Chi è Terry Dalfrano e cosa occulta la chiave occulta?
di Ugo Mastrocinque
Chi è Terry Dalfrano, l’autrice e protagonista di questo porno-giallo? Lei si definisce “escort accademica” e narra una vicenda che coinvolge due presidi di facoltà e un assistente di ruolo, un direttore amministrativo e la sua segretaria, un’assistente sociale e lei stessa. Lei, “la puttana santa”, cerca di ammazzare la noia leggendo romanzi gialli e rosa, ma non ci riesce. Allora decide di iscriversi alla Facoltà di Sociologia di Firenze, mantenendosi agli studi con l’esercizio della professione tra clienti universitari. Però le accade di innamorarsi di Luciano, un assistente scontroso specializzato in “tuttologia” e anche in altre cose che Terry condivide, a volte a pagamento, a volte no. Senonché Luciano muore durante un’orgia all’inizio del romanzo. L’orgia, in una dependance dell’università, l’ha organizzata proprio lei, su suggerimento di lui, e tutto sarebbe andato a gonfie vele se non ci fosse scappato il morto. È infarto per eccesso di crapula oppure omicidio? Sembrerebbe il secondo, ma non si sa con certezza perché a un certo punto il cadavere non si trova più. Allora: resurrezione o trafugamento? Che è poi il dilemma che ci trasciniamo dietro dai tempi di quel Calvario.
Spinta da Giuliano, direttore amministrativo dell’università ed ex-amico di Luciano, Terry decide d’investigare sull’omicidio e di scrivere un diario delle indagini. Sono indagini di tipo molto particolare, che lei svolgerà con largo impiego delle sue doti postribolari. Infatti raccoglierà informazioni dagli altri partecipanti all’orgia anche portandoseli a letto; e sia i maschi che le femmine, date le sue tendenze bisex. Man mano che procede l’inchiesta vengono uccisi altri partecipanti dell’orgia. Il meccanismo è quello classico dei Dieci piccoli indiani di Agatha Cristhie. Ma chi uccide chi? E chi sarà il prossimo? E alla fine toccherà anche a Terry? L’inchiesta assume un risvolto inatteso quando lei realizza che il vero scopo del direttore amministrativo non è tanto la scoperta dell’assassino quanto il rinvenimento di una “chiave occulta” che non si sa bene cosa sia e a cosa serva fino all’epilogo della storia. E perché capisce che Luciano si era eretto a suo mentore e guru in un’ascesi mistica alla ricerca di uno sfuggente Graal, coppa di depravazione. Nel finale Terry realizza che i due ex-amici cercavano la stessa cosa, ma proprio quando crede di essere riuscita a portare tutti i nodi al pettine deve ammettere che il pettine non riesce a scioglierli.
La trama è semplice, ma lo sviluppo è complesso e cattura il lettore sin dalle prime pagine. Lo cattura con una scena esplicita di sesso promiscuo che ne preannuncia molte altre. Queste scene si succedono ciclicamente nel corso dell’avventura, il che ha indotto qualcuno a definire l’opera un “romanzo post-pornografico”. In che senso? Forse nel senso della dialettica hegeliana: se la pornografia è la negazione dell’erotismo, la post-pornografia è la negazione della negazione, e la sintesi di erotismo e pornografia. In effetti gli intermezzi sessuali sono narrati in modo da rompere tutti gli schemi dei generi eros/porno. E sono scritti con tale eleganza da non esibire nulla della volgarità della pornografia e nulla della pruderie dell’erotismo. Sarei tentato di dire che sono la parte più godibile del romanzo se non fosse che ce ne sono altre non meno coinvolgenti.
Dietro la semplicità della trama si nasconde una complessità formale che investe innanzitutto la struttura temporale della narrazione. Il diario è intessuto di retrospezioni, la più importante delle quali interessa la distanza temporale che intercorre tra il tempo in cui si svolgono i fatti della narrazione principale, cioè il 1988, e la “rivoluzione” del Sessantotto, quando vengono poste in essere le cause fondamentali degli atti compiuti vent’anni dopo. Un’altra retrospezione si estende sul tempo più breve in cui nasce e cresce la passione tra Terry e Luciano. Questa storia d’amore è ricostruita in prima persona dalla protagonista con una serie di flash-back distribuiti uniformemente in tutto il diario, quasi a costituire un romanzo nel romanzo.
