Crisi bancaria negli USA: ci risiamo?
di Toni Iero
Premessa
Giorgio Gattei
Crisi bancaria negli USA: ci risiamo?
Il recente fallimento di Silicon Valley Bank (SVB) ha riportato alla memoria quello avvenuto nel settembre del 2008 della Lehman Brothers. Fino a che punto si tratta di episodi simili? Siamo di fronte ad un’altra tempesta finanziaria in grado di scuotere i sistemi economici mondiali? Cominciamo col dire che, in realtà, il dissesto di SVB ha origini diverse da quello che travolse la Lehman. Circa quindici anni fa, la banca d’affari americana venne messa in ginocchio dall’insolvenza dei clienti cui aveva prestato il suo denaro. Oggi la banca californiana è stata colpita dal ritiro di ingenti quantità di dollari depositati sui suoi conti correnti. Nel primo caso il problema sorse dal lato dell’attivo (prestiti), questa volta dal lato del passivo (depositi). Per chiarire, in estrema sintesi, una banca raccoglie denaro (conti correnti, depositi) e lo presta (finanziamenti alle imprese, mutui), guadagnando sulla differenza dei tassi di interesse applicati (quello su conti correnti e depositi è, usualmente, molto minore di quello sui prestiti). Il tracollo della Lehman è stato la conseguenza di prestiti spericolati (effettuati, in realtà, da tutto il sistema bancario americano), la caduta di SVB è stata causata dal “panico” dei correntisti. Ma perché quelli che avevano depositato il loro denaro nella Silicon Valley Bank hanno avuto paura e sono corsi a ritirare i soldi? Cercherò di spiegare il meccanismo senza eccedere nei dettagli tecnici.
Tutto nasce dall’aumento dei tassi di interessi portato avanti dalla Federal Reserve (FED, la banca centrale degli Stati Uniti). Per contrastare l’aumento dell’inflazione, la FED ha portato il tasso di interesse dallo 0,25% della primavera del 2021 al 4,75% di febbraio 2023. Quando la struttura dei tassi di interesse sale, scende il valore delle obbligazioni, in particolare di quelle che offrono rendimenti fissi. La SVB, in passato, aveva comprato una gran quantità di titoli di Stato USA (quindi titoli considerati “sicuri”), il cui valore, proprio a causa dell’innalzamento dei tassi di interesse, è poi sceso parecchio. I clienti di questa banca sono, per lo più, imprese (la maggior parte delle quali operanti nel campo della tecnologia) con depositi spesso superiori ai 250 mila dollari. Questa cifra è la soglia massima per cui è prevista la garanzia di rimborso da parte della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), per avere un raffronto, considerate che in Italia la garanzia vale fino a 100 mila euro. Ecco quindi che tali imprese, viste le difficoltà della banca generate dalle minusvalenze sui titoli nel suo portafoglio e alla luce del fatto che la garanzia federale non avrebbe coperto totalmente i loro depositi, per prudenza, hanno deciso di ritirare il denaro depositato presso SVB. Solo che l’hanno fatto (quasi) tutte insieme. Di fronte ad una massiccia corsa agli sportelli, nessuna banca può resistere: non vi è alcun istituto di credito che abbia la liquidità sufficiente per ripagare tutti i suoi correntisti. In un primo tempo, SVB ha provato a reperire un po’ di fondi vendendo (in perdita) una parte dei titoli che aveva in portafoglio, ma, così facendo, ha accumulato un passivo che ha progressivamente eroso il suo margine patrimoniale (ossia la disponibilità di capitale che la vigilanza bancaria chiede ad ogni istituto di credito). Risultato: la banca è stata dichiarata fallita. Nel frattempo anche altre banche locali sono incorse nel medesimo problema, così è tracollata anche Signature Bank, anche se qui la corsa al ritiro dei depositi è scattata in relazione al crollo dell’exchange di criptovalute FTX alla fine del 2022, una piattaforma per scambiare le cosiddette criptovalute (come il Bitcoin).
Insomma, questa crisi ha origini diverse da quelle del 2008. Non c’è dubbio che la causa scatenante sia stata l’aumento dei tassi di interesse che colpisce il valore dei titoli obbligazionari in possesso delle banche. Secondo il FDIC, gli istituti di credito USA hanno in pancia circa 620 miliardi di dollari di potenziali minusvalenze legate all’erosione del valore dei titoli in cui hanno investito. Già questa informazione è preoccupante, poiché tale cifra è oltre un quarto del valore complessivo di tutte le banche quotate negli Stati Uniti. Ma la cosa non finisce qui, poiché, così come l’aumento dei tassi ha fatto deprezzare i titoli, allo stesso modo si deprezza anche il valore reale dei prestiti erogati dalle banche stesse, quantomeno quello dei prestiti concessi a tasso fisso e non variabile. Tenendo conto anche di questo fattore, un calcolo effettuato da alcuni analisti della Southern California University porta il valore delle potenziali perdite a circa 2 mila miliardi di dollari: un importo che cancellerebbe del tutto la capitalizzazione delle banche USA! A complicare il quadro c’è il comportamento dei correntisti. Con tassi di interesse elevati si alza lo stimolo a togliere il denaro dal conto corrente (la cui remunerazione è pressoché nulla) per metterlo in strumenti che offrono un rendimento maggiore (titoli di Stato, obbligazioni, fondi comuni, etc.). Se questo avvenisse su larga scala, molte banche si troverebbero nella condizione in cui si è trovata la Silicon Valley Bank. E, come si capisce da quanto specificato in precedenza, il sistema bancario USA non riuscirebbe a reggere. Per tranquillizzare gli americani, la FED ha annunciato che saranno garantiti anche i conti correnti superiori ai 250 mila dollari e, a tal proposito, è sceso in campo direttamente il presidente Joe Biden.
