Da Giovanni Boccaccio – Trattatello in laude di Dante, a cura di Luigi Sasso, Garzanti Editore, Milano, 2019
a cura di Adriano Simoncini
Care lettrici e cari lettori,
nel 2021 cade il settecentenario dalla morte di Dante Alighieri. Per questa importante occasione siamo anche noi all’opera per dare un contributo. Lungo il corso dell’intero anno, dunque, pubblicheremo scritti e riflessioni sul sommo poeta, provando, come è nostra abitudine, a star lontani da formule “troppo dottrinali”. A partire da questo primo contributo a cura di Adriano Simoncini, raccoglieremo le uscite nella nuova rubrica “DANTEsettecento” che trovate nell’apposita sezione del nostro sito.
Auguri dalla redazione di maggiofilosofico.it
Quando nel 1321 Dante morì a Ravenna dopo 18 anni di esilio, Giovanni Boccaccio aveva solo otto anni e viveva a Firenze, quindi non lo incontrò mai. Ma la stima per l’uomo e l’ammirazione per il poeta lo incentivarono a narrarne, per primo, vita e opere. In verità Dino Compagni, fiorentino e coetaneo di Dante, nella sua Cronica aveva accennato al carattere rubesto del nostro, ma il Trattatelo in laude di Dante è già una accurata e appassionata biografia. Della prima versione del Trattatello, presento di seguito alcune pagine che descrivono l’uomo Dante e il miracoloso ritrovamento degli ultimi tredici canti del Paradiso di cui non si aveva alcuna notizia.
Fattezze e costumi di Dante
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Ne’ costumi domestici e publici mirabilemente fu ordinato e composto, e in tutti più che alcuno altro cortese e civile. […]
Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità, quel prendendo; né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: […]
Niuno altro fu più vigilante di lui e negli studii […]
Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, là dove si richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta prolazione.
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que’ tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è già mostrato […]
Dilettossi similemente d’essere solitario e rimoto dalle genti, acciò che le sue contemplazioni non gli fossero interrotte […]
Ne’ suoi studi fu assiduissimo […]
Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione de quolibet che nelle scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu reputata.
D’altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sì come le sue opere troppo più manifestano agl’intendenti che non potrebbono fare le mie lettere.
Vaghissimo fu e d’onore e di pompa per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tocca? […]
E perciò, sperando per la poesì allo inusitato e pomposo onore della coronazione dell’alloro poter pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la Fortuna graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di San Giovanni s’era disposto di coronare; acciò che quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma così andò che, quantunque la sua sufficienza fosse molta, e per quella in ogni parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l’onore della laurea pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell’acquistata certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosi, senza il molto disiderato onore avere, si morì. […]
I canti smarriti
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, […] senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte, secondo che la gravità de’ casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta publicare la potesse. Egli era suo costume, quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n’avea, quegli, prima che alcuna altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne volea. E in così fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si morì. E, cercato da que’ che rimasero, e figliuoli e discepoli, più volte e in più mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l’aveva almeno tanto prestato al mondo ch’egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più cercare, non trovandogli, s’erano, disperati, rimasi. […]
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l’ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all’ora che noi chiamiamo «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo (figliuolo di Dante), e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell’ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s’egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l’avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare.
A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: «Sì, io la compie’»; e quinci gli parea che ’l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: «Egli è qui quello che voi tanto avete cercato». E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato.
Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, né saputo ch’ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l’usanza dell’autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita.