Da Francesco Guicciardini, Opere, Storia d’Italia (libri I-X), in Classici italiani, UTET, 1981
antologia storica a cura di Adriano Simoncini
Francesco Guicciardini (Firenze 1483-1540), appartenente a una “delle prime famiglie della città”, ebbe incarichi di rilievo alle dipendenze dei papi Leone X e Clemente VII, entrambi dei Medici: governatore di Modena e Reggio, presidente di Romagna, poi luogotenente generale dell’esercito e dello stato pontificio durante la guerra contro l’imperatore Carlo V, conclusasi nel 1527 col “sacco di Roma”. Fu dunque testimone e a un tempo protagonista di un’epoca cruciale per la storia d’Italia, quando la penisola divenne di fatto parte dell’impero spagnolo, da cui dipese per quasi due secoli. Rimane nella storia della cultura europea per due capolavori: i Ricordi, raccolta di massime che hanno fondato con Il Principe di Machiavelli il pensiero politico moderno, e la Storia d’Italia, coinvolgente ancora oggi per la scrittura vera e potente.
Partecipe cittadino di Firenze, italiano e laico, il suo sentire si compendia in queste memorabili parole: Tre cose desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito ancora che io vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra; Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo dalla tirannide di questi scellerati preti. (Ricordi, B 31)
Dalla Storia d’Italia riporto di seguito alcune pagine che descrivono i costumi e la morte di papa Alessandro VI Borgia.
(pp. 376-377) Perché avendo (papa Alessandro VI), insino da principio del suo pontificato, disegnato di volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il cardinale di Valenza (il Valentino) il quale, d’animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale, aspirava all’esercizio dell’armi, non potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli avesse più parte di lui nell’amore di madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande scelleratezza), lo fece, una notte che e’ cavalcava solo per Roma, ammazzare e poi gittare nel fiume Tevere secretamente.
Era medesimamente fama che nell’amore di madonna Lucrezia concorressino non solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il quale avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesaro, non comportando d’avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato; avendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false testimonianze, e dipoi confermare per sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito.
Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia, ardente come mai fusse stato padre alcuno nell’amore de’ figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della fortuna, perché è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tutte le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poiché ebbe con grandissima commozione d’animo e con lacrime deplorata gravemente la sua miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo di vivere che insino a quel dì aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de’ cardinali a riformare seco i costumi e gli ordini della corte.
Alla quale cosa avendo dato opera qualche dì, e cominciando a manifestarsi l’autore della morte del figliuolo, la quale nel principio si era dubitato che non fusse proceduto per opera del cardinale Ascanio o degli Orsini, deposta prima la buona intenzione e poi le lagrime, ritornò più sfrenatamente che mai a quegli pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dì aveva consumato la sua età.
(pp. 583-584) Ma ecco che al colmo delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da caldi, è repentinamente riportato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dì seguente, che fu il decimo ottavo dì di agosto, è portato morto secondo l’uso de’ pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell’età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità.
Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama più comune, l’ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl’inimici o per assicurarsi de’ sospetti ma eziandio per cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuto offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Sant’Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro[1] non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravvenne per sorte il pontefice innanzi a l’ora della cena, e, vinto dalla sete e da’ caldi smisurati ch’erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni[2] per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino più prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino: il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si mise similmente a bere del medesimo vino.
Concorse al corpo morto d’Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d’alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventù insino all’ultimo dì della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo più di quello desiderava.
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[1] Servitore.
[2] Provviste.