Dal prestito alle “tavolette” dei Sumeri (con le equazioni di Dgiangoz). Cronache marXZiane n. 13
di Giorgio Gattei
1. Sul pianeta Marx (quell’insolito corpo astrale comparso nel cielo della economia politica nel XVIII secolo e studiato da astronomi capaci come Adam Smith, David Ricardo e infine da Karl Marx che gli ha dato il nome) io sono stato trascinato nel 1968 dai marXZiani dell’astronave “la Grundrisse”, che mi hanno letteralmente rapito, e nella mia lunga esplorazione di quel pianeta, che sto raccontando in queste “Cronache marXZiane”, sono alla fine approdato alla terra di Saggio Massimo (del profitto) nella quale non si pagano salari. Ma non è paradossale che non si remuneri il lavoro che pure s’impiega nella produzione delle merci? Niente affatto se si segue l’acuta osservazione del cosmonauta (non astronauta!) Piero Sraffa, che ha visitato personalmente quel pianeta prima di me dandone un resoconto preciso in Viaggio di merce per merce (1960), che il salario va considerato come composto di due parti distinte: un “salario di necessità” e uno “di sovrappiù”, con il primo che è dato esogenamente e deve essere necessariamente pagato per la sopravvivenza dei lavoratori «sulla stessa base del combustibile per le macchine o del foraggio per il bestiame», mentre il secondo partecipa in competizione con il profitto alla spartizione del sovrappiù prodotto attraverso il sistema della contrattazione sindacale tra le parti sociali di capitalisti e lavoratori ed è variabile potendo andare da “tutto il prodotto al lavoro” (come recitava la rivendicazione politica di un tempo) a zero quando la forza del lavoro sia così indebolita (per qualsiasi accidente storico, compreso il maledetto fascismo) da dover lasciare l’intero sovrappiù alla parte avversa. Così in quella estrema periferia del pianeta Marx il fatto che non si paghino salari significa soltanto che non si paga il “salario di sovrappiù”, dato che quello “di necessità” rimane, eccome, dentro ciò che in gergo è chiamata la “matrice della tecnica” ad indicare quali e quanti input, ovvero fattori produttivi compresi quindi i beni-salario “necessari”) servono per produrre ogni output. E’ proprio questa condizione che permette di costruire una pura logica del profitto senza alcuna contaminazione salariale, dovendosi pur giustificare quella curiosa indicazione di Marx, ripresa da Sraffa, sulla «possibilità di una caduta del saggio del profitto ‘perfino se i lavoratori potessero vivere di aria’» (e ci arriveremo, ma solo alla conclusione di queste Cronache, sebbene a futura memoria lascio già qui almeno una traccia: che “Macondo” è il nome autentico del pianeta Marx per i suoi abitanti).
Però nel territorio di Saggio Massimo c’è un’altra caratteristica significativa che solitamente è trascurata da tutti quei marxologi “di primo pelo” che s’immaginano che sul pianeta Marx si produca solo “grano a mezzo di grano”, che è una madornale falsità dato che le merci prodotte risultano inequivocabilmente due e così differenti che Sraffa, che le ha viste, ha proposto di chiamarle, sulla base della loro tecnica di produzione, “merci base” se entrano nella produzione di tutte le altre e “merci non-base” se invece «non vengono usate, né come strumenti di produzione né come mezzi di sussistenza, per la produzione di altre merci» svolgendo così una funzione economica che si potrebbe anche considerare “sussidiaria”, fino al caso estremo, ipotizzato dallo stesso Sraffa, di una merce non-base che non rientra nemmeno alla produzione di sé stessa, ossia che «non si trova fra i mezzi di produzione di nessuna industria». Nel rapporto pubblicato Sraffa ha indicato come merci-non base le uova di struzzo o i cavalli da corsa, ma io invece sul terreno di Saggio Massimo ho visto vasti campi di grano (che è merce base) accompagnati a colorati appezzamenti di tulipani (che invece sono merci non-base: che altro si può fare di un tulipano fiorito se non ammirarlo e basta?) che mi pareva di essere in Olanda (e non si scherzi tanto sulle merci non-base ridotte a tulipani perché tali sono pure gli armamenti che, sebbene prodotti, non hanno altra utilità se non quella di distruggere)…
Però le due produzioni non sono affatto separabili, dato che la produzione dei tulipani ha bisogno del grano per potersi realizzare (mentre non vale il contrario), così che i produttori di grano dovrebbero essere così cortesi da cedere agli altri produttori una parte del loro raccolto per fornirli del grano che gli necessita. Ma che cosa succede se nella struttura logica dei prezzi di produzione delle due merci vi s’intromette un Tempio “alla sumera” (vedi la Cronaca precedente) che prende il grano da chi lo produce per prestarlo al produttore di tulipano? Certamente ci saranno delle modifiche ed una conclusione sorprendente, come si vedrà, ma per capirci meglio ho pensato di rivolgermi a Dgiangoz (“La D è muta!”. “Lo sooo!”: per questo scambio inevitabile di battute si veda il film Dgiango scatenato (2012) di Quentin Tarantino) che rappresenta la mia “eminenza grigia” che m’impedisce di scrivere castronerie. Così gli ho presentato il problema e così lui mi ha risposto.
