Bologna e l’influenza “spagnola” (1918)
da Sergio Sabbatani , Sirio Fiorino, La pandemia influenzale “spagnola”, in «Le Infezioni in Medicina», n. 4, 2007, pp. 279-283
La posizione geografica di Bologna sulla Via Emilia e snodo ferroviario Nord-Sud, collocava la città al centro dei collegamenti tra il fronte, la Valle Padana e la penisola che si estendeva oltre gli Appennini. Per questo motivo, nel 1918 la Città felsinea era a particolare rischio epidemiologico. Bologna dopo l’Unità d’Italia era rifiorita, il Piano Regolatore del 1889 aveva rilanciato la sua urbanistica, i quartieri fatiscenti erano stati riqualificati, con la costruzione di nuovi insediamenti residenziali per le classi lavoratrici fuori dalle vecchie mura della città storica. La crescita demografica era stata così indirizzata nelle nuove aree a Nord della Via Emilia, mentre nelle zone pedecollinari, a Sud, si era sviluppata un’edilizia residenziale sofisticata, destinata alle classi benestanti. La città aveva avuto un rilancio della sua storica Università e sul piano sanitario era, rispetto al Paese, sicuramente meglio attrezzata. Inoltre, poteva contare su una collaudata rete di assistenza di tipo solidaristico che si era andata consolidando attraverso i secoli.
Quale fu l’impatto epidemico sulla popolazione in quei mesi che, tra l’estate del 1918 e l’inverno del 1919, vide il flagello della Spagnola interessare tutta la penisola, mentre si concludeva la grande guerra e la fame, la miseria e i lutti avevano lasciato in ginocchio la nazione? […].
Dati ufficiali, comparsi sul Resto del Carlino del giorno 1 dicembre 1918, ci dicono che in Città nei mesi di ottobre e novembre furono denunciati 6.926 casi di influenza grave. In ottobre perirono 383 civili e 166 militari. Nel mese di novembre i decessi per Spagnola furono 181 tra i civili e 396 tra i militari. In quel bimestre il giorno più nero fu il 26 ottobre con 25 morti tra i civili e 28 tra i militari.
A parere di Giuseppe Bellei, all’epoca Ufficiale Sanitario del Comune di Bologna, non ci fu una interruzione del quadro epidemico tra l’ondata primaverile e quella ben più grave autunnale. Per sostenere questa tesi, cita il fatto che, conteggiando il numero di decessi per broncopolmonite, nei cinque mesi, tra maggio e settembre del 1917, questi furono 90, mentre nello stesso periodo dell’anno seguente furono 234. Ricordava inoltre che già nel mese di luglio c’era stato un decesso collegabile all’influenza. A suo parere, questi dati indirizzano verso l’ipotesi che questi morti in eccesso fossero secondari all’influenza.
Bellei, nella sua relazione, espresse l’opinione che il quadro epidemico a Bologna seppur grave fu, se rapportato a quanto accadde nel paese, relativamente mite. Egli stimava che nel mese di febbraio del 1919, quando ormai l’epidemia era in fase di remissione, si fossero contati circa 2.000 decessi da collegare alla Spagnola. Questo dato consentiva di stilare un bilancio che, seppur drammatico, era non troppo negativo.
Della stessa opinione furono due illustri clinici bolognesi, Enrico Boschi e Giuseppe Dagnini. Questi medici ammettevano, in una conferenza tenuta a Bologna nell’aprile del 1919, che numerosi casi non gravi non erano giunti all’osservazione dei medici.
È interessante rilevare che i due clinici, per rendere la relazione il più possibile esaustiva, avevano inviato un questionario a tutti i colleghi esercenti nella Città e in provincia, per ottenere risposte che consentissero di delineare, per sommi capi, i caratteri delle febbri occorse nei due periodi primavera-estate e autunno-inverno. I colleghi bolognesi dimostrarono interesse collaborando in buon numero, consentendo di delineare in termini soddisfacenti l’andamento clinico dell’epidemia influenzale a Bologna.
Per quanto riguarda le misure profilattiche, non fu applicata nessuna disposizione particolare contro l’influenza, come la chiusura dei cinema, delle scuole, la limitazione delle rappresentazioni teatrali, ecc.
Fu solamente deciso di ricoverare gli influenzati gravi nella Scuola Masi – trasformata in ospedale dall’Autorità militare per i bisogni della guerra – in quanto l’Ospedale Maggiore era insufficiente per il gran numero di malati che facevano domanda di ammissione.
Bellei, nella sua relazione, ammise onestamente che nulla era stato fatto “… che neppure lontanamente possa ritenersi efficace a limitare in qualche modo il diffondersi del malanno”.
L’iniziale ritardo di 15 giorni nella riapertura delle scuole a settembre non rivestì, a suo parere, un significato particolare nella riduzione del contagio, anche perché tale provvedimento temporaneo non modificò sostanzialmente l’impatto epidemico.
Gli asili, diversamente, rimasero sempre aperti perché ospitavano i figli di numerosi militi le cui mogli erano impiegate nell’industria bellica, e che, in caso di chiusura, sarebbero rimasti privi di assistenza.
Bellei sottolineava che non si era osservata alcuna differenza nel decorso dell’epidemia a Bologna rispetto alle città italiane ove erano stati applicati provvedimenti restrittivi particolarmente rigorosi, anzi ricordava che la mortalità era stata minore rispetto a numerose altre città. Per quanto riguarda l’uso della maschera protettiva, utilizzata largamente all’epoca, a Bologna fu ritenuta inutile in quanto, come ricordava l’Ufficiale Sanitario, “il virus filtrabile dell’influenza passa attraverso qualsiasi maschera che permetta il passaggio dell’aria”.
Essendo la causa dell’influenza non nota, tutti i numerosi vaccini che vennero sperimentati non risultarono efficaci. Furono tentate anche a Bologna terapie con preparati a base di aglio, di tinture di iodio, il chinino, preparati a base di piccole dosi di acido fenico, l’aspirina, la canfora, preparati con olio di cinnamomo (cannella), il salvarsan, l’olio di ricino, il bicarbonato di sodio, il citrato di sodio, ma tutti risultarono infruttuosi. Ricomparve il salasso, ripudiato dai medici sul finire del secolo XIX, con risultati che furono negativi quando venne utilizzato nei pazienti con polmonite secondaria all’influenza.
L’impotenza era grande tanto che, dopo la disamina dei provvedimenti adottati con risultati totalmente negativi, Bellei concludeva che gli stessi risultati si erano ottenuti “con la più semplice delle cure: l’abbondanza d’aria nell’ambiente nel quale i malati si trovano”.
Purtroppo, nonostante gli sviluppi scientifici collegati alle scoperte virologiche e immunologiche, oggi, a distanza di poco meno di novanta anni dall’autunno del 1918, la terapia etiologica nei confronti del virus influenzale è ancora confusa. Nel marzo del 1919 l’Ufficiale Sanitario di Bologna Giuseppe Bellei terminava la sua relazione ricorrendo, per definire le cognizioni che all’epoca erano ritenute attendibili, ad una espressione che gli consentiva di ammettere sinteticamente la generale condizione d’impotenza di fronte all’influenza Spagnola: Ignoramus.
(si ringraziano gli autori e l’editore per la gentile concessione)