Da Ludovico Antonio Muratori, Opere, a cura di Giorgio Falco e Fiorenzo Forti, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1964
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Ludovico Antonio Muratori (Vignola 1672 – Modena 1750) rimane nella storia della cultura come esemplare filosofo settecentesco. Di erudizione enciclopedica, ha lasciato uno sterminato patrimonio di opere in lingua italiana e latina, di argomento storico, letterario, scientifico, giuridico, religioso… Sacerdote – fu addirittura preposto per defatiganti anni a Santa Maria della Pomposa – ha trascorso la vita fra archivi e biblioteche rinvenendo testi e documenti non conosciuti, attività che, assieme ai suoi scritti, gli procurò fama europea. Delle sue innumerevoli opere citiamo solo le più note, ancora preziose: Rerum italicarum scriptores, Antiquitates italicae medii evi e, godibilissima, Annali, di cui riportiamo di seguito alcune pagine.
Da Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1749, pp. 1407-1409, 1411-1413, passim (dall’anno 1647).
Le ribellioni di Palermo e di Napoli
Vegniamo a Napoli (…) Erasi in quella gran città per li correnti bisogni della corona, a cagion delle guerre che in tante parti l’infestavano, istituita una gabella sopra le frutta, che perciò si vendevano più care, ed eretta una baracca nella Piazza del Mercato, dove stavano i ministri deputati per esigerla. Al basso popolo, che spezialmente si pasce di pane e frutta, intollerabil parea questo nuovo aggravio e non s’udiva che mormorazioni e digrignar di denti. Trovossi una mattina abbruciata la baracca; il che fece riflettere a don Rodrigo Ponze di Leon, duca d’Arcos[1] e viceré molto savio, che non era da caricar la povera gente di quel dazio e doversi ricavar da altra parte quella somma di danaro. Pure, cedendo al parer di coloro a’ quali fruttava essa gabella, rimise la baracca come prima.
Ora avvenne che un certo Tommaso Aniello da Amalfi, comunemente appellato Masaniello, giovane di ventiquattro anni, di vivace ingegno e pescatore di professione, introducendo pesce senza aver pagata la gabella, fu maltrattato dagli esecutori della giustizia e perdé quel pesce. Tutto collera, ne giurò vendetta e cominciò a persuadere a’ compagni che, se il seguitassero, gli dava l’animo di liberar la città da tanta oppression di gravezze e indusse ancora i bottegai fruttaruoli a non comperar frutta che pagasse gabella. Gran rumore facea allora anche nel popolo più vile la sollevazion di Palermo. Ora, mancando le frutta nel dì 7 di luglio, si svegliò un tumulto nella piazza, ed accorso Andrea Anaclerio, eletto del popolo per quetarlo, corse pericolo d’essere lapidato. Fuggito ch’egli fu, Masaniello salito sopra una tavola (era bel parlatore) talmente esagerò le miserie del povero popolo, assassinato dal presente governo, che si trasse dietro una brigata di cinquecento uomini e fanciulli della vil feccia, sopranominati lazzari, che poco appresso si accrebbe sino a due mila persone. Acclamato da costoro per capo, ordinò tosto che si attaccasse fuoco alla baracca e ai libri e mobili di que’ gabellieri e fu prontamente ubbidito.
Di là passò la baldanzosa canaglia (provvedutisi molti di piche e d’altre armi) alle case dove si riscotevano le gabelle della farina, carne, pesce, sale, olio ed altri comestibili, e della seta. A niuna d’esse perdonò. Tanto esse che i mobili tutti, fra’ quali ricche tapezzerie, argenti, danari ed armi furono consegnate alle fiamme, comandando Masaniello che nulla si riserbasse. Insuperbiti costoro per non trovare chi lor facesse fronte e cresciuti fino a dieci mila, si portarono alle carceri di San Giacomo degli Spagnuoli e furiosamente rottele, quanti prigioni v’erano, posti in libertà, si unirono con gli altri ammutinati. Allora tutti s’inviarono al palazzo del viceré, con alte voci gridando:
– Viva il re di Spagna, e muoia il mal governo! –
Affacciatosi ad una finestra, il duca d’Arcos promise loro di levar le gabelle delle frutta e parte di quelle della farina.