2. La lettera di Dgiangoz: «Sia ben chiaro che non intendo perdere tempo con quelle divagazioni storiche che invece a te piacciono tanto, ma resterò inequivocabilmente sul terreno dell’analisi economica e peggio per te se ci dovranno essere equazioni!
Produzione. L’economia che assumiamo è produttiva e stazionaria (come poi si vedrà) con il grano (merce 1) che è la merce base ed il tulipano (merce 2) che invece è merce non-base; indichiamo con a1j la quantità di grano necessaria alle due produzioni (j = 1,2) con 0 < a11 < 1 nel senso che il grano ha pur da esserci ma non potrà essere tutto dedicato alla produzione di se stesso (altrimenti il tulipano come potrebbe essere prodotto?) , e siccome l’anticipazione di grano comprende anche la sussistenza dei lavoratori che è composta di grano, ecco che quelli che vengono così indicati sono i coefficienti unitari “aumentati” di produzione. Il tulipano invece, è una merce non-base che non serve nemmeno alla produzione di se stesso ed è un puro bene di consumo.
Prezzi di produzione. I prezzi relativi delle due merci sono determinati dalla condizione di uniformità del saggio del profitto che, per un “salario di sussistenza” incluso nell’anticipazione di grano ed un “salario di sovrappiù” che non c’è, sarà il massimo possibile, ossia: max r = R.
Prendendo il grano ad unità di conto (p1 = 1), il sistema dei prezzi relativi alle due produzioni è dato da:
1 = (1 + R) a11 con R = (1 – a11) / a11
p = (1 + R) a12 con p = a12 / a11
essendo (p = p2) il prezzo del tulipano che è l’unico prezzo relativo positivo presente: infatti essendo noto il coefficiente di produzione del grano a11, è dato anche il Saggio Massimo e poi, essendo dato il coefficiente di produzione del tulipano a12, quel suo prezzo.
Livelli di produzione. Le quantità prodotte di grano Q1 e tulipano Q2 sono determinate dal sistema di equazioni:
Q1 = a11Q1 + a12Q2 + Y1
Q2 = Y2
dove Y1 e Y2 sono i prodotti netti delle due produzioni necessari a reintegrare la quantità della merce impiegata come mezzo di produzione (ma ciò vale solo per il grano) e a lasciare ad entrambe una quantità di prodotto netto che in equilibrio dovrà soddisfare la domanda finale delle due merci. Però questo sistema delle quantità è sotto-determinato dal momento che è composto dalle due equazioni che stabiliscono la condizione di equilibrio fra la produzione e la domanda di ciascuna merce sul mercato e da quattro incognite, che sono i due livelli di produzione e i due prodotti netti. Ci possono essere diversi approcci per renderlo determinato, come quello di assumere che i due livelli della domanda finale Y1 e Y2 siano dati, ma un’altra possibilità (che facciamo nostra) è di supporre che l’economia si trovi in una situazione di steady–state, e cioè che le due produzioni aumentino ad uno stesso saggio uniforme di crescita g nel lungo periodo, ed il cui valore minimo è naturalmente g = 0 a significare il caso limite di un sistema economico che si riproduce nel tempo sulla medesima scala precedente con la produzione di grano che non aumenta e la produzione di tulipano che resta la stessa. E’ questa l’ipotesi di stazionarietà che Marx ha chiamato «riproduzione semplice su scala invariata» che naturalmente, come scrive, è «un’astrazione in quanto, su base capitalistica, l’assenza di ogni accumulazione è una ipotesi improbabile», ma che pure ha un senso dato «la riproduzione semplice ne costituisce sempre una parte che può quindi essere considerata a sé stante» (salvo poi far seguire la “riproduzione su scala allargata”, ossia l’accumulazione del capitale, quando g > 0).
