Andrà tutto bene per l’Europa?*
di Valerio Romitelli
Le ricadute della guerra in Ucraina rischiano di avere effetti a catena disastrosi per l’Ue: tali da riconfigurare il vecchio continente, come nessuna crisi finanziaria, lotta sociale, rivolgimento politico o ristrutturazione economica abbiano mai fatto almeno dal crollo del muro di Berlino ad oggi.
Le cause più dirette di un simile possibile sconvolgimento a venire sono note e molteplici. Tra di esse anzitutto le restrizioni nella fornitura di gas e altre materie prime da parte della Russia difronte all’inasprimento delle sanzioni nei suoi confronti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma anche l’intensificarsi della corsa al riarmo istigata dalla Nato e coinvolgente persino quella Germania la cui nulla autonomia militare è stata la condizione del suo primato economico nel seno dell’Ue a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Né va sottovalutato quanto una fedeltà atlantica e un’ostilità antirussa particolarmente esibite stiano favorendo il prestigio di paesi come la Polonia (forse un modello per la stessa Italia a governo Meloni?) già più volte bacchettati dal resto dell’Ue perché considerati poco rispettosi dei suoi valori liberali e democratici.
Gli esempi di ciò che ne potrà seguire sono anch’essi noti e molteplici. Tra di essi, uno dei più recenti è la chiusura dell’impianto della russa Lukoil insediata da anni in Sicilia che rischia di gettare in miseria all’incirca diecimila persone e desertificare tutta la zona tra Siracusa e Catania, finora una delle più produttive dell’isola. Ma di fronte all’aumento dei costi energetici nessuno sa quale possa essere il destino di ogni attività economica e di assistenza sociale nel seno dell’Ue, dove oltretutto la fatidica transizione Green sta perdendo quella priorità finora conclamata come assoluta.
Per quanti timori susciti una simile prospettiva sempre più cupa e incerta, l’opinione dominante a livello mediatico e politico in Europa sembra assumerla come una sorta di destino inevitabile: come il prezzo dovuto alla salvaguardia della nostra stessa identità di occidentali liberali e democratici minacciati dal dispotismo d’origine orientale. Il calcolo “costi/ benefici”, dogma imprescindibile delle dottrine neoliberali, pare retrocedere per lasciare spazio a preoccupazioni identitarie e ideologiche, in una parola: sovraniste.
Evidentemente la tradizionale egemonia degli Usa sull’Ue, che con alterne vicende dura dalla fine della seconda guerra mondiale, sta giungendo ad una sorta di resa dei conti. L’ondata di autolesionismo che sta travolgendo i governi del vecchio continente non si comprende infatti se come estrema prova di fedeltà al “Washington consensus”, nel momento in cui e nonostante che quest’ultimo non sa più offrire prospettive allettanti, ma solo il terrificante orizzonte nel quale lo scontro finale con le potenze orientali russa e cinese pare inevitabile.
Si discute se si tratti di una sorta di ritorno ai tempi della “Guerra fredda”. Ma sono da registrare comunque differenze abissali. Ora infatti l’alternativa tra occidente e oriente ha tutti i caratteri di una sfida identitaria, a sfondo razzista, e di dominio territoriale cioè sovranista, mentre allora (dal dopoguerra agli anni Ottanta) a fronteggiarsi erano due contrapposti ideali universalistici (da un lato, il comunismo e la pianificazione socialista, dall’altro, la democrazia e il libero mercato) che comunque facevano sperare in un futuro migliore del presente, mobilitando energie collettive, lotte e pregnanti dibattiti in favore dell’uno o dell’altro. Il tutto mentre i paesi già colonizzati, sia pur in modo contraddittorio e contrastato cominciavano a rialzare la testa.
I. Vale la pena di chiedersi quali sono i presupposti ideologici aderendo ai quali gli alleati europei della Nato attualmente non vedono alternative salvo seguire gli Stati Uniti in questa strada senza uscita se non catastrofica. Successivamente considereremo come questi presupposti si applicano al caso ucraino.
