Da Vittorio Alfieri, Vita rime e satire, a cura di Giuseppe G. Ferrero e Mario Rettori, UTET, Torino, 1978
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Vittorio Alfieri (Asti 1749 – Firenze 1803) è forse più conosciuto come il personaggio preromantico amante della libertà e nemico della tirannide che più contribuì alla formazione di una coscienza patriottica italiana, piuttosto che come tragediografo e poeta quale fu. Vero è che le sue tragedie non si rappresentano più se non in occasioni particolari, come anche accade per altre opere classiche, cambiato il gusto e le attese del pubblico. Sono tuttavia di coinvolgente lettura perché poesia. In particolare Luigi Fassò, lo studioso che lo racconta nel volume di cui sopra, segnala il Saul e la Mirra. Di seguito invece presentiamo alcune pagine tratte dalla Vita scritta da esso, opera tuttora godibile per la scrittura e di interesse per il contenuto: racconta infatti senza retorica di maniera l’Europa della seconda metà del ‘700 e i potenti del tempo.
EPOCA III – Capitolo VI: Viaggio in Inghilterra… (p. 148)
(…) Lasciate finalmente le rive della Francia, appena sbarcavamo a Douvres, che quel freddo si trovò scemato per metà, e non trovammo quasi punta neve fra Douvres e Londra. Quanto mi era spiaciuto Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l’Inghilterra, e Londra massimamente. Le strade, le osterie, i cavalli, le donne, il ben essere universale, la vita e l’attività di quell’isola, la pulizia e comodo delle case benché picciolissime, il non vi trovare pezzenti, un moto perenne di danaro e d’industria sparso egualmente nelle province che nella capitale; tutte queste doti vere ed uniche di quel fortunato e libero paese, mi rapirono l’animo a bella prima, e in due altri viaggi, oltre quello, ch’io vi ho fatti finora, non ho variato mai più di parere, troppa essendo la differenza tra l’Inghilterra e tutto il rimanente dell’Europa in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo. Onde, benché io allora non ne studiassi profondamente la costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però abbastanza osservare e valutare gli effetti divini.
EPOCA III – Capitolo VIII: Secondo viaggio per la Germania… (p. 161)
(…) Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All’entrare negli stati del gran Federico[1] che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d’indegnazione bensì e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l’uniforme. Risposigli: «Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza». Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava.
EPOCA III – Capitolo IX: Proseguimento di viaggi, Russia… (pp. 166-167)
(…) in quasi sei settimane ch’io stetti fra quei barbari mascherati da Europei, ch’io non vi volli conoscere chicchessia, neppure rivedervi due o tre giovani dei primi del paese, con cui era stato in Accademia a Torino, e neppure mi volli far presentare a quella famosa autocratrice Caterina Seconda[2]; ed in fine neppure vidi materialmente il viso di codesta regnante, che tanto ha stancata a’ giorni nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perché di una così inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu una mera intolleranza di inflessibil carattere, ed un odio purissimo della tirannide in astratto, appiccicato poi sopra una persona giustamente tacciata del più orrendo delitto, la mandataria e proditoria uccisione dell’inerme marito. E mi ricordava benissimo di aver udito narrare, che tra i molti pretesti addotti dai difensori di un tal delitto, si adduceva anche questo: che Caterina Seconda nel subentrare all’ impero, voleva, oltre i tanti altri danni fatti dal marito allo Stato, risarcire anche in parte i diritti dell’umanità lesa sì crudelmente dalla schiavitù universale e totale del popolo in Russia, col dare una giusta costituzione. Ora, trovandoli io in una servitù così intera dopo cinque o sei anni di regno di codesta Clitennestra filosofessa[3]; e vedendo la maladetta genìa soldatesca sedersi sul trono di Pietroborgo più forse ancora che su quel di Berlino; questa fu senza dubbio la ragione che mi fe’ pur tanto dispregiare quei popoli, e sì furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori. Spiaciutami dunque ogni moscoviteria, non volli altrimenti portarmi a Mosca, come avea disegnato di fare, e mi sapea mill’anni di rientrare in Europa.
EPOCA III – Capitolo VII: Rimpatriato per un mezz’anno mi do agli studi filosofici (pp. 155-156)
(…) Ma il libro dei libri per me, e che in quell’inverno mi fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e in governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare.
EPOCA III – Capitolo XV: Liberazione vera… (pp. 214-215)
(…) Non mi trovava almeno più nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato più volte fin allora, per impedire in tal modo me stesso dal poter fuggire di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch’io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o scrivere, o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s’accorgeva punto ch’io fossi attaccato della persona. E così ci passava dell’ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva egli poi, quando io sentendomi passato quell’accesso di furiosa imbecillità, sicuro di me, e rassodato il proponimento, gli accennava di sciogliermi.
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[1] Federico II, re di Prussia dal 1740 al 1786.
[2] Caterina II (1762-1796).
[3] Clitennestra perché, come Clitennestra, moglie di Agamennone, uccise il marito d’accordo con un amante: filosofessa perché amica e protettrice di filosofi.