Decisioni di spesa. La determinazione della configurazione di stazionarietà dell’economia richiede che si specifichino i comportamenti degli agenti economici presenti per quanto concerne i modi d’impiego dei redditi rispettivi. Nell’economia che stiamo considerando avremo quindi:
Y1 + pY2 = (1 – a11) Q1 + (p – a12) Q2
che è la misura del prodotto sociale netto espresso in termini di quel grano preso a “numerario”. Utilizzando le equazioni di prezzo ne risulta:
Y1 + pY2 = R a11Q1 + R a12Q2
che, introdotta la condizione di stazionarietà (o di “riproduzione semplice”) Y1 = 0 per la quale al produttore di grano (merce base) non resta nulla per la crescita, porta a:
pY2 – R a12Q2 = R a11Q1
ma siccome:
pY2 – R a12Q2 = a12 Q2
ecco che si perviene al risultato:
a12Q2 = R a11Q1
a dimostrazione che il profitto del produttore di grano deve essere pari all’impiego di grano da parte del produttore di tulipano. Ma come si può realizzare nel concreto questa condizione di equilibrio tra grano e tulipano? Allo scopo di integrare il lato reale delle quantità con quello monetario dei prezzi dobbiamo fare entrare in scena il Tempio “alla sumera” ad intermediario delle due produzioni.
Il Tempio come tassatore/prestatore. Consideriamo una economia primitiva in cui l’autorità di governo è rappresentata dalla casta dei sacerdoti con il Tempio che preleva sotto forma di tassazione T tutto il profitto al produttore di grano, lasciandogli solo quanto necessario per ripetere la produzione allo stesso livello precedente, così che:
T = R a11Q1
Supponiamo altresì che il Tempio non abbia alcun consumo proprio e così poaaa prestare tutto il grano raccolto dalla tassazione al produttore di tulipano per consentirgli di svolgere la sua attività e che, a certificazione del prestito concesso, emetta un titolo di debito M (d’ora in poi chiamato “tavoletta”) che al momento è nella sua disponibilità di creditore:
M = a12Q2
Siccome nelle condizioni ipotizzate vale la condizione per cui M = T, ne risulta immediatamente che:
R a11Q1 = a12Q2
il che consente al produttore di tulipano di produrre a sua volta guadagnando il medesimo Saggio Massimo di profitto del produttore di grano, ossia:
p Q2 = (1 + R) a12Q2
È grazie alla sua produzione che il produttore di tulipano può restituire al Tempio in tulipano il prestito ricevuto in grano (supponiamo che il Tempio non richieda interessi) estinguendo così la propria obbligazione di debito e ricevendo indietro la tavoletta che sostituisce la parte di produzione che ha ceduto:
p Q2 = M + R a12Q2
A questo punto sono date tutte le condizioni affinché la produzione possa ripetersi sulla medesima scala precedente di attività, dato che il produttore di grano dispone nella quantità che gli serve per produrre Q1, la tassazione ha consentito al Tempio di avere il grano da prestare al produttore di tulipano che, producendo Q2, è in grado di restituirgli in tulipano il prestito ricevendo indietro la tavoletta del suo debito estinto. A sua volta il Tempio può utilizzare il tulipano a rimborso del prestito quale suo bene di puro consumo e altrettanto può fare il produttore di tulipano per il profitto che ha guadagnato e che gli resta in tulipano.
La tavoletta da mezzo di pagamento a mezzo di circolazione. Ma supponiamo adesso che il produttore di tulipano, invece di distruggere la tavoletta che rappresenta il suo debito saldato nei confronti del Tempio, decida di servirsene quale mezzo di scambio per acquistare il grano che gli serve per la nuova produzione direttamente dal suo produttore, impegnandosi a pagarlo in tulipano a produzione avvenuta, ossia a “pagamento differito”:
M = a12Q2
Se il produttore di grano acconsente, il Tempio si troverà escluso dallo scambio tra i due, sebbene resti la sua funzione di garante dell’impegno di debito che è iscritto sulla tavoletta che però è passata nella disponibilità del produttore di grano. Però adesso c’è la difficoltà che, se il produttore di grano ripete la sua produzione:
Q1 = a11Q1 + R a11Q1
non può avere alcuna disponibilità di grano da cedere al produttore di tulipano se deve nuovamente destinare il suo profitto al pagamento delle tasse al Tempio. Tuttavia, la difficoltà può essere aggirata se egli decide di pagare il suo “debito fiscale” trasferendo al Tempio la tavoletta ricevuta dal produttore di tulipano, che è di pari ammontare e che così ritorna nelle mani di chi l’ha emessa per primo:
T = R a11Q1 = a12Q2 = M
La situazione finale vede così il produttore di grano, che prima pagava la tassa in grano, pagarla adesso con la tavoletta restando comunque privo di profitto; il Tempio non ricevere più grano a titolo di tassazione ma incassare la tavoletta che lo riconferma come creditore nei confronti del produttore di tulipano; il produttore di tulipano messo in condizione di ripetere la sua produzione grazie all’acquisto diretto di grano dal suo produttore e non più tramite il prestito del Tempio, verso cui resta pur debitore per l’impegno scritto nella tavoletta che salderà con la sua nuova produzione. E il tulipano? Si riconferma come un puro bene di consumo a disposizione del Tempio per l’ammontare del prestito che gli verrà rimborsato dal suo produttore e del produttore del tulipano per il profitto che nuovamente guadagnerà.