Uno dei primi presupposti sempre riaffermati per confermare la supposta superiorità dell’occidente è che il regime ivi dominante, ossia la democrazia liberale, sarebbe il regime più naturale per l’umanità, cosicché la sua espansione nel mondo rappresenterebbe il massimo progresso possibile. Quasi nulla è dunque cambiato sul piano ideologico da quando Marx denunciava il falso egualitarismo della società democratica borghese che già dal XIX secolo pretendeva di sottomettere tutte e tutti, senza distinzioni e ovunque fossero, al “gelido calcolo del denaro”, in realtà portatore delle mostruose differenziazioni capitalistiche tra sfruttati e sfruttatori.
Altro presupposto è che l’occidente sia la terra d’origine della detta democrazia liberale. Strano concetto questo, dal momento che l’Europa, supposto cuore di questa terra, almeno fino a che Unione Sovietica e Stati Uniti non hanno fatto a pezzi il nazismo, era un continente appannaggio soprattutto di monarchie e dittature, molte delle quali per altro ben disposte nei confronti dello stesso nazismo. Intessere le lodi della democrazia liberale oggi dunque non significa altro che intessere le lodi, non di tutto l’occidente, ma di una sua parte. Quella più “estrema”. A non avere mai conosciuto né monarchie né dittature, ma solo il regime democratico non sono infatti che gli Stati Uniti. Quegli Stati Uniti che dopo essersi fatti largo a colpi di sterminio dei nativi e dopo essersi dilaniati con una guerra civile più cruenta che mai, si sono assestati in un regime bipartitico: diviso tra i buoni e i cattivi, a seconda del partito che si sceglie, il tutto molto improntato alle dottrine calviniste dei padri pellegrini fondatori.
Per l’Europa quindi l’identificazione con un occidente che è in realtà ad immagine americana, non può che demotivare ogni iniziativa indipendente e confermare quella condizione di continente perdente che si è affermata fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Ue e Nato non sono certo la stessa cosa, ma altrettanto certo è che i destini della prima non sono mai stati divergenti da quelli della seconda, e meno che mai lo sono ora, anche quando questo vassallaggio rischia di diventare disastroso.
II. Come dunque questi presupposti ideologici si applicano al caso ucraino? Anzitutto va notato che, questo caso si semplifica enormemente dal momento che si assume l’improbabile certezza della superiorità sociobiologica, prima ancora che politica, dell’occidente democratico rispetto all’oriente dispotico. Sotto questa opinabile prospettiva l’Ucraina, in quanto tutta classificabile come occidentale, non potrebbe infatti avere altro destino che sentirsi attratta dall’Ue e dalla Nato, mentre nella Russia con tutte le sue tradizioni in parte orientali non potrebbe non risorgere costantemente la vocazione, un tempo zarista, poi stalinista, oggi putiniana, ad espandere ovunque possibile il suo dispotismo. Così tutti i nodi più complicati della storia post-sovietica dell’Ucraina si scioglierebbero: non solo diventerebbero trascurabili le divisioni principali delle sue popolazioni tra russofoni e non, tra russofili e russofobi, ma troverebbero un’interpretazione univoca anche fatti più cruciali e controversi come la rivoluzione “arancione”tra il 2004 e il 2005, il governo del filorusso Janukovyč durato dal 2010 al 2014, la rivolta di piazza Maidan nel febbraio 2014, la strage di Odessa come pure la dichiarazione di indipendenza delle “Repubbliche del Donbas” del maggio dello stesso anno, e ancora, la guerra civile ivi scatenatasi con più di 14.000 vittime tra i contrari al governo di Kiev, i non rispettati accordi di Minsk nonostante la supervisione dell’Osce, l’onnipresenza ora manifesta ora segreta della diplomazia americana e così via. In una simile prospettiva, ogni episodio che dovesse confermare l’esistenza in alcuni settori della popolazione ucraina di una certa simpatia verso la Russia verrebbe subito sminuito come conseguenza delle pressioni e dei condizionamento messe in atto da quest’ultima, mentre ogni operazione o manifestazione antirussa sarebbe celebrata come naturale espressione della volontà del popolo ucraino.
