Da Machiavelli a Moro. Sulla storia politica italiana dal Rinascimento ad oggi elaborata da Gianfranco Borrelli*
di Valerio Romitelli
Dopo quasi ottant’anni di antifascismo militante e istituzionale, eccoci alla prese con un governo che non si può dire propriamente fascista solo perché è così opportunista e cialtrone che non ce la fa neanche a imitare le fanfaronate ideologiche del Ventennio. Una tragedia dunque che si potrebbe dire ritorna come farsa, ma non senza le sue proprie conseguenze tragiche. Urgerebbero allora bilanci di tutto quello che non è stato fatto per impedire questo ritorno inimmaginabile solo qualche anno fa. Ma non pare che molti dibattiti pullulino a riguardo. Prevale piuttosto il consolarsi pensando che il vento della destra più estrema sta imperversando anche fuori d’Italia, in Europa e nel mondo intero. Vista però anche l’importanza del nostro paese, sia nell’inventare a suo tempo lo stesso fascismo, sia poi nel riscattarsene grazie alla lotta partigiana, resta da chiedersi perché l’attuale riemergere di un passato che si credeva morto per sempre non susciti adeguate reazioni. Di sicuro almeno si è per sempre invalidata l’insulsa teoria già dominante del Ventennio del Duce come parentesi in una storia supposta tutta diversa del popolo italiano. Sarebbe dunque arrivato il momento giusto per cercare di rileggere questa storia come sì punteggiata da situazioni, personaggi e opere politicamente eccellenti, ma anche reiteratamente esposta al pericolo di catastrofiche esperienze simili a quelle di cui il fascismo è stato esempio proverbiale.
Per farsi buone domande a questo riguardo è ora disponibile uno strumento particolarmente stimolante. Suo grande merito è di permettere uno sguardo d’insieme, tanto vasto, quanto dettagliato su tutta la storia politica italiana moderna, giungendo anche a proiettarsi sulla contemporanea. Si tratta dell’opera in due volumi, di cui l’ultimo da poco uscito, di Gianfranco Borrelli[1]: Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana. Genealogie 1 (2017) e Repubblica, ragion di Stato e democrazia cristiana. Genealogie 2 (2023) entrambi pubblicati dalla casa editrice Cronopio (Napoli). Due dotti e poderosi tomi (l’ultimo di più di cinquecento pagine) che attraversano la storia moderna italiana fino alla tragica conclusione della cosiddetta prima repubblica, con l’omicidio Moro. Metodo e problematica sono entrambi ispirati alla lezione di Michel Foucault, per cui il pensiero politico, i suoi testi, i suoi autori, non sono analizzati come se esistessero all’interno di una sfera teorica e accademica a distanza dal contesto storico, ma sono ripensati in rapporto ai dispositivi di potere e alle forme di vita che lo condizionano. Così il lettore si trova davanti a categorie e ad un loro uso poco o nulla abituali.
La ragion di Stato, ad esempio – secondo quanto Borrelli precisa nel secondo tomo – pur risalendo al Cinquecento costituisce “l’ultimo laboratorio politico originale in Italia” o più precisamente, per quel tempo, “una nuova arte razionale del governo, quindi esercizio della ragione come mezzo di conoscenza e volontà di orientamento nelle cose (…) che persegue la finalità della conservazione politica in un ambito territoriale determinato” (p. 12). Niente più, dunque, il fatto bruto della proprietà fondiaria , né l’investitura divina, quali fonti principali di legittimità dei poteri apicali e neanche “l’arte personale del comando affidato al solo principe”, come accadeva esemplarmente nelle monarchie medioevali, ma una razionalità “sperimentale” con “criteri e procedure del metodo galileiano” il cui “effetto pubblico di verità sta nel produrre la convinzione che lo Stato esiste” (p. 13).
