Da Paolo Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, Einaudi, 1974
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Paolo Sarpi (nome di battesimo Pietro) rimane nella storia della cultura, non solo religiosa, per la sua Istoria del Concilio Tridentino, opera che – lui frate servita – gli inimicò la Chiesa cattolica, cui pure apparteneva, al punto che gli fu attentata la vita. Erano i tempi successivi al Concilio di Trento (aperto nel 1542 s’era concluso nel 1562) che aveva finalmente chiuso un periodo contrastato per il cattolicesimo, messo in discussione soprattutto per l’esempio di immoralità dei papi e delle alte gerarchie ecclesiastiche intese solo al potere e alla ricchezza. Che per ottenere, conservare e lasciare a nipoti e figli – anche i papi ne avevano – usavano le armi terrene proprie dei principi e quelle spirituali loro esclusive. Come è noto, furono la vendita delle indulgenze per la costruzione della nuova basilica di San Pietro in Roma e le 95 tesi di Lutero appese alla chiesa del castello di Wittenberg, con quel che ne seguì, la causa ultima a che si indicesse il Concilio. Di seguito proponiamo le pagine che raccontano l’inizio di una vicenda che ha segnato la storia mondiale.
Libro I, pp. 8-14
[Prima occasione del Tridentino]
Principiando il secolo XVI doppo la natività di nostro Signore, non appariva urgente causa di celebrar concilio, né che per longo tempo dovesse nascere. Perché parevano a fatto sopite le querele di molte Chiese contra la grandezza della corte, e tutte le regioni de’ cristiani occidentali erano in communione et obedienza della Chiesa romana. Solo in una piccola parte, cioè in quel tratto de monti che congiongono le Alpi con li Pirenei, vi erano alcune reliquie degli antichi valdesi, overo albigesi. (…) In alcuni cantoni’ ancora di Boemia vi erano alcuni pochi della medesima dottrina, reliquie pur degli stessi, dalli boemi chiamati picardi. (…) Nell’istesso regno di Boemia erano li seguaci di Giovanni Hus[1], che si chiamavano calistini overo sub utraque, li quali, fuori che in questo particolare che nella santissima communione ministravano al popolo il calice, nelle altre cose non erano molto differenti dalla dottrina della Chiesa romana. Ma né questi venivano in considerazione, così per il loro picciol numero, come perché mancavano di erudizione, né si vedeva che desiderassero communicar la loro dottrina, né che altri fossero curiosi d’intenderla.
Vi fu ben qualche pericolo di schisma (sisma). Perché, avendo Giulio II atteso più alle arti della guerra che al ministerio sacerdotale et amministrato il pontificato con eccessivo imperio verso li prencipi e cardinali, aveva necessitato alcuni di essi a separarsi da lui e congregar un concilio. Al che aggiongendosi che Luigi XII, re di Francia, scommunicato dallo stesso pontefice, gli aveva levato l’obedienza e si era congionto con li cardinali separati, pareva che potesse passar questo principio a qualche termine importante. Ma morto opportunamente Giulio et essendo creato Leone[2], con la sua desterità in brevissimo tempo riconciliò li cardinali et il regno di Francia insieme, sì che fu con mirabile celerità e facilità estinto un fuoco che pareva dovesse arder la Chiesa.
[Nel tempo di Leone X]
Leone X, come quello ch’era nobilmente nato et educato, portò molte buone arti nel pontificato; fra quali erano una buona erudizione singolare nelle buone lettere di umanità, bontà e dolcezza di trattare maravigliosa, con una piacevolezza più che umana, insieme con somma liberalità et inclinazione grande a favorir i letterati e virtuosi (artisti), che da longo tempo non s’erano vedute in quella sede né uguali, né prossime alle sue. E sarebbe stato un perfetto pontefice, se con queste avesse congionto qualche cognizione delle cose della religione et alquanto più d’inclinazione alla pietà: dell’una e dell’altra delle quali non mostrava aver gran cura. E sì come era liberalissimo e ben intendente dell’arte del donare, cosi in quella dell’acquistare non era sufficiente da sé, ma si serviva dell’opera di Lorenzo Pucci, cardinal di Santi Quattro, il qual in questa parte valeva assai.
