Detti e proverbi della gente montanara
di Adriano Simoncini
Proverbi, filastrocche, modi di dire, “detti” che i parlanti il nostro dialetto usavano quotidianamente sono un patrimonio linguistico sterminato che esprimeva e testimoniava una precisa cultura – quella contadina nella montagna bolognese – e che scomparirà per sempre con l’ultimo montanaro d.o.c. Trattasi infatti di prodotti esclusivamente orali: il nostro dialetto conosceva soltanto la parola parlata, e pochissimi e recenti sono i testi scritti. Dialetto che tutti parlavano fino oltre la metà del ‘900, compresi insegnanti, impiegati, dottori, preti, non appena fuori del proprio ruolo istituzionale, cioè in casa, in piazza, nelle osterie, quando pulsioni emozionali pretendevano parole dal profondo dell’anima – e non potevano essere che quelle apprese succhiando il latte materno.
Che fino agli anni ’50 la vita in montagna fosse dura è ormai una favola che ha stancato chi l’ascolta e forse anche chi la racconta. Eppure i fatti sono inconfutabili e hanno un riscontro indiretto nella lingua d’allora. Eccone una testimonianza:
andér a lavurér da sèt padrón: andare a lavorare da sette padroni
i vol onna forza da león: ci vuole una forza da leoni
onna penza da furmiga: una pancia da formica
bèvver poc e magner brisa: bere poco e non mangiare.
In un mondo che dipendeva immediatamente dalla natura gli animali erano compagnia quotidiana. La lingua ne partecipava, come documentano innumerevoli metafore codificate nei modi di dire. Eccone una:
an sa gnenc quent marón l’à onna pegra: non sa neanche quanti coglioni ha una pecora.
Che è il massimo dell’ignoranza in un mondo dove le pecore erano in ogni podere.
Ancora fino agli anni ’50 la natura dettava tempi e ritmi dell’agricoltura montanara. Sole, pioggia, vento, neve condizionavano aratura, semina, mietitura, trebbiatura e ogni altra attività connessa col lavoro dei campi. Essenziale dunque prevedere le condizioni atmosferiche dei giorni a venire, e i contadini lo facevano trasmettendo di generazione in generazione osservazioni e consigli attraverso i proverbi. Codificavano il secolare sapere della comunità, facilitandone la memorizzazione con la rima e il ritmo. Un esempio:
temp che lus: tempo che riluce
aqua produs: acqua produce.
Il mondo contadino, dipendente per la sopravvivenza interamente dalla natura, era pervaso di mistero e di sacralità a cui le liturgie della religione cattolica fornivano una persuasiva interpretazione e, spesso, anche le parole per esprimere il proprio sentire. Il denaro in particolare, tanto o poco, dettava espressioni memorabili. Eccone una:
a s’era in buletta come Crest in vetta alla crós: ero in bolletta come Cristo sulla croce.
Perché il Cristo nudo sulla croce da sempre ha rappresentato per il popolo la propria situazione di miseria e d’abbandono.
D’inverno, un tempo, s’andavano a cercare le ragazze nelle stalle dove si spagliava o trecciava, d’estate invece alle feste di paese. Ma se eri di via i maschi del posto ti guardavano male, gelosi. Anche succedeva, come a Qualto nella valle del Sambro, che il gruppo dei giovani ti affrontasse con queste parole:
al noster ragacini as li srgacacén da nû: la nostre ragazzine ce le “sragazziamo” da noi.
Del resto le esortazioni dei vecchi fermate in proverbi erano chiare:
dòn e vac e bó: donne e vacche e buoi
tulili ai paés só: prendeteli ai paesi vostri.
Perché altrove le persone, come le bestie della stalla, hanno usanze diverse, con cui poi ci si dovrà confrontare.
Nelle stalle e attorno al focolare anche si proponevano proverbi, indovinelli, scioglilingua, filastrocche, stornelli. Ecco un indovinello (la risposta al lettore):
rossa rusióla: rossa rossiccia
c’la chenta in gabióla: che canta in gabbia
se secca a l’avésset: se secca l’avessi
cusa dirésset?: cosa diresti?