Da Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Einaudi Tascabili, 1991
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Di Giorgio Vasari (Arezzo 1511 – Firenze 1574) abbiamo già proposto un cenno biografico nel precedente intervento dedicato alla vita di Leonardo da Vinci. Di seguito presentiamo ora alcune pagine tratte dalla vita di Michelangelo Buonarroti, unico artista ancora in vita al momento della scrittura delle Vite, questo perché il Vasari intende omaggiarlo in quanto lo ritiene il più grande di sempre[1].
MICHELANGELO BONARROTI FIORENTINO Pittore Scultore et Architetto,
961-965, pp. 891-94
Venne in questo mezzo volontà al papa [Giulio II], che aveva ripresa Bologna e cacciatone fuora i Bentivogli, di far fare una statua di bronzo per memoria; e mentre che Michele Agnolo lavorava la sepoltura[2], fu fatto lasciare stare, e mandato a Bologna per la statua, dove fece una statua di bronzo a similitudine di Papa Giulio, cinque braccia d’altezza, nella quale usò arte bellissima nella attitudine, perché nel tutto aveva maestà e grandezza, e ne’ panni mostrava ricchezza e magnificenza, e nel viso animo, forza, prontezza e terribilità. Questa fu in una nicchia, sopra la porta di San Petronio. Dicesi che, mentre Michele Agnolo la lavorava, vi capitò il Francia orefice e pittore per volerla vedere, avendo tanto sentito de le lodi e de la fama di lui e delle opere sue, e non avendone veduto alcuna. Furono adunque messi mezzani, perché vedesse questa, e n’ebbe grazia. Onde, veggendo egli l’artificio di Michele Agnolo, stupì. Per il che fu da lui domandato che gli pareva di quella figura. Rispose il Francia che era un bellissimo getto. Intese Michele Agnolo che e’ lodasse più i1 bronzo che l’artificio, perché sdegnato e con collera gli rispose: «Va’ al bordello tu e ‘l Cossa, che siete due solennissimi goffi nell’arte».
Talché il povero Francia si tenne vituperatissimo in presenza di quegli che erano quivi. Dicesi che la Signoria di Bologna andò a vedere tale statua, la quale parve loro molto terribile e brava. Per il che volti a Michele Agnolo gli dissero che l’aveva fatta in attitudine sì minacciosa, che pareva che desse loro la maledizzione, e non la benedizzione. Onde Michele Agnolo ridendo rispose: «Per la maledizzione è fatta». L’ebbero a male quei signori, ma il papa, intendendo il tratto di Michele Agnolo, gli donò di più trecento scudi. Questa statua fu poi ruinata da’ Bentivogli, e ‘l bronzo di quella venduto al Duca Alfonso di Ferrara che ne fece una artiglieria, oggi chiamata la Giulia: salvo la testa, la quale ancora si trova ne la sua guarda roba.
Era già ritornato il papa in Roma e, mosso dall’amore che portava alla memoria del zio, sendo la volta della cappella di Sisto non dipinta, ordinò che ella si dipignesse.
E si stimava per l’amicizia e parentela che era fra Raffaello e Bramante ch’ella non si dovesse allogare a Michelangelo. Ma pure per commissione del papa et ordine di Giulian da San Gallo fu mandato a Bologna per esso e, venuto che e’ fu, ordinò il papa che tal cappella facesse e tutte le facciate con la volta si rifacessero. E per prezzo d’ogni cosa vi misero il numero di xv mila ducati. Per il che, sforzato Michele Agnolo dalla grandezza della impresa, si risolse di volere pigliare aiuto, e mandato per uomini e deliberato mostrare in tal cosa che quei che prima v’avevano dipinto dovevano essere prigioni delle fatiche sue, volse ancora mostrare a gli artefici moderni come si disegna e dipigne. Laonde il suggetto della cosa lo spinse andare tanto alto per la fama e per la salute dell’arte, che cominciò i cartoni a quella e, volendola colorire a fresco e non avendo fatto più, fece venire da Fiorenza alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel quale v’erano alcuni pratichi molto, i quali si condussero a Roma e furono il Granaccio, Giulian Bugiardini, Iacopo di Sandro, l’Indaco Vecchio, Agnolo di Domenico et Aristotile e, dato principio all’opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio.
Ma veduto le fatiche loro molto lontane da ‘l desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse di gettare a terra ogni cosa che avevano fatto. E rinchiusosi nella cappella[3] non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere. E così dalla beffa, la quale pareva loro che troppo durasse, presero partito, e con vergogna se ne tornarono a Fiorenza. Laonde Michele Agnolo preso ordine di far da sé tutta quella opera, a benissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s’avesse mostrare; onde ne gli animi delle genti nasceva ogni dì maggior desiderio di vederla.