Ritrovandosi adunque Leone in questo stato quieto, estinto in tutto e per tutto il schisma, senza alcun avversario, si può dire, (poiché quei pochi valdesi e calistini non erano in considerazione), liberale nello spendere e donare, così a parenti, come a corteggiani et alli professori di lettere, essausti gli altri fonti donde la corte romana suole tirar a sé le ricchezze dell’altre regioni, pensò valersi di quello delle indulgenze. Questo modo di cavar danari fu messo in uso doppo il 1100. Imperoché, avendo papa Urbano II concessa indulgenza plenaria e remissione di tutti i peccati a chi andava nella milizia di Terra Santa per conquistar e liberar il sepolcro di Cristo dalle mani di maometani, fu seguitato per più centenara d’anni dalli successori (…) Li quali però erano applicati, o tutti, o la maggior parte, ad altri usi.
Seguendo questi essempii Leone, così consegliato dal cardinal Santi Quattro, mandò una indulgenza e remissione de peccati per tutte le regioni di cristiani, concedendola a chi contribuisse danari et estendendola anco a morti: per i quali, quando fosse fatta l’esborsazione, voleva che fossero liberati dalle pene del purgatorio; aggiongendo anco facoltà di mangiar ova e latticini ne’ giorni di digiuno, di eleggersi (scegliersi) confessore, et altre tali abilità. E se ben l’essecuzione di questa impresa di Leone ebbe qualche particolare poco pio et onesto, come si dirà, il quale diede scandalo e causa di novità, non è però che molte delle concessioni simili già fatte dalli pontefici per l’inanzi non avessero cause meno oneste e non fossero essercitate con maggiore avarizia et estorsione. Ma molte volte nascono occasioni sufficienti per produrre notabili effetti, e svaniscono per mancamento d’uomini che se ne sappiano valere. E quello che più importa, è necessario che per effettuare alcuna cosa venga il tempo nel quale piaccia a Dio di corregger i mancamenti umani. Queste cose tutte s’incontrarono nel tempo di Leone, del quale parliamo.
Imperoché avendo egli del 1517 publicata la universale concessione delle indulgenze, distribuì una parte delle rendite prima che fossero raccolte né ben seminate, donando a diversi le revenute (i proventi) di diverse provincie e riserbando anco alcune per la sua camera (apostolica). In particolare donò il tratto delle indulgenze della Sassonia e di quel braccio di Germania che di là camina sino al mare a Maddalena sua sorella, moglie di Franceschetto Cibo, figlio naturale di papa Innocenzio VIII. Per ragione del qual matrimonio Leone era stato creato cardinale in età di 14 anni, che fu il principio delle grandezze ecclesiastiche nella casa de Medici. (…) Ma la sorella, acciò il dono del pontefice gli rendesse buon frutto, diede la cura di mandar a predicare l’indulgenze e dell’essazzione del danaro al vescovo Aremboldo, il quale nell’assonzione della dignità e carico episcopale non si era spogliato di alcuna delle qualità di perfetto mercatante genovese. Questo diede la facoltà di publicarle a chi offerì di più cavarne, senza risguardo della qualità delle persone, anzi così sordidamente, che nissuna persona mediocre poté contrattar con lui, ma solo trovò ministri simili a sé, non con altra mira che di cavar danari.
Era costume nella Sassonia che quando dalli pontefici si mandavano l’indulgenze, erano adoperati li frati dell’ordine degli eremitani per publicarle. A questi non volsero inviarsi li questori ministri dell’Aremboldo, come a quelli che, soliti maneggiare si mili merci, potevano aver maniera di trarne occultamente frutto per loro (…); ma s’inviarono alli frati dell’ordine di san Domenico. Da questi, nel publicar l’indulgenze, furono dette molte novità che diedero scandalo, mentre essi volevano amplificare il valore più del solito. Si aggionse la cattiva vita delli questori, i quali nelle taverne et altrove, in giuochi et altre cose più da tacere, spendevano quello che il popolo risparmiava dal suo vivere necessario per acquistar le indulgenze.
[Le indulgenze contese da Lutero]
Dalle quali cose eccitato Martino Lutero, frate dell’ordine degli eremitani, li portò a parlar contra essi questori; prima riprendendo solamente i nuovi eccessivi abusi, poi, provocato da loro, incominciò a studiare questa materia, volendo vedere i fondamenti e le radici dell’indulgenza; li quali essaminati, passando dagli abusi nuovi alli vecchi e dalla fabrica alli fondamenti, diede fuora 95 conclusioni in questa materia, le quali furono proposte da esser disputate in Vitemberga.
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[1] Jan Hus (1349-1415), teologo dell’università di Praga, giudicato eretico dal concilio di Costanza, nonostante il salvacondotto dell’imperatore Sigismondo, fu arso sul rogo.
[2] Leone X, Giovanni de’ Medici (1475-1521) secondogenito di Lorenzo de’ Medici.