Aggressività e violenza
di Massimo Antonucci
Al primo incontro del Maggio filosofico (6 maggio 2010), a Rastignano (BO), sul tema “Dall’aggressione degli animali alla violenza degli uomini” è intervenuto Giorgio Celli, noto ai più come presentatore di documentari alla RAI, ma soprattutto etologo e uomo di vasta cultura. Il tema era stimolante, così come le sue osservazioni, che oltre ad essere ben documentate hanno avuto il grande pregio di tradurre un tema così complesso in una affabulazione divertente, ricca di aneddoti, per diversi aspetti illuminante. Celli ha operato una prima distinzione, che spesso non si ritrova nella manualistica delle scienze sociali, tra aggressività e predazione. Normalmente la distinzione in uso è tra: aggressività intraspecifica (cioè tra membri della stessa specie) e aggressività interspecifica (cioè tra membri di diverse specie). Ora Celli considera aggressività solo quella che, nella seconda distinzione, è chiamata aggressività intraspecifica. La cosiddetta aggressività interspecifica per lui è predazione (ad esempio quella del leone con la gazzella). Predazione per Celli non è aggressività, perché risponde semplicemente al bisogno di sopravvivere e di nutrirsi, così come per noi non è aggressività acquistare dal macellaio la carne e consumarla (è un suo esempio). L’unica differenza, come ha ironicamente notato, sta nel fatto che noi commissioniamo l’uccisione dell’animale a dei sicari! Sgombrato il campo da questo primo equivoco, la domanda è: cosa sarà mai allora aggressività? Aggressività è appunto quella che si manifesta tra membri della stessa specie. Bene! Perché esiste in natura l’aggressività? Nel mondo animale l’aggressività svolge fondamentalmente alcuni compiti: c’è l’aggressività tra individui maschi per assicurarsi l’accoppiamento e riprodurre il proprio patrimonio genetico; l’aggressività finalizzata a stabilire gerarchie nel branco (come nei lupi); l’aggressività che serve a circoscrivere un territorio che fornisce risorse preziose per la sopravvivenza. Del primo caso di aggressività, l’esempio riportato è quello della lotta rituale tra i cervi, a suon di cornate. Una lotta dura, ma senza spargimento di sangue. È lotta appunto ritualizzata, che non ha lo scopo di uccidere l’altro maschio (ha ricordato un episodio in cui, durante la lotta, un cervo ha esposto all’altro il fianco, prestando appunto il fianco ad un possibile attacco fatale; l’altro cervo, invece, ha semplicemente atteso che si rimettesse in posizione frontale per continuare la lotta a colpi di cornate!). Tra i lupi, e i loro discendenti cani, la lotta ha sempre e solo lo scopo di stabilire una gerarchia, mai quello di uccidere l’avversario. Chi perde nello scontro, infatti, si mette pancia all’aria e mostra il suo punto più debole, cioè la giugulare. In nessun caso, in natura, il vincente approfitta della situazione per sferrare l’attacco fatale; anzi, il vincente è portato a quel punto ad offrire cure al perdente, trattandolo come un cucciolo che si offre per la pulizia, e molto spesso lo lecca in modo benevolente. Solo cani deviati dalle “cure” umane, i cani addestrati per i combattimenti, arrivano ad uccidere l’avversario! Per quanto riguarda l’altra funzione, cioè quella relativa al delimitare un territorio, Celli ha portato un esempio tratto dalla sua osservazione: il caso di un pettirosso che una volta insediatosi in un albero, reagiva in modo aggressivo nei confronti di tutti quegli uccelli che avevano una macchia rossa nel petto (cioè altri pettirosso). Il caso è simile a quello riportato da Tinbergen a proposito degli spinarelli, pesciolini con una macchia rossa che allontanano gli altri spinarelli, riconoscendoli solo per la macchia rossa (Tinbergen ha fatto degli esperimenti riproducendo sagome grossolane di un pesce con una macchia rossa ben evidente, dimostrando che quello era il segnale che attivava l’aggressività dello spinarello). Ora in tutti questi casi l’aggressività svolge una funzione adattiva, cioè utile per la sopravvivenza della specie: nel primo caso è il più forte che può tramandare i suoi geni, rendendo la specie più adatta alla competizione per la vita; nel caso dei lupi, la gerarchia è funzionale alla vita del branco; nell’ultimo caso, l’allontanamento dei rivali da un certo territorio, è utile perché in questo modo gli individui che perdono la lotta, sono costretti ad occupare nuovi territori, diffondendo così la specie, che avrà più possibilità di sopravvivere.