Era Papa Giulio molto desideroso di vedere le imprese che faceva, per il che di questa che gli era nascosa venne in grandissimo desiderio; onde volse un giorno andare a vederla e non gli fu aperto, che Michele Agnolo non avrebbe voluto mostrarla. Per la qual cosa il papa, a cui di continuo cresceva la voglia, aveva tentati più mezzi, di maniera che Michele Agnolo di tal cosa stava in grandissima gelosia, e dubitava molto ch’alcuni manovali o suoi garzoni non lo tradissero, corrotti dal premio, come e’ fecero. E per assicurarsi de’ suoi, comandandoli che a nessuno aprissero se ben fosse il papa, et essi promettendogliene, finse che voleva stare alcuni dì fuor di Roma e, replicato il comandamento, lasciò loro la chiave.
Ma partito da essi, si serrò nella cappella al lavoro, onde subitamente fu fatto ciò intendere al papa, perché, essendo fuori Michele Agnolo, pareva loro tempo comodo che Sua Santità venisse a piacer suo, aspettandone una bonissima mancia. Il papa, andato per entrar nella cappella, fu il primo che la testa ponesse dentro, et appena ebbe fatto un passo, che da l’ultimo ponte su ‘l primo palco cominciò Michele Agnolo a gettar tavole. Per il che il papa vedutolo e, sapendo la natura sua con non meno collera che paura, si mise in fuga minacciandolo molto. Michele Agnolo per una finestra della cappella si partì e, trovato Bramante da Urbino, gli lasciò la chiave dell’Opera, et in poste se ne tornò a Fiorenza, pensando che Bramante rappaceficasse il papa, parendogli invero aver fatto male.
Arrivato dunque a Fiorenza, et avendo sentito mormorare il papa in quella maniera, aveva fatto disegno di non tornare più a Roma. Ma per gli preghi di Bramante e d’altri amici, passato la collera al papa e non volendo egli che tanta opera rimanesse imperfetta, scrisse a Pier Soderini allora Gonfaloniere in Fiorenza che Michele Agnolo a’ suoi piedi rimandasse, perché gli avea perdonato. Fu fatto da Piero a Michele Agnolo saper questo, ma egli era fermato di non ritornarci, non si fidando del papa. Onde Pietro deliberò mandarlo come ambasciadore per più securezza sua, et egli con questa buona sicurtà alla fine pur si condusse al papa.
Era il Reverendissimo Cardinale di Volterra fratello di Pier Soderini, per il che gli fu inviato da Piero e raccomandato che lo introducesse. Onde nella giunta di Michele Agnolo sentendosi il cardinale indisposto, mandò un suo vescovo di casa che per sua parte lo introducesse. Onde nello arrivare dinanzi al papa, che spasseggiando aveva una mazza in mano, per parte del cardinale e di Piero suo fratello gli offerse Michele Agnolo, dicendo tali uomini ignoranti essere e che egli per questo gli perdonasse. Venne collera al papa e con quel bastone rifrustò il vescovo dicendogli: «Ignorante sei tu». E volto a Michele Agnolo benedicendolo se ne rise. Così Michele Agnolo fu di continuo poi con doni e con carezze trattenuto dal papa, è tanto lavorò per emendare l’errore che l’opera alla fine perfettamente condusse.
La quale opera è veramente stata la lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo per tante centinaia d’anni in tenebre stato.
Pe esemplificare l’ammirazione e l’efficacia con cui Vasari narra di Michelangelo e delle sue opere, riportiamo di seguito alcune righe dalle pagine che descrivono le figure dipinte sulla volta della Cappella Sistina.
La creazione di Adamo:
966, p.895 [Dio] porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e dintorni di qualità che e’ par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore, piuttosto che dal pennello o disegno di un uomo tale.
La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre:
967, p.895 […] Adamo, a le persuasioni di una figura mezza donna e mezza serpe, prende la morte sua e nostra nel pomo, e veggonvisi egli et Eva cacciati di Paradiso. Dove nella figura dell’Angelo appare con grandezza e nobiltà la esecuzione del mandato di un Signore adirato, e nell’attitudine di Adamo il dispiacere del suo peccato, insieme con la paura della morte, come nella femmina similmente si conosce la vergogna, la viltà e la voglia di raccomandarsi, mediante suo restringersi nelle braccia, giuntar le mani a palme e mettersi il collo in seno; e nel torcere la testa in verso l’Angelo che ella ha più paura della giustizia che speranza della misericordia divina.
Ed ecco il brano che chiude il racconto della vita di Michelangelo:
991, p.914 […] E non si meravigli alcuno che io abbia qui descritto la vita di Michelagnolo vivendo egli ancora, perché non si aspettando che e’ debbia morir già mai, mi è parso conveniente far questo poco ad onore di lui, che quando bene come tutti gli altri uomini abbandoni il corpo, non si trovverà però mai alla morte dell’immortalissime opere sue: la fama delle quali mentre ch’e’ dura il mondo, vivrà sempre gloriosissima per le bocche degli uomini e per le penne degli scrittori, mal grado della invidia et al dispetto della morte.
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[1] Michelangelo morì quasi novantenne il 18 febbraio 1564, mentre Le Vite furono edite nel 1550.
[2] Lavorava al sepolcro di papa Giulio II, che vanta il marmo del Mosè.
[3] Michelangelo iniziò a lavorare alla volta della Sistina il 10 maggio 1508 e la cappella fu riaperta il 31 ottobre 1512.