È qui che Borrelli individua uno dei principali fattori di continuità e conservazione, a volte esaltato, a volte avversato, più volte diversamente declinato nel corso di tutta la storia moderna e contemporanea più in particolare italiana. La categoria più rilevante che sempre secondo questo autore si impone grazie al successo e alla durata della ragion di Stato è quella aristotelica di prudenza. Il modo prudenziale di concepire e attuare strategie di governo pare così essere diventato dall’inizio della storia moderna anch’esso un fattore di continuità storica e conservazione politica irriducibile, specie nel nostro paese. Sue caratteristiche? Esso “intende produrre obbedienza attiva da parte dei popoli, privilegia le pratiche più che gli ordinamenti giuridici, utilizza codici diffusi di segretezza e dissimulazioni, utilizza la violenza solo in condizioni estreme; in breve, si fa carico della conservazione dei corpi e del governo dei comportamenti, produce un’attività permanente di giurisdizione sulle condizioni delle forme di vita” (p. 13)
Secondo la periodizzazione proposta da Borrelli sarà solo nel Settecento che nelle regioni italiane “l’esercizio dei dispositivi prudenziali “ comincerà a convertirsi “nelle figure dello Stato di polizia”. Altra categoria decisiva, questa dello Stato di polizia, di tutto il percorso storico che questo autore propone, proponendo anche qui una interpretazione inusuale di questa stessa categoria. Riprendendo e ampliando come altrove alcune suggestioni di Foucault il libro in questione definisce quelle dello Stato di polizia come “forme nuove di buon governo dei sudditi che consentono strategie economiche fortemente produttive (…) secondo i registri comportamentali di popolazioni disciplinate”. A supporto di queste nuove forme di gestione del potere “interviene la messa a punto di nuovi saperi governamentali: la statistica come analisi preventiva della regolarità delle condotte, l’economia politica come come indagine sistematica delle risorse, la demografia come strumento di pianificazione controllata delle nascite, la ricerca medica e la ricerca sanitaria finalizzate al benessere dei corpi ed all’igiene pubblica” (p. 509). La “nuova scienza della polizia” dunque come “arte dell’amministrazione efficace delle energie umane e delle tecniche di lavorazione – nei campi diversi dell’agricoltura dell’industria e del commercio- finalizzata alla costruzione di un nuovo soggetto collettivo, la popolazione, vettore principale della produzione di ricchezza e di potenza dello Stato”. Soggetto collettivo che pur embrionalmente nel Settecento rappresenta la premessa obbligatoria dell’ulteriore passaggio della storia politica: “la costituzione della società civile”(p. 52)
Tutto dunque per il meglio in regime di Stato di polizia? Niente affatto. Non è certo questa una conclusione cui giunge Repubblica, Stato di polizia e democrazia cristiana. In questo libro si sottolinea con forza che tutte queste innovazioni nelle regioni italiane non solo giungono “in ritardo rispetto agli paesi europei”, ma sono gestite anche proprio per ritardarla, “la formazione di un’autonoma società civile”. Ragione di Stato, dispositivi prudenziali, polizia civile sono tutti elementi che concorrono all’autonomo esercizio del paradigma conservativo (..) che si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo impianto cinquecentesco fino ai nostri giorni”(p. 508). Nonostante l’incontestabile statura intellettuale dello stesso Vico, ma anche dello stesso Foscolo – ci racconta Borrelli- per entrambi solo “un numero limitato di governanti (…) sono in grado di interpretare quegli interventi di necessità che si presentano di volta in volta nei modi diversi dell’esercizio arcano del potere politico” (p. 509). Di emergenza in emergenza, dunque, per di più tutte decise e gestite da gruppi di governanti esclusivi e per nulla trasparenti: non pare che si stia parlando di oggi?
Ma come spiegare il perché di questi ritardi, ma anche di questa indisponibilità di intellettuali e governanti italiani, anche se tecnologicamente progressisti e culturalmente illuminati, sempre ostici nei confronti di ogni pur vaga apertura alle possibilità di un’unica società civile, cioè fatta da cittadini e non da sudditi? A questo proposito, in Repubblica, Stato di polizia e democrazia cristiana del tutto opportunamente viene evocato il tema della guerra. Quella guerra effettivamente guerreggiata o altrimenti serpeggiante che per invasioni esterne o conflittualità interne tra le diverse famiglie nobiliari della penisola, dal Cinquecento in avanti, ne hanno reiteratamente compresso qualsiasi innovazione politica. Viene da pensare a quel capolavoro che è il film di Ermanno Olmi “Il mestiere delle armi”.
Un tema questo della guerra che riemerge quando questo libro affronta quella che vi viene chiamata “soggettivazione repubblicana”. Sarebbe dire quel movimento d’insieme fatto di “pratiche, linguaggi e scritture” comunemente identificate come il Risorgimento italiano che si innesca inizialmente nel triennio 1796-99, ai tempi della prima discesa di Napoleone in Italia, e che sarà condizione della pur per lungo tempo dilazionata formazione di una società civile. Una “soggettivazione”, questa di tipo repubblicano, però segnata da “una costitutiva ambiguità programmatica e di una reale inefficacia di progetto politico”. É a questo riguardo che il tema della guerra, questa volta declinata nei termini della guerra civile rivoluzionaria, torna preponderante: “Almeno nella prima parte del secolo decimonono la forma classica della lotta per la libertà e per l’indipendenza d’Italia verrà vissuta in misura crescente come insurrezione violenta organizzata in modo coperto: il fine della libertà viene identificato con lo strumento della rivoluzione armata, mentre resta sottovalutato il punto di come (…) mantenere lo stato grazie all’autogoverno dei cittadini” (p. 75). Le armi e i complotti ( per lo più mazziniani) insomma che rubano la parola alla politica impoverendone il pensiero e l’iniziativa propria: questa dunque per Borrelli una cifra caratterizzante la parabola che inficerà la “soggettivazione repubblicana” fino a far prevalere un’unità d’Italia dominata dai Savoia e dalla loro ragione di Stato in questo caso declinata in senso monarchico.