Passiamo ora all’uomo. Esiste l’aggressività negli esseri umani? Gli studi etologici di Lorenz (in particolare è stato citato Il cosiddetto male del 1963, di cui Celli ha scritto l’introduzione nell’edizione italiana) offrono una risposta decisamente affermativa. In questo scritto Lorenz sostiene che l’aggressività, al pari di altri istinti quali la sessualità o la territorialità, sia un comportamento innato, e come tale insopprimibile e spontaneo, impossibile da far derivare dai soli stimoli ambientali. Essendo un istinto innato, l’aggressività è in quanto tale “al di là del bene e del male”, componente strutturale di ogni essere vivente e svolgente un ruolo fondamentale nell’ambito dei processi evolutivi e quindi della sopravvivenza della specie. Lorenz sostiene altresì che gli stessi istinti “buoni”, ovvero quelli gregari e amorosi, derivino evoluzionisticamente dalla stessa aggressività, essendo modificazioni selettive di questa indirizzati a finalità differenti, tanto che sopprimere l’aggressività significherebbe sopprimere la vita stessa. Il libro suscitò polemiche violentissime, dato che Lorenz non limitò le sue riflessioni all’ambito animale, ma le estese anche a quello umano e storico-sociale. Le accuse si sprecarono e la polemica, dal terreno scientifico, su cui Lorenz intendeva mantenerla, scivolò, com’era prevedibile, su quello politico ed ideologico: gli diedero del razzista e del guerrafondaio. In realtà il proposito del testo era quello di criticare le correnti comportamentiste e behavioriste, allora molto in voga, secondo cui tutti i comportamenti derivano in ultima analisi dalle influenze e dagli stimoli ambientali, modificati i quali sarebbe possibile modificare gli stessi comportamenti, aggressività inclusa. Per i comportamentisti, quindi, non vi sarebbe nulla di innato. Lorenz, al contrario, considera l’istinto un dato originario, geneticamente condizionato: in quanto tale, esso vive di vita autonoma, non vincolandosi necessariamente all’azione di quelle influenze ambientali aventi la funzione di stimoli scatenanti. Anzi, secondo Lorenz più un istinto non trova occasione di scatenamento, più aumenta la possibilità che esso si scarichi prima o poi in maniera ancor più dirompente, anche in assenza degli stimoli corrispondenti. Lungi dal costituire un’apologia della violenza e della guerra, l’opera di Lorenz intendeva innanzi tutto mettere in guardia da ogni posizione utopica circa la convivenza umana e la risoluzione dei conflitti, risoluzione che, per essere realistica e antropologicamente fondata, non poteva prescindere da dati e analisi che egli riteneva incontrovertibili. Al contrario, proprio la mancata conoscenza del funzionamento dei comportamenti innati poteva portare a risultati opposti a quelli auspicati, finendo per favorire proprio l’innesco di comportamenti deleteri per la pacifica convivenza. Sostenendo l’impermeabilità di fondo ai condizionamenti ambientali degli istinti basilari dell’uomo come di tutte le specie animali, Lorenz vuole evidenziare così le illusioni insite nella convinzione secondo cui l’educazione e la trasformazione dell’assetto politico-sociale sarebbero di per sé sufficienti a modificare e plasmare i comportamenti umani. E questo non perché egli negasse ogni valore alla cultura o alla dimensione spirituale dell’uomo, quasi a volerlo ridurre ad un animale tra i tanti e per ciò vincolato esclusivamente ai suoi istinti. Critico di ogni antropologia che risentisse del mito rousseauiano del “buon selvaggio”, egli sottolineò piuttosto come la “pseudospeciazione culturale” tipica della specie umana ha portato i gruppi umani –siano essi i clan, le tribù, le etnie o le moderne nazioni – una volta raggiunto un determinato grado di differenziazione reciproca, a relazionarsi in modo molto simile a quello delle specie animali più evolute, specie tra le quali, come accennato sopra, la conflittualità intraspecifica gioca un ruolo fondamentale all’interno dei processi adattativi. Lorenz evidenzia come diversi comportamenti risalenti a fattori culturali rivelino una fenomenologia sorprendentemente simile a quelli di origine genetica, facendo risaltare così una certa convergenza tra le dinamiche animali e quelle umane, convergenza che non riguarda solo l’aggressività, ma anche fenomeni come la territorialità, l’imprinting, il gioco ed i riti. Anche gli studi di Irenäus Eibl-Eibesfeldt (Amore e odio, 1971) portano alla stessa conclusione: una pulsione aggressiva innata esisterebbe anche in quelle popolazioni indicate come particolarmente miti dagli studi antropologici. Mi sembra utile fare una breve parentesi per operare una distinzione tra pulsione e istinto: parlare di pulsione nei comportamenti degli esseri umani è, infatti, probabilmente più corretto. Come ci ricorda