La complessità della struttura temporale del testo non genera confusione, ma produce una sorta di effetto spaesamento tanto intrigante quanto illuminante. È innanzitutto lo spaesamento del lettore odierno, il quale si trova dislocato in un tempo dell’azione che non è poi così distante dal presente e che tuttavia ne sembra sideralmente lontano. Disorienta la distanza dell’oggi da quel finire degli anni ’80 che segna quasi una data epocale nella storia dell’umanità. Chi ci crederebbe che allora esistevano cose che si chiamavano Partito Comunista e Casa del Popolo, che c’erano ideologie forti e compagni teneri? Peraltro c’erano già delle conoscenze che oggi appartengono quasi al senso comune: il punto G, le creme rigeneranti, il sesso tantrico e altre delizie del genere. Ne hanno dimestichezza anche le focolarine. È possibile che allora fossero delle novità per una prostituta? Ha dunque ragione la curatrice quando afferma che trent’anni dell’età contemporanea sono più densi di cambiamenti dei due secoli della retrospezione manzoniana dei Promessi sposi.
Ancora più spiazzante è la distanza che intercorre con l’epoca della Grande Contestazione. Ed ecco le battaglie e i valori del Sessantotto, descritti con qualche compiacimento da alcuni personaggi che li hanno vissuti, e che appaiono totalmente estranei allo spirito rapace, opportunista e cialtronesco dell’era post-berlusconiana, come la distanza tra il prima e il dopo la cacciata dall’Eden. Il lettore giovane, quello appartenente alla generazione perduta dalla flessibilità, si domanderà se è mai veramente esistita una siffatta stagione di esaltazione politica e amorosa, e se sia una dimensione immaginabile della realtà. Quello più anziano si domanderà invece come sia stato possibile che…
Può darsi che questi effetti di spaesamento siano parte di una strategia filosofica volta a rovesciare il significato e la funzione sociale della narrativa, come se oggi si fosse arrivati al punto in cui non si tratta più di usare il romanzo per la costruzione di senso, ma per la sua distruzione. Terry però non sembra esserne consapevole, tutta presa com’è dal desiderio di portare a compimento, nelle pratiche sessuali e nell’indagine poliziesca, la missione assegnatagli da Luciano, che è la crescita della conoscenza. Lui l’aveva erudita nelle discipline umanistiche, fino a diventare la sua guida personale in un cammino di ascesi mistico-erotica. Terry doveva conquistare la verità su se stessa attraverso un’insolita forma di yoga che sconfinava nella magia rossa, e anche attraverso l’interpretazione di dottrine, racconti e suggestioni propostigli da Luciano. Così, quando lui muore, lei si ritrova senza guru, senza mentore e senza amore, e il suo cammino mistico avrà una battuta d’arresto. Non cessa però la ricerca investigativa, che va oltre il delitto, nel tentativo di capire quella verità profonda di Luciano che è anche la sua. Nell’indagine Terry riceve aiuto da due personaggi bizzarri, le “vergini rosse”, che entrano in scena verso la metà del romanzo. Sono due femministe oltranziste, anche loro allieve di Luciano, le quali, parlandole delle idee sviluppate nella loro tesi di laurea, quasi senza volerlo guideranno Terry verso la scoperta della chiave occulta.
I vari personaggi del romanzo sono costruiti a tutto tondo, sapientemente caratterizzati sul piano fisico e psicologico. Tutti, meno i due principali, Terry e Luciano, del cui aspetto fisico ci viene detto poco e niente: della prima che ha “il più bel culo di Roma e di Firenze”, del secondo che ha un sorrisetto sarcastico sotto i baffi. Della mente di entrambi però conosciamo molto. È come se la narratrice avesse mirato a costruire due archetipi spirituali: la “puttana santa” e il “mago”. Tacendo del loro aspetto fisico sembra aver voluto privarli della loro singolarità. I due personaggi principali della storia sono maschere. Luciano per di più è una maschera senza volto. Lo conosciamo tramite le narrazioni altrui. E lo conosciamo soprattutto dalle strampalate idee che professa, di cui non si capisce bene quanto ci creda e quanto ci marci. Si dà il caso che Luciano, benché esca di scena sin dall’inizio, è il macchinatore occulto di tutta la vicenda. È il protagonista principale, ma come un soggetto assente.