E con questo io avrei terminato. Ti pare abbastanza?».
3. Ma per niente affatto, così che adesso proseguirò da solo. Innanzitutto, per quanto riguarda l’aspetto “equazionale” della trattazione a cui hai voluto sottopormi a mo’ di punizione per averti interpellato, ti rispondo che per me punizione non è perché, come ha scritto Michel Houellebecq in Le particelle elementari (1998), «le equazioni algebriche gli fornivano gioie vive e piene. Procedeva nella semioscurità e, di colpo, trovava un varco… La prima equazione della dimostrazione era la più emozionante, giacché la verità che vi ammiccava a qualche distanza era ancora incerta; l’ultima equazione era invece la più smagliante, la più gioiosa» perché il risultato vi appariva in piena evidenza. Come nel nostro caso: infatti che sarà mai quella tavoletta d’argilla “alla sumera” (ne ho posto un esemplare preso a caso ad immagine di copertina) che nasce come attestato del debito del produttore di tulipano nei confronti del Tempio che la emette e poi cresce, dopo essere stata restituita al produttore di tulipano a seguito del rimborso del debito, diventando il mezzo di acquisto diretto di grano a pagamento differito ed infine finisce a saldo del “debito fiscale” che ha il produttore di grano nei confronti del Tempio? Tutti questi passaggi successivi alla sua emissione, che tecnicamente prendono il nome di “girate”, non finiscono per renderla, a detta di un esperto (Odoardo Bulgarelli, La finanza… esisteva già nel III millennio a.C.?, in “Bancaria”, 2015 n. 12) «assimilabile ad un assegno al portatore che può svolgere anche la funzione propria di una specie di moneta d’argilla»? Si tratta infatti di una proto-moneta (la possiamo chiamare una Ur-moneta?) già in circolazione tra il Tigri e l’Eufrate ben prima della prima coniazione di moneta metallica che è avvenuta in Lidia solo nel VII secolo a. C. Per questo alla domanda che Bulgarelli si è poi posto nell’articolo divulgativo Esisteva la moneta prima che nascesse la moneta? (in “Notiziario della Banca Popolare di Sondrio”, 2012, n.119), la riposta non ha potuto essere che sì, «la moneta esisteva… prima della moneta coniata!». E se può sorprendere il fatto che su quella tavoletta non ci fossero indicazioni di valore ma soltanto di peso (staia di orzo per il prestito cittadino e sicli di argento per gli scambi a lunga distanza), ha pur spiegato Diego Gabutti che, «se la moneta si distingue per essere denaro convenzionalmente firmato, che cos’era mai un documento scritto sull’argilla da un mercante babilonese come attestato di una transazione avvenuta o a venire? Il sistema delle scritture contabili è molto più antico della monetazione. Esso ha origine dalla contabilità di magazzino quando le società producevano beni comuni e li distribuivano secondo criteri fissati sull’argilla, quando cioè non si muovevano prodotti misurandoli in valore, ma in quantità fisiche, numero, capacità, peso» (Si fa presto a dire moneta, in “n+1”, 2018, n. 43). Quanto poi alle due misure di peso sia in orzo che in argento non era forse compito del Tempio fissare la loro parità di scambio, alla quale si sarebbero adattate quelle di tutti gli altri prestiti possibili, alla stessa maniera per cui secondo il Codice di Hammurabi, a superamento della barbarica legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente, vita per vita”, erano stabilite le equivalenze legali delle offese commesse con i risarcimenti compensatori in beni materiali? Insomma, e per concludere, che altro dire? Che sulle conoscenze attuali a disposizione sulla originaria e straordinaria “economia monetaria” dei Sumeri e dei Babilonesi abbiamo l’ottima rassegna di M. Hudson, Palatial credit: the origins of money and interest (aprile 2018) che è scaricabile dalla rete.