciato di una visione politica “totalitaria”. Ecco è proprio tra questi due estremi che la lezione politica aristotelica, malgrado il suo conservatorismo, “resta sempre nuova”.
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* Questo articolo è anche su Pulpmagazine (https://www.pulplibri.it/category/archeologie-del-presente/). L’espressione utilizzata come titolo è di Heinrich Heine (1822).
[1] Citata da Vasilij Grossman in Stalingrado, Adephi, 2022, p. 490.