Terry non indulge nelle auto-descrizioni. Più che parlare di sé, tende a dire di come è vista da Luciano; il quale l’apprezza, oltre che per il fatto di essere “più troia che puttana”, anche perché è una che “non crede in nulla”. In effetti è una donna cinica e candida, e abulica, senza centro, senza autonomia spirituale, un soggetto costruito dall’ambiente. Da tutto ciò lei crede di derivare la capacità di mantenere una posizione di neutralità nei confronti dei personaggi e dei fatti che studia, di narrare e comprendere scientificamente proprio l’ambiente che la determina.
Il che ci dà forse una chiave per entrare nell’operazione tentata in questo romanzo. Che di primo acchito si presenta come un pastiche di generi forse mirante a parodiare l’industria del best-seller in diversi segmenti del mercato, giallo, rosa, nero, porno, danbrowniano ecc. Comunque, si tratta sostanzialmente di un romanzo storico. Non per caso la curatrice, che è l’autrice implicita, conclude con una citazione da Manzoni. In effetti la Postfazione è un calco dall’Avvertenza dei Promessi sposi.
Tuttavia, mentre il “gran baciapile e mangiapreti lombardo” aveva cercato di correggere lo stile del suo reperto andando a lavare i panni in Arno, la nostra scrittrice sembra aver cercato di farlo andando a sporcare i suoi in Tevere, il che parrebbe voler suggerire un discorso sulla lingua letteraria contemporanea. La narrazione è scritta in un linguaggio apparentemente basso, popolare, pieno di eleganze inglesi e di parole provenienti dalla parlata romana; tutti difetti che sembrano causati dall’estrazione sociale della protagonista, una coatta nata e cresciuta in una borgata di Roma. Ma sappiamo che si tratta di una “buggerona colta” o almeno di una “che si coltiva”. E lo stile in cui scrive è elegante e rigoroso, seppur non alto. Sembra volerci dire che oggi non si può scrivere letteratura viva se non si riesce a elevare al livello artistico la lingua corrente, e che questa lingua si forma e trasforma quotidianamente nella capitale culturale d’Italia attraverso continui apporti dall’inglese e dalla parlata romana. Si badi, però, non è il romanesco di Gadda e Pasolini, un gergo volgare inserito in modo posticcio dentro una lingua letteraria pura. Piuttosto è un idioma vivo, pienamente assimilato all’italiano, aperto e innovativo. Viene meno il tradizionale dualismo tra lingua degli intellettuali e lingua del popolo.
Il contrasto è espresso allegoricamente da una discussione sulla vera capitale di quell’immensa provincia che è l’Italia. Secondo Luciano sarebbe Firenze, e per il suo provincialismo non per la sua lingua, mentre Roma non può esserlo in quanto è l’unica città italiana all’altezza della letteratura mondiale. È poi esemplificato dall’eloquio di Gianrico Delandi, preside della facoltà di Economia e fiorentino DOC, il personaggio più divertente di tutti, se non altro per il modo in cui parla. Gianrico è “un gran cruscheggione, e senza l’ingenuità del toscano medio che crede di parlare italiano quando usa la lingua che gli ha insegnato mamma”. Si esprime in modo forbito, immaginifico, e anche un po’ autoironico, usando espressioni vernacolari, vocaboli arcaici e citazioni colte, da Dante, Casti e altri fiorentinacci del passato. Divertente la scena in cui Gianrico corregge il collega milanese Silvio Moscanti perché in una frase ha usato l’indicativo invece che il congiuntivo. La risposta che riceve è “non scassare”.
Il romanzo è intessuto di citazioni letterarie. Alcune sono abbastanza evidenti, la maggior parte però sono nascoste, ampia materia di divertimento per il lettore smaliziato. È solo un gioco cervellotico o c’è qualcosa di più? Potrebbe essere un tentativo di segnalare dei velati esercizi di stile? Forse, ma ho dei dubbi. Le modulazioni si sviluppano con una tale naturalezza da allontanare ogni impressione che si tratti di un balocco manieristico. In realtà l’intero romanzo è scritto in uno stile omogeneo e rivela un’autrice consapevole dei propri mezzi espressivi. Ma allora a che servono tutti quei riferimenti letterari? È una volontà di dissacrare mostri sacri? Anche qui direi: forse. In questo modo si potrebbe spiegare la presenza di citazioni alte, da Dante, Rimbaud, Proust, Mann, Moravia, accanto a brani presi dalla “poesia smielata” di John Lennon o quella “libidinosa” di Jovanotti, oppure la riscrittura di una poesia di Pound con il verseggio adolescenziale di un terrorista paranoico. Ma ci deve essere qualcosa di più della voglia di dissacrazione.
