Da Giambattista Vico, Opere, a cura di Fausto Nicolini, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1953
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Giambattista Vico (Napoli 1668-1744), lettore d’eloquenza all’università, visse da modestissimo borghese, poveramente e misconosciuto. Per contro, nel leggere le sue opere si assiste alla nascita di nuove discipline che si svilupperanno lungo il secolo decimonono nel campo della filosofia, della storia, della filologia… Sarebbe dunque dovuto vivere non durante l’illuminismo, che lo disconobbe, ma nel secolo del romanticismo, di cui fu il precorritore. La Scienza nuova è l’opera che l’ha consegnato alla storia della cultura, opera di un filosofo che è a un tempo storico e poeta. E dalla Scienza nuova presentiamo di seguito alcune pagine esemplificative.
Del diluvio universale e de’ giganti (dal capitolo III)
Gli autori dell’umanità gentilesca[1] dovetter essere uomini delle razze di Cam, che molto prestamente, di Giafet, che al quanto dopo, e finalmente di Sem, che altri dopo altri tratto tratto rinnonziarono alla vera religione del loro comun padre Noè, la qual sola nello stato delle famiglie poteva tenergli in umana società con la società de’ matrimoni, e quindi di esse famiglie medesime. E perciò dovetter andar a dissolver i matrimoni e disperdere le famiglie coi concubiti incerti; e, con un ferino error divagando per la gran selva della terra – quella di Cam per l’Asia meridionale, per l’Egitto e ‘l rimanente dell’Affrica; quella di Giafet per l’Asia settentrionale, ch’è la Scizia[2], e di là per l’Europa; quella di Sem per tutta l’Asia di mezzo ad esso Oriente – per campar dalle fiere, delle quali la gran selva ben doveva abbondare, e per inseguire le donne, ch’in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udir voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in uno stato affatto bestiale e ferino.
Nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolar dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre; e questi – dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co’ sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; e sforzarsi per penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri in maggior copia s’insinuavano ne’ loro corpi; e senza alcun timore di dèi, di padri, di maestri, il qual assidera il più rigoglioso dell’età fanciullesca; – dovettero a dismisura ingrandire le carni e l’ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti.
L’origine della poesia, dell’idolatria, della divinazione e de’ sagrifizi (dalla sezione I, capitolo I)
Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie (…). Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu una facultà loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano (…).
Tal poesia incominciò in essi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, essere dèi, (…) (ed ora il confermiamo con gli americani, i quali tutte le cose che superano la loro picciola capacità dicono esser dèi; a’ quali aggiugniamo i germani antichi, abitatori presso il Mar Agghiacciato[3], de’ quali Tacito narra che dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidente passava per mare nell’oriente, ed affermavano di vedere gli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni ci dànno ad intendere molto più di questi autori della gentilità, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo, diciamo, alle cose ammirate davano l’essere di sostanze dalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciulli, che (…) osserviamo prendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favellarvi come fusser, quelle, persone vive.
In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano (…) dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati « fingunt simul creduntque ».
Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanità gentilesca quando (…) il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’eran dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere più robuste vi hanno i loro covili, eglino spaventati ed attoniti dal grande effetto di cui non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura (…) e la natura loro in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove, il primo delle genti dette «maggiori», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa; e si incominciarono a celebrare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la maraviglia.
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[1] I progenitori delle varie nazioni gentili, cioè non ebrei.
[2] La Siberia
[3] L’oceano glaciale artico.