Anche se queste rassicurazioni dovessero bastare, si delinea un’altra criticità: nelle condizioni che si stanno profilando, le banche faticheranno a garantire il finanziamento dell’attività economica. Questo vuol dire minori prestiti, sia alle imprese che alle famiglie. Una stretta creditizia, soprattutto se accompagnata com’è da tassi in salita, potrebbe portare velocemente ad una recessione. Se gli Stati Uniti entrano in recessione l’Europa seguirà a ruota. Il paradosso è che potrebbe succedere che, di fronte a tale pericolo, le banche centrali (in particolare la FED e la BCE) si ritroveranno… ad abbassare in fretta e furia i tassi di interesse! In contemporanea, in Europa, è entrato in crisi il Credit Suisse, la seconda banca svizzera. Questo istituto di credito, in realtà, non si è mai completamente ripreso dal tracollo avvenuto in coincidenza con lo scoppio della cosiddetta bolla dei mutui subprime. Credit Suisse è una banca d’affari, quindi è diversa da Silicon Valley Bank. Gestisce circa 1300 miliardi di euro. Si tratta di un istituto dal passato oscuro, coinvolto nel “furto” dei beni confiscati agli ebrei dai nazisti. Una banca che ha (o ha avuto) tra i suoi clienti numerosi dittatori (per esempio, il filippino Marcos), sospettata di riciclare il denaro della mafia giapponese e di aver aiutato Iran e Sudan ad aggirare le sanzioni. Il tonfo in borsa, avvenuto a metà marzo, è legato al rifiuto categorico dei sauditi (che, di fatto, controllano la società) di immettere altro denaro nell’istituto. È quindi intervenuta la banca centrale svizzera per ricapitalizzarla, convincendo la maggiore banca elvetica, UBS, ad acquistarla. Certo che se anche in Svizzera le banche vanno male … Come si capisce, la situazione appare molto delicata: dopo più di un decennio in cui i sistemi economici occidentali sono stati “nutriti” da continui ribassi dei tassi di interesse e da un’inondazione di liquidità creata dalle banche centrali, era prevedibile che fosse assai difficile gestire una fase di aumento dei tassi e di restrizione monetaria.
Siamo di fronte ad un altro collasso mondiale? Probabilmente no. Il disallineamento tra i sistemi finanziari mondiali seguito all’attacco russo all’Ucraina rallenterà l’estensione di una eventuale crisi negli USA al resto del mondo “non occidentale”. Intendiamoci, non che la Cina e gli altri Paesi emergenti siano indenni da quanto avviene nella maggiore economia mondiale. Però, rispetto al passato, i meccanismi di trasmissione della crisi sono meno diretti e più deboli. Infatti, seppure lentamente, si sta configurando un mondo con due grandi aree: da una parte gli Stati Uniti e i loro alleati (Europa, Giappone, Australia, Canada, etc.) e dall’altra i Paesi al di fuori della sfera USA (Cina, Russia, Iran, in parte l’India, forse l’Arabia Saudita, etc.). I due blocchi stanno separandosi un po’ alla volta. Sia per quanto riguarda la finanza (sistemi di pagamento, valuta di riferimento), sia per quanto riguarda le catene di fornitura industriale. Si tratta di un processo lento, che però pare ormai avviato. Questa vicenda conferma il quadro di grandi squilibri che stanno sconquassando le nostre società.
Tra deflazione e inflazione, globalizzazione e sovranismo, finanziarizzazione e precarizzazione del lavoro abbiamo visto aumentare la distanza tra ricchi e poveri non solo in termini economici e finanziari, bensì anche dal punto di vista dell’agibilità sociale. Qualche tensione comincia ad emergere qua e là, in Francia violente manifestazioni contro l’innalzamento dell’età pensionabile, nel Regno Unito partecipati scioperi per aumenti di salario, in Portogallo scendono in piazza i dipendenti pubblici. Colpisce la sostanziale assenza di proteste nel nostro Paese, dove, invece, vi sarebbero giustificati motivi per recriminare sui disastri che la politica ha causato a livello sociale ed economico. Sembrerebbe che buona parte degli italiani sia, da tempo, alla ricerca di un nume tutelare in grado di risolvere i problemi con una bacchetta magica: si è inseguito il sogno berlusconiano, per risvegliarsi con l’incubo della crisi dei debiti sovrani; si è acclamato il salvatore Monti, rivelatosi poi un insipiente nano politico; si è sperato nei 5 Stelle, per scoprire che sono uguali agli altri (talvolta peggio); si è puntato su Salvini, rivelatosi per quel che era, un ragazzotto senza arte né parte; adesso ci si è affidati alla Meloni, capo di un partito retrogrado e fuori dal mondo. Quand’è che i nostri connazionali troveranno il coraggio di guardare in faccia la realtà di una nazione in declino?