Ci potrebbe essere una teoria che risolve la letteratura in una disciplina auto-referenziale. Non esistono fatti, solo narrazioni – si sarebbe tentati di dire, se non fosse che qui la narrazione mira a spiegare proprio i fatti. La letteratura è scienza, sembra di capire, ma la conoscenza che dà non ha niente a che vedere col realismo. Pare piuttosto basata sulla potenza conoscitiva dei controfattuali. Contro i fatti, in contrasto con essi o in controluce: ecco il modo in cui questa narrativa vuole dare conoscenza della realtà.
Ma se la narrazione è indagine scientifica, allora deve perdere l’aura che da sempre ha attinto dalla pretesa di essere Arte. Così, più che scopi dissacratori, le citazioni tendono ad avere effetti di desacralizzazione. La narratrice vuole dissolvere qualsiasi residuo di aura, non solo quella dei grandi scrittori-filosofi dell’Ottocento, ma anche quelle aure posticce in cui si dilettavano le avanguardie del Novecento. E sembra sostenere che la caduta dell’aura non è conseguenza del progresso tecnico, bensì di quel modo di produzione capitalistico che ha ridotto tutto a merce.
La desacralizzazione attraverso il riconoscimento della mercificazione è sottolineata da una certa insistenza sulla fisicità consumistica dei personaggi. Sembrano tutti tossico-dipendenti, da hascisc, tabacco, alcol, cibo, sesso. Terry lo è più di ogni altro e quasi se ne compiace. È scrupolosa nel descrivere le proprie scorribande nelle trattorie toscane, i vini che sceglie, le sigarette e i sigari che fumano i vari personaggi, le tappezzerie e i profumi che compra, le tecniche dell’amore. Lo fa come proponendo degli inserti pubblicitari. Insiste sulla dimensione strumentalmente estetica della creazione del genere di consumo: il bello è utile, serve a produrre beni godibili, cioè di valore. Sembra volerci dire che non c’è poi una gran differenza tra un romanzo di Hemingway, una suite di Coltrane, una bottiglia di Sassicaia, un panino col lampredotto, un rito sessuale e un quadro di Warhol. Sono tutti prodotti che, pur richiedendo un raffinato lavoro creativo, aspirano a un unico riconoscimento, che è poi quello del mercato.
La dipendenza più forte in tutti i personaggi – eccetto le “vergini rosse”, femministe dure che hanno portato la separatezza fino al punto di praticare la castità – è appunto quella dal sesso. Come ho già detto, il romanzo è intessuto di scene piccanti. La più raccapricciante di tutte si svolge sul finale, quanto Terry coinvolge Giuliano in un rito tantrico con cui lo conduce alla bella morte. Anche con l’aiuto dello strakè, una droga al cui uso è stata iniziata da Luciano, eccita la sua vittima fino al delirio. E mentre lei lo cavalca mettendo in atto tutte le proprie arti di “puttana santa”, Giuliano si libra in un trip psichedelico che infine lo porta al coma. Ma è un coma vigile, e uno stato alterato di coscienza, nel quale ottiene un satori esplosivo pochi istanti prima della morte.
Il che ci riporta alla scienza, una scienza che indaga un mondo di delitti in cui nessuno è innocente. In questo romanzo abbiamo un pensiero nomade che costruisce la vicenda narrata come una rappresentazione dello sfacelo, un grande affresco della condizione in cui versa oggi Firenze, allegoria dell’Italia, a sua volta allegoria del mondo intero. L’autrice, penetrando nella microsociologia del potere e dell’amore della società emersa dopo la caduta, vuole narrare il dramma delle avanguardie arrabbiate e libertine che hanno lottato e hanno perso e che oggi si dibattono senza speranza tra “palleschi” e “piagnoni”, tra il vituperio di una destra post-moderna e l’inettitudine di una sinistra pre-moderna. Infine Luciano rivela ciò di cui il “superuomo qualunque” è giunto a prendere coscienza: che il mondo è retto da una sola legge, “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.” Al che, Terry domanda:
“E basta?”
“No.”
“Cos’altro?”
“Non gli basta.”
Il romanzo di Terry Dalfrano, La chiave occulta: diario di un’escort accademica, lo trovate qui: https://lachiaveocculta.weebly.com