Da Niccolò Machiavelli, Opere, in I classici del pensiero italiano, Biblioteca Treccani, 2006
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Niccolò Machiavelli è forse, assieme a Leonardo e Michelangelo, l’italiano più universalmente conosciuto – dal suo nome sono derivati, a conferma, una serie di vocaboli di particolare significato politico e comportamentale presenti anche nelle più diffuse lingue europee. Ne riassumiamo in breve la vicenda umana. Nato a Firenze nel 1469, nel 1498 entrò al servizio della Repubblica quale Segretario della Cancelleria, incarico che gli consentì – in particolare con le legazioni in Francia, in Germania e alla corte papale – di fare esperienza di uomini di potere e paesi diversi. Nel 1512 i Medici rientrarono in Firenze e la Repubblica Fiorentina ebbe fine. Machiavelli venne privato del suo incarico e imprigionato, sia pur per poco. Si ritirò in campagna e scrisse quanto le sue esperienze e la sua cultura gli dettavano. Tornato a Firenze, riebbe dai Medici qualche modesto incarico, motivo per cui la restaurata Repubblica Fiorentina lo ignorò. Morì poco dopo, il 21 giugno 1527.
Di seguito riportiamo parte della famosa lettera all’amico Francesco Vettori (p.552), impietoso ritratto di sé medesimo in esilio forzato.
(…)
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare[1]; ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori; ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, domando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, e noto vari gusti e diverse fantasie d’huomini.
Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata[2] mi mangio di quelli cibi che questa mia povera villa, e paululo[3] patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così rinvolto in tra questi pidocchi traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice che non fa scienza senza ritener lo havere inteso – io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono; e se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; ed a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla M.tia di Giuliano[4].
(…) Il darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare così che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me, e per questa cosa quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello stato, non gli ho né dormiti, né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienzia. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia. (…)
Die 10 Decembris 1513. Niccolò Machiavegli in Firenze.
A conclusione un brano da Il Principe (p. 79)
XXV Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.[5]
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbano iudicare che non fossi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro.
Nondimanco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifìzii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno cosi fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.
Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché s’ella fossi riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali. (…)
Concludo adunque che variando la fortuna e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e come discordano infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.
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[1] uccellare: uccellatoio o paretaio, cioè luogo per catturare gli uccelli con reti e richiami.
[2] brigata: famiglia.
[3] paululo: (lat.) piccolissimo.
[4] Giuliano dei Medici.
[5] Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, e in che modo se li abbia a resistere.