Ma che la “guerra civile permanente” sia un tratto di lunga durata caratterizzante tutta la storia moderna della ragion di Stato in Italia è convinzione che questo autore non manca di esplicitare a chiare lettere. Egli descrive in effetti la sua opera come “contributo” teso a “descrivere la presenza di attiva di pratiche/linguaggi/scritture di ragion di Stato che operano in continuità in un contesto di guerra civile permanente, a partire dal Cinquecento “ (p. 446).
Così questo tema ritorna nella caratterizzazione che Borrelli offre della storia contemporanea del nostro paese e più in partcolare dello stesso fascismo. “Ogni individuo di genere maschile – egli ricorda trattando della fusione tra ragion di Stato (monarchico) e ragione di partito inventata da questo regime – viene coinvolto fin da bambino nella simulazione della guerra permanente” come ben sintetizzato dal noto slogan: “libro e moschetto, fascista perfetto”(p. 431). Ma in Repubblica, Stato di polizia e democrazia cristiana si sottolinea anche come “al fine della conservazione politica (del fascismo) risulta particolarmente funzionale la produzione di conflitti introdotti ad arte. Con finalità preventive rivolte a contrastare l’opposizione al regime si fa valere la produzione immaginaria del nemico interno (…)” e ancora: “la mobilitazione permanente della popolazione (operata dal fascismo) intende restituire il senso vivo della guerra civile inevitabile e della disciplina di massa che si rende indispensabile per garantire la sicurezza e la pace contro coloro che intendono favorire il nemico esterno” (p. 437) .
Il tema della guerra dunque non solo come sottofondo costante della storia politica italiana, ma anche come bandiera dello stesso fascismo. Si può allora capire come anche come la “soggettivazione repubblicana” che per Borrelli emerge senza remore per la prima volta in Italia nel corso della lotta partigiana si tempri e trovi il suo battesimo anch’essa tra i tormenti e gli orrori del peggior clima bellico si possa immaginare, quello della seconda guerra mondiale. Così pure si può comprendere come la ragion di Stato e di partito dominante nell’Italia del dopoguerra, quella della democrazia cristiana, si eserciti sulla nuova e titubante società civile ancora in formazione grazie ad una “mediazione prudente e conservativa” – sottolinea l’autore – nei confronti delle “pressioni dei paesi atlantici” (p. 444). Ancora una volta, la guerra, dunque, sia pur nella sua versione globale cosiddetta fredda, a fare da spada di Damocle sui destini del nostro paese. Quanto mai significativo da questo punto di vista è infine che Repubblica, Stato di polizia e democrazia si concluda con il tragico episodio che prelude al disfacimento della cosiddetta prima repubblica: quell’assassinio di Moro, perpetrato nell’intento dichiarato da parte dei rapitori di scatenare in tutto il paese una ondata di guerra stavolta “di classe”, e molto probabilmente non esente da condizionamenti geopolitici esterni.
Tra le tante possibili letture di questo libro colmo di stimoli e suggestioni, sia a livello di metodo sia di contenuto, qui evidentemente si è preferito insistere sul leit motif, forse non tanto accentuato dallo stesso autore, quanto ricorrente nella sua esposizione, della guerra diversamente declinata, allusa, pensata e praticata, ma sempre o quasi presente quale invariante delle vicende storico politiche italiane dal Rinascimento ad oggi. Se in queste brevi note si è scelta questa angolatura è perché forse di questo libro è possibile un’interpretazione che può rimettere in discussione tutta una lunga tradizione a livello storiografico e di opinione che fa della celebrazione del conflitto, da intendere sempre direttamente o indirettamente di classe, il suo cavallo di battaglia. Tutto al contrario, un’importante riflessione che si può trarre da Repubblica, Stato di polizia e democrazia, ma anche dal tomo che lo precede Machiavelli, ragion di Stato, polizia cristiana, riguarda proprio il fatto che non tutti i conflitti, di classe o meno, sono sempre e comunque politicamente proficui, proprio perché rischiano persino di azzerarla, la politica. Cosicché più opportuno sarebbe convincersi che tutto dipende da come questi fatidici conflitti sono impostati, per quali scopi tattici e strategici sono condotti, e da come si ragiona sul loro inevitabile esaurirsi ciclico. Una riflessione questa che potrebbe essere proficuo sviluppare anche in riferimento all’attuale misera ragione di partito che ci governa: una ragione che deve gran parte dei suoi scarsi consensi ad una propaganda chiassosamente pugnace, appunto, dietro la quale non si nasconde altro che l’opportunismo più reazionario.
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* Questo articolo è anche sulla rivista on line Machina-DeriveApprodi.
[1] Già professore di Storia delle Dottrine Politiche e Filosofia politica presso l’Università Federico II di Napoli.