Ma ci sono ulteriori inquietanti implicazioni di questa visione occidentale della guerra. Dal momento che in nome della difesa di democrazia e diritti umani, in Ucraina, come altrove, praticamente tutto sarebbe concesso, ne consegue che ogni operazione bellica condotta per questa difesa possa anche essere non dichiarata come tale, ma venire effettuata per così dire informalmente (o meglio per lo più segretamente), scaricandone ogni responsabilità sui nemici della detta democrazia. Non altrimenti si spiega come la maggiore parte dei media occidentali abbia esonerato tutto il noto attivismo militare e paramilitare della Nato nell’Ucraina prima del 2014 da ogni responsabilità della guerra, addossandola interamente all’invasione comandata da Putin, come se questo nel deciderla avesse fatto tutto da solo seguendo la sua ideologia dispotica ancestrale. Ma c’è anche un’altra ancora più grave implicazione del condurre una guerra senza motivarla esplicitamente, come hanno fatto e continuano a fare i governi alleati della Nato nel caso ucraino (oltre ai numerosi precedenti). Già Clausewitz nei primi dell’Ottocento lo aveva ben chiarito: che senza una dichiarazione di guerra, ogni guerra si apre alla possibilità di divenire senza limiti, assoluta, volta al puro e semplice, quanto disastrosamente irrealistico, annientamento del nemico. É conformemente a questa catastrofica e inconfessabile prospettiva che la propaganda occidentale si è sempre più accanita nel pronosticare che la caduta di Putin e il disfacimento del suo regime siano condizioni obbligatorie della pace, senza minimamente mettere in conto le probabilità di un connesso innalzamento fuori misura del pericolo di un’escalation atomica. Di più: senza neanche prevederne né le disastrose conseguenze economiche, né l’eventualità di controattacchi del nemico contro le proprie popolazioni. Ancor peggio: favorendo a livello di opinione la falsa percezione che l’Ue sia coinvolta in questa stessa guerra solo su un piano solidaristico e umanitario, ma non propriamente bellico, nonostante i copiosissimi invii al governo Zelensky di armi, finanziamenti, addestratori militari e così via.
III. Data questa massiccia e unanime propaganda occidentale quanto fin qui detto si espone ovviamente all’inevitabile accusa di “putinismo”. Contro di che non pare tanto il caso di insistere nel ribadire il quotidiano orrore provato da chi scrive di fronte alla caotica ferocia dell’invasione russa: essa sì dichiarata ( come “operazione militare speciale”), ma in modo tanto bislacco da prefigurare anche qui strategie di annientamento del nemico (cosa in effetti praticata coi bombardamenti sulle fonti energetiche indispensabili per la sopravvivenza invernale delle popolazioni ucraine). In merito alla tanto abusata accusa di putinismo sono piuttosto da sottolineare due punti per così dire di metodo.
Il primo riguarda la questione del “da dove?”. Da dove, da quale angolatura si osserva e si valuta la guerra in Ucraina. In effetti, se se ne parla – come qui si sta facendo – da un punto di vista occidentale, europeo o ancora più precisamente italiano, le prime cose da osservare e valutare sono evidentemente le scelte e le azioni dei governi occidentali, europei o italiani. Mentre affrettarsi a esternalizzare la questione, attribuendone anzitutto la responsabilità al nemico (russo), non può che portare ad eludere le “nostre” responsabilità: non può che portare a costruire alibi per giustificare tutte quelle che in realtà sono le enormi colpe occidentali, europee e italiane nel non avere saputo e voluto, prima disinnescare la probabilità della guerra quando se ne percepivano tutti i presagi, poi, ora, nel non fare nulla per interromperla, e anzi nel fare di tutto per acuire il conflitto all’estremo.
Il secondo punto riguarda la tanto dibattuta questione del multipolarismo che da qualche anno starebbe governando il mondo[1]. Se così fosse ne conseguirebbe che le responsabilità di quello che sta accadendo in Ucraina potrebbero essere attribuite alla sola Russia, in quanto nazione alla pari tra tutte le altre nazioni, mentre tutte le attività militari e paramilitari di Stati Uniti e Nato all’interno dell’Ucraina, prima e durante la guerra in corso, potrebbero essere derubricate come attività più o meno ammissibili di una nazione e più nazioni di pari potenza rispetto al resto mondo[2]. Questa tesi del multilateralismo geopolitico mondiale già realizzato è stata non a caso teorizzata nel 2009 dallo stesso presidente americano Obama in un famoso discorso all’Università del Cairo[3]. Così chiaramente si voleva interpretare in senso positivo il ridimensionamento già allora subito dal dominio mondiale statunitense da parte di paesi emergenti come i famosi Brics ( Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa…). Ma l’ammissione di questo ridimensionamento non implicava affatto una rinuncia della abituale leadership globale di Washington. Leadership che veniva invece riaffermata in termini di centralità democratica, garante ovunque del pluralismo geopolitico e dunque della parità di ogni nazione rispetto alle altre. Ed è proprio questa supposta parità a costituire il più grande inganno ideologico. Chi può infatti negare che la Casa Bianca resti sempre al vertice di centinaia e centinaia di basi militari sparse in ogni angolo della terra, che il suo budget per spese belliche sia sempre senza rivali, che in campo mediatico e logistico la faccia sempre da padrone o che per quanto contrastato il dollaro non cessi di condizionare ogni scenario finanziario? Fatto sta che tutte queste caratteristiche continuano ad assicurare alla superpotenza yenkee un incomparabile vantaggio rispetto a qualunque altra nazione dell’orbe terracqueo: la possibilità di elaborare, sperimentare ed eventualmente rettificare strategie senza confini, di portata globale, oltre ogni specifico contesto regionale per quanto vasto.