Galimberti nel suo Dizionario di psicologia, riprendendo la distinzione operata da Freud: “L’istinto è concepito da Freud come un comportamento animale fissato dall’ereditarietà, caratteristico della specie, preformato nel suo svolgimento e adattato al suo oggetto; la pulsione invece è una costituente psichica che produce uno stato di eccitazione che spinge l’organismo all’attività, anch’essa geneticamente determinata ma suscettibile di essere modificata nell’esperienza individuale”. In altri termini, quando si parla di uomo va sempre tenuta presente la dialettica natura/cultura, dove la cultura è diventata una seconda natura in grado di plasmare, almeno in parte, gli istinti. Eibl-Eibesfeldt, infatti, ci ricorda gli studi antropologici di Margaret Mead (Sesso e temperamento, 1967) in cui la ricercatrice ha studiato diverse società della Nuova Guinea, osservando che l’aggressività in queste società si manifestava in modo molto diverso: gli Arapesh, ad esempio, risultavano essere particolarmente miti; mentre i Mundugumor mostravano comportamenti fortemente aggressivi e crudeli. Eibl-Eibesfeldt nota che questo carattere degli Arapesh, in realtà, non indica l’assenza di aggressività, ma una diversa “gestione” dell’aggressività in quella cultura: “Come esempio di attaccamento alla pace determinato culturalmente vengono spesso indicati gli Arapesh della Nuova Guinea, ma anche costoro (che, a quanto se ne dice non vengono mai alle mani) non sono privi di aggressività. Margaret Mead scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti: se due ragazzi, mentre giocano, vengono a lite, subito interviene un adulto e li separa, l’aggressore viene allontanato dal luogo di gioco e trattenuto; egli può poi battere i piedi per l’ira, gridare, rotolarsi nella sporcizia, gettare a terra pietre e ceppi di legno, ma non può toccare altri ragazzi!”. Queste osservazioni suggeriscono alcune considerazioni relative all’educazione: una cultura, e l’educazione che ne deriva, possono incidere sulla modalità di gestione dell’aggressività e canalizzarla diversamente, impedendo di scaricarsi in forma violenta su altri esseri umani.
Ora, una volta stabilita la presenza di aggressività negli esseri umani (affermazione che anche Freud sottoscriverebbe!), cosa la differenzia dalle manifestazioni che abbiamo sommariamente descritto a proposito degli animali? La differenza fondamentale è che l’uomo arriva, come ben sappiamo, ad uccidere altri uomini! Cioè, al contrario degli animali, arriva ad infliggere danni irreparabili (in base a questa considerazione non possiamo certo vantare la nostra superiorità come specie homo sapiens! ). Come è nata questa degenerazione dell’aggressività in violenza? Una spiegazione, che Celli ha definito di carattere “storico” ma forse sarebbe meglio definire “storico-tecnologica”, sarebbe quella che vede nell’invenzione di nuove armi, strumenti di morte sempre più raffinati che consentono l’ uccisione del nemico da una distanza crescente, il fattore che ha fatto saltare i naturali meccanismi di inibizione, presenti probabilmente nella primitiva lotta corpo a corpo. Si sarebbe creata, così, una crescente deresponsabilizzazione di colui che usa le armi per colpire persone sempre più distanti: chi ha sganciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki, oltre ad avere delle forti motivazioni ideologiche, sarebbe stato “facilitato” dal fatto che viaggiava a qualche migliaio di metri ed ha dovuto semplicemente premere un pulsante. Questa spiegazione coglie sicuramente aspetti di verità. Mi viene da pensare che, se per la semplice “predazione”, noi dovessimo uccidere con le nostre mani gli animali da mangiare, probabilmente crescerebbe il numero di vegetariani! Una diversa osservazione riguarda la diversità culturale nell’affrontare l’aggressività e la sua degenerazione in violenza: esistono culture che enfatizzano la competizione e la violenza, a scapito dell’empatia e della cooperazione, forze anch’esse profondamente umane, senza le quali non esisterebbero le nostre società! Il discorso di Celli, con un salto apparentemente arbitrario, si è concluso con osservazioni riguardanti i mass media e la comunicazione pubblicitaria. Ma proprio l’ultima considerazione fatta a proposito dell’influenza culturale su determinate pulsioni (si può forse dimenticare come la comunicazione pubblicitaria solletichi continuamente la pulsione sessuale?) ci offre la chiave per spiegare il salto: i mass media e la pubblicità sono micronarrazioni mitiche dove le pulsioni sessuali e aggressive vengono continuamente sollecitate. Se l’aggressività è una pulsione umana ineliminabile, bisogna interrogarsi seriamente su come questa pulsione possa essere gestita in modo non distruttivo, così come ci insegnano i nostri parenti animali!