– Tutte le vogliamo levate! – replicava la plebe e intanto entrando a furia per la porta, e messe in fuga le guardie tedesche e spagnuole, presero quelle alabarde e cominciarono a scorrere per le camere del palazzo, con dare il sacco a quanto trovavano. Portarono rispetto all’appartamento dove stava il cardinal Trivulzio, dimorante allora in Napoli. Gittò bensì il viceré da una finestra biglietti sigillati col sigillo reale, co’ quali assicurava il popolo di sgravarlo da tutte le gabelle; ma insistendo coloro di volergli parlare, egli animosamente scese a basso e con dolci parole cercando di ammansarli, confermò la promessa fatta. Tuttavia, benché molti gli baciassero mani e ginocchia, scorgendo egli il bollore di quelle teste riscaldate, destramente salì in carrozza per sottrarsi alla loro insolenza. Gli corsero dietro e fermarono la carrozza; ma egli con adoperare il preparato recipe d’alcuni pugni di zecchini, che sparse fra loro, scappò lor dalle mani e si salvò nella chiesa e nel monistero di San Luigi, facendo tosto serrar le porte. Sopragiunti colà i sediziosi atterrarono la prima porta e lo stesso avrebbono fatto del resto se non sopragiugneva il cardinale Ascanio Filamarino arcivescovo, che s’interpose per la concordia e presentò poi a quella furiosa gente una scrittura del viceré con belle promesse. Ma perché questa non conteneva se non l’abolizione della gabella della frutta e di parte di quella della farina, più che mai diedero nelle furie; il che servì d’impulso al viceré di ritirarsi in Castello Sant’Ermo.
(…)
Ciò non ostante il cardinale arcivescovo raggruppò il negoziato dell’accomodamento e lo trasse a fine; accordando il viceré quanto li volle dal popolo, con disegno nondimeno che soltanto durasse la sua promessa che venisse il tempo e il comodo della vendetta; non sapendo inghiottire un animo spagnuolo il mirare ridotta a sì vile stato l’autorità sua e la riputazion della nazione da un miserabile pescivendolo, giunto a far tremare tutta Napoli.
Volendo poi l’arcivescovo condurre a palazzo Masaniello, bisognò che adoperasse gli argani per farlo spogliare de’ suoi poveri cenci e prendere veste di tela d’argento e cappello con pennacchiera. Accompagnato fino a palazzo da tutto il basso popolo in armi, che si credette ascendere a cento cinquanta mila persone, prima di entrare fece un patetico discorso a tutti, esortandoli a gridare:
– Viva il re di Spagna! – e ricordando loro ch’egli era nato povero e tale voler anche morire, e che l’operato da lui finora non era proceduto da ambizione né da voglia di guadagnar un soldo né di fare ribellione al re, ma solamente di liberarli tutti dal troppo gravoso mal governo finora patito. (…)
Ma, a guisa de’ fenomeni (meteore), ben corta durata ebbe l’esaltazione dell’ardito plebeo. Eccolo vaneggiare, eccolo divenuto forsennato e talvolta furibondo. Non si sa se perché le applicazioni e vigilie gli avessero di troppo riscaldata la nuca o perché nella visita a palazzo egli avesse votate alquante caraffe di Lagrima Christi, a che non era avvezzo, o pure perché qualche ingegnoso veleno gli fosse stato in quella congiuntura somministrato, andò crescendo la sua frenesia, di modo che dopo alcune scene di leggierezza o crudeltà, il popolo l’abbandonò e il viceré ebbe modo nel dì 16 di luglio con quattro archibugiate di levar dal mondo. Sicché soli sei giorni durò il regno di Masaniello e quattro il suo vaneggiamento. (…)
Credevansi gli Spagnuoli per la morte di costui ormai liberi da ogni impaccio; ma s’ingannarono a partito. Nel di seguente, giorno 17 d’esso luglio, pentito il popolo corse a raccogliere il corpo di Masaniello, che era stato strascinato per la città, l’unirono alla testa che gli era stata tagliata e sopra un cataletto lo portarono alla chiesa del Carmine, prorompendo in alte acclamazioni di liberator della patria, di padre della povertà. Ne fecero fino un santo, come divenuto martire in benefizio del pubblico. A udire que’ pazzi, la testa s’era unita col busto, avea loro parlato e data la benedizione; correndo perciò la stolta gente a baciarlo ed a toccarlo colle corone (del rosario). Vollero ancora che gli si facesse un superbo funerale con isterminata e suntuosa processione, coronata dai sospiri e dal pianto di ciascuno, e a gara tutti si procacciavano il suo ritratto.
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[1] Duca d’Arcos: viceré di Napoli dal 1646 al 1648.