Ecco perché l’attivismo in Ucraina di Stati uniti e Nato assieme al protagonismo di personaggi come Victoria Nuland con la sua famosa e predittiva battuta (“L’Unione Europea si fotta!”) e il figlio di Biden, coi suoi non certo trasparenti affari, non possono essere considerati innocenti manifestazioni umanitarie e solidaristiche, ma vanno assunte come prove di precise strategie volte a contenere quel declino del “Washington consensus”, che è certo in corso, ma che permane ben lungi dall’essersi realizzato. E meno che mai a profitto di una gestione multipolare dei destini mondiali.
IV. Che fare allora? Per la nostra vecchia Europa non resta che riprendere ad intonare quella nenia “Andrà tutto bene” divenuta nota ai tempi più tragici della pandemia? Certo che no! Disertare[4] piuttosto. Ma che vuol dire oggi?
Almeno su un punto cruciale si potrebbe riprendere quella è una tra le lezioni più dimenticate del marxismo. Il punto è quello su cui tutta la propaganda occidentale ha buon gioco. Si tratta della democrazia liberale intesa come regime socio-biologico superiore, la cui presenza garantirebbe maggiore civiltà e progresso rispetto ad ogni altro regime. Se sinistra e destra in Europa, dove sono nate e si sono separate, si distinguono sempre meno è perché entrambi non osano più contrariare questo assunto. Non così era per Marx e per chi l’ha seguito per più di un secolo, sperimentando una varietà di lotte e rivoluzioni da tempo sempre più rare. In questa angolatura l’idea della democrazia era dialettica. Tale per cui, si diceva e si sapeva che ogni democrazia emergente a partire dall’Ottocento nascondeva una dittatura di classe (capitalista), così come la dittatura di classe proletaria per cui lottare avrebbe dovuto essere la massima democrazia possibile. Un rovesciamento dunque. Ma da intendersi non in un senso evolutivo, come se capitalismo e proletari potessero alla fin fine conciliarsi e collaborare, bensì come conseguenza di una rottura, quanto meno nel modo di pensare. Una rottura anzitutto rispetto a quel modo di pensare liberale secondo il quale la democrazia escluderebbe la dittatura e viceversa. É così che anche oggi tra l’occidente per l’appunto supposto democratico e l’oriente supposto dittatoriale si finisce per non vedere altra possibilità che la guerra. Ecco allora cosa rende attuale la dialettica marxista tra democrazia e dittatura: il fatto che riconoscendo l’inevitabile compenetrazione tra questi due tipi di regimi si evidenzia che solo la politica può deciderne il senso creativo oppure, altrimenti, conservatore, reazionario o bellicosamente distruttivo.
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* Questo articolo è anche sulla rivista on line Machina-DeriveApprodi.
[1] Per più recenti propaggini del dibattito si può vedere l’intervista di Francesco Pezzulli a Stefano Lucarelli sul librio dello stesso Luacrelli assieme a Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, La guerra capitalista , Mimesis 2022 su Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista.
[2] Posizione su cui regge ad esempio il recente intervento di Balibar ( http: // iai.tv/ articles/etienne-Balibar-ukraines-sovereignty- dpends-on-nato-auid-2294?).
[3] https://obamawhitehouse.archives.gov/issues/foreign-policy/presidents-speech-cairo-a-new-beginning
[4] Vedi Disertare la guerra. Arte e politica. Déserter la guerre. Art et politique.. https://revue-k.univ-lille.fr/